Falsi miti sui festival internazionali

Si parla tanto e spesso a sproposito o solo per sentito dire dei grandi raduni musicali, europei e non. Proviamo a mettere alcuni “puntini sulle i”.  E magari innescare una riflessione collettiva e condivisa. Articolo di Umberto Scaramozzino. 

Gira da un paio di giorni la notizia secondo cui il Primavera Sound, festival e brand multinazionale nato a Barcellona, sarebbe in trattativa per arrivare in Italia, nello specifico a Torino. Ne abbiamo parlato qui.

Leggendo un paio di post di addetti ai lavori e di appassionati frequentatori di concerti nazionali mi accorgo che, come sempre, i luoghi comuni proliferano. A far attecchire il parassita dell’iper-polemica preventiva sono spesso persone che si vantano di non aver mai fatto un festival fuori dall’Italia e di preferire l’esperienza autentica della sagra della porchetta. Magari sono anche le stesse che citano ancora oggi Eddie Vedder al Pinkpop del ‘92, per intenderci.

La verità è che esistono decine di realtà virtuose, consolidate, in tutta Europa. Il Primavera Sound è solo uno di questi festival fighi che continuano a crescere, laddove invece in Italia si annega ancora nelle rassegne diluite su più settimane, con le solite note criticità che da un po’ di giorni sono finalmente diventate trend topic.

Prima che però la controparte caustica e conservatrice ci sotterri con le sue invettive contro queste manifestazioni che vorrebbero venire a spiegarci come si fa, è doveroso smontarne i falsi miti, nella speranza di poter accogliere il cambiamento con un briciolo di consapevolezza in più. Proviamo a estrapolare qualche asserzione per dare un punto di vista alternativo, in virtù di qualche esperienza all’estero assolutamente positiva. E proviamo a farlo senza citare i token. Ops – senza citarli a partire da adesso.

“Ai festival devi correre da una parte all’altra”

No, non devi. Puoi farlo, ma non devi. Se vuoi fingere che i cinque, dieci, quindici palchi del festivalone siano in realtà cinque, dieci, quindici festivalini separati – perché questo ti rassicura e ti fa sentire a casa – puoi farlo. Oltretutto il costo di una giornata singola di un festival è uguale o inferiore a un pit di una qualsiasi data unica italiana. Quindi, anche se vai per uno o due gruppi, non ci perdi neanche soldi. E se non vuoi correre puoi stare sotto lo stesso palco, tenere la posizione, litigare con chi ti supera convinto che la zolla di terreno sia numerata e ti spetti di diritto. Non devi muoverti di un millimetro se non vuoi. Puoi persino restare a casa, nel caso.

“I festival ti vedono come un pollo da spennare”

Questo al massimo vale per tutto il carrozzone dell’intrattenimento live. Ma nella maggioranza dei casi, quando si parla di grosso festival internazionale, vale l’esatto opposto. Questi eventi sono prima di tutto dei brand e in quanto tali non lavorano sulla singola vendita, ma sulla percezione e sul risultato sulla lunga distanza. Si tratta di un modello (virtuoso) di business totalmente differente, che mira a fidelizzare e che in alcuni casi estremi – vedi Glastonbury o Coachella – riesce infatti ad andare sold out anche al buio, prima dell’annuncio delle lineup. Perché negli anni precedenti hanno lavorato bene e dato un buon servizio, creato una storia di successo con continuità e quindi credibilità, perciò le persone vogliono ripetere l’esperienza, prima ancora di rivedere questo o quell’altro artista specifico. E dopotutto, conti alla mano, pure per consumare si spende meno. E non nominerò quella parola lì a cui state pensando. Shhh.

“Di tutti quei gruppi, agli avventori dei festival non interessa nulla”

Ecco, questo a volte è purtroppo vero. Infatti capita spesso di ritrovare mandrie che vivono il live pomeridiano come musica in sottofondo durante il loro aperitivo estivo. Questo effetto, però, viene spesso annegato nella vastissima proposta musicale di questi cartelloni mastodontici.

Sto per dire una banalità, ma la fruizione migliore, con la proposta di maggior qualità e ricercatezza, si nasconde nei palchi minori. Si tratta anche in questo caso di una scelta. Anzi, plot twist: spesso ti ritrovi in mezzo a persone con un ventaglio di ascolti molto ampio, non il classico fanatico integralista che conosce a memoria le tracklist di b-sides della band preferita, ma poi pensa che ascoltare qualcosa di nuovo lo possa contaminare.

Se ti trovi al palco 4, alle cinque del pomeriggio, sotto il sole, è perché hai scelto di dare una chance a quella band, o perché quella band la ami già e vuoi vederla a tutti i costi. Altrimenti potevi stare senza sforzo al gran raduno del Main Stage, o a berti una birretta agli stand degli sponsor, o a fare la siesta.

“I festival con tutti quei gruppi mettono ansia”

Eh, dipende cosa ti genera ansia. Ti manda più in sbattimento dover scegliere tra gruppo 1 sul palco A e gruppo 2 sul palco B, oppure decidere con un anno di anticipo se comprare – o meglio, provare a farlo – un biglietto PIT perché in alternativa dovresti arrenderti al posto unico e bestemmiare e polemizzare poi in loco?

“Ai festival vedi poco e senti peggio”

Mah, come a ogni concerto: se arrivi presto e hai una buona posizione vedi e senti bene, altrimenti no. Anzi, negli ultimi anni in Italia è capitato spesso che nel famigerato PIT non si sentisse nulla o che fuori da esso fosse matematicamente impossibile vedere (megaschermi compresi) o sentire qualcosa. Quindi, di cosa stiamo parlando? Oltretutto, se non si punta alla transenna, a un grosso festival non è così difficile avvicinarsi al palco muovendosi con leggero anticipo rispetto all’orario di inizio programmato, a patto di saper rinunciare a qualche piatto del buffet. Ma questo si sperimenta sul campo, non alla suddetta sagra della porchetta.

“Ai festival gli artisti suonano di meno”

Sì, è mediamente così, ma in questa affermazione c’è nella migliore delle ipotesi dalla disonestà intellettuale di fondo. Perché a parte gli headliner tutti gli altri nomi sono da considerarsi una sorta di opening act, e anche fuori dai festival gli opening act suonano meno. Detto questo, se non si vuole comprare la musica un tanto al chilo, si può anche notare che talvolta le band non-headliner in queste manifestazioni confezionano show brevi ma memorabili.

Possiamo parlare di qualità? Magari di intensità? Fate voi, ma il luogo comune dei concerti che durano meno è un triste esercizio di polemica sterile. Questioni economiche a parte, nessuno ci vieta di vedere un artista in questo contesto e poi scegliere – magari proprio dopo uno show notevole – di investire qualche soldo per rivederlo alla prima occasione headliner, con qualche pezzo in più in scaletta.

“Ai festival gli artisti suonano senza impegno, senza interesse, senza cuore”

Agli artisti interessa che tutto funzioni bene, avere buoni suoni, avere un buon pubblico e auspicabilmente crearne uno nuovo. Resta comunque il loro lavoro, non un atto di volontariato nei confronti dei poveri fan bisognosi. E per lavorare bene devi trovarti nelle condizioni di poterlo fare. Per esperienza personale, questo succede più frequentemente ai grandi festival internazionali che non alle nostre date singole estive da record di vendite.

Avete mai sentito una band lamentarsi o snobbare eventi come il Primavera Sound? Suppongo di no. Basta parlare con un qualunque artista di qualunque provenienza per sapere che a loro, questi eventi, piacciono. Perché? Perché dietro al palco probabilmente vengono trattati con rispetto e con professionalità, mentre davanti al palco, in mezzo a tutta quella folla, è probabile ci sia una reale fetta di nuovo pubblico, che vivendo una bella esperienza generale è anche ben disposto, con le orecchie aperte e pronto a segnare a calendario la data headliner della stagione successiva.

La musica dal vivo o la promuovi così o generando hype coi trend di TikTok, finiamola di mescolare le due modalità, solo perché viene comodo per separare “noi” da “loro”. Altrimenti si torna al solito: “sì, ma loro chi?”.