L’irresistibile spettacolo di satira surrealista dello Sgargabonzi

Alessandro Gori sale sul palco dell’Hiroshima Mon Amour con il suo nome di battesimo, l’ombra di una polo e di un cappellino da baseball nel proscenio completamente buio, che delineano una silhouette astratta, quasi a evocare la presenza fuori campo che animava la striscia Rai “Una pezza di Lundini”, la trasmissione che nel 2020 lo fece conoscere al grande pubblico generalista della Rai. Reportage a cura di Oliver Crini. 

Sul palco, Gori smette i panni dello Sgargabonzi, come a ripercorrere l’autodafé dell’omonimo blog che dal 2012 fino a poco tempo fa ha raccolto pensieri e parole che spinsero Claudio Giunta a scrivere di lui su Internazionale come “il migliore scrittore comico italiano”. Oggi il dominio sgargabonzi.com è libero, e rimanda a uno spam delle parole chiave “lavorare con gli animali“. Sembra quasi una delle sue gag. Con queste premesse altisonanti, il pubblico in Sala Grande, un centinaio di persone dai 25 ai 45 anni circa, prende rapidamente posto nelle file di sedie ordinate e il comico aretino non si fa attendere.

Seguono un’ora e mezza circa a tutto campo, fatti di sketch talvolta brevissimi, più spesso divagazioni estemporanee, poesie e persino e aneddoti personali (veri o immaginari? Forse verosimili, perché con Gori il criterio di realtà è sempre messo in discussione).

La scrittura di Gori non può essere parafrasata: è un vortice che raccoglie insieme i fumetti di Zagor e Dylan Dog, le donne, i migranti (“alla prima scorreggia: tutti a casa!”), il cibo della Bofrost, Napoli, Silvio Berlusconi, località amene della Rivera Romagnola, barzellette spiegate al pubblico e accanimento con le manifestazioni della fragilità umana: l’Alzheimer, la disabilità, la vecchiaia.

Notevole, sul finale, l’estraniante encomio / condanna al padre che l’ha cresciuto tra sacrifici e caffè alle sei e mezza del mattino, mentre andava a lavorare “nella sua Fiat Ritmo senza riscaldamento”, che oggi è malato di Alzheimer. Gori sogna di iniettargli una fiala di cloroformio nella giugulare e rapirlo dalla sua RSA, per rinchiuderlo in un labirinto su più piani e osservarlo mentre si aggira sporco e derelitto, sperduto e demente in attesa di essere divorato da un coccodrillo cieco gigante.

Lo spettacolo scorre con agilità, e Gori rivela anche una voce comica inaspettata, una capacità di accompagnare il nonsense che invade la serata con il tono della voce, con le pause e gli scatti di ira improvvisa che ricordano quasi uno Stefano Rapone incazzato e surrealista.

Chiude lo spettacolo la proiezione del “Trattatello definitivo sulla Riviera Romagnola”, un corto diretto da Eddie Da Silva, sonorizzato da Valeria Esposito e scritto dallo stesso Gori, che oscilla tra il memoir stucchevole a la Libro Cuore, e l’angoscia romagnola così ben cantata dagli Offlaga Disco Pax. Per Gori, quel mese e mezzo estivo passato a Milano Marittima significava opporsi al “presentabile olocausto” che era il rientro a casa dai nonni, con le loro “crostate industriali Despar alla prugna e la morte”.

All’estremo opposto, i non luoghi romagnoli, hotel, chioschi di legno colorati, sale giochi e discoteche ti illudono “che si possa passare da un momento piacevole all’altro, per sempre”. In vacanza si può stare tranquilli: le cellule non mutano. E se ci fosse “un radar che mi indica il malato terminale più vicino, è facile che lo darebbe lontano chilometri e chilometri”.

Molto più di un luogo ameno, una sorta di benedizione laica, capace di annullare quel dolore e quell’insensatezza della natura umana che Alessandro Gori mette in ogni sua battuta, nascoste tra una torta Ape Regina della Cameo, una Bomba al pompelmo rosa e un Boero: zuccheri semplici del vivere quotidiano.