L’orchestra da camera di Matt Elliott

Matt Elliott è da solo sul palco ma attorno a lui pare di sentire un’orchestra. E lo Ziggy si trasforma per l’occasione nel boudoir dell’atipico chansonnier d’origine britannica riportato in città dalla crew di Burning Tower in tandem con Hardstaff Booking. Report a cura di Lorenzo Giannetti, gallery firmata da Ettore Castellani.

Siamo di fronte ad un fuoriclasse e al contempo un outsiders in grado di alimentare un piccolo ma fedelissimo culto carbonaro: non stupisce dunque che più di 70 anime abbiano deciso di affrontare un algido mercoledì di novembre per affollare lo Ziggy per il concerto di Matt Elliott organizzato dalla crew di Burning Towers. E infatti, quasi tutti gli amici che incrocio tra bancone e banchetto, mi confermano che erano presenti anche all’ultima data del cantautore inglese al Blah Blah e un bis era d’obbligo dopo quell’esperienza folgorante.

L’Arci di San Salvario si presenta con un assetto quasi da jazz club: luci soffuse e qualche calice di vino sui tavolini sparsi lungo il parterre. Matt è un animo tormentato ma gentile, pacato e di poche parole ma allo stesso tempo portato a creare un’atmosfera di calda familiarità col suo pubblico. Con estrema naturalezza e senza indugio procede nella costruzione delle sue canzoni come fosse il direttore di una piccola orchestra da camera. Un one-man-band artigiano che stratifica il suono di chitarra, voce e loop station, facendo intrecciare melodie strumentali e linee vocali con sempre più frequenti incursioni del sax (del resto quest’ultimo si ritaglia uno spazio importante anche nel suo ultimo disco in studio intitolato The End of Days: ennesimo tassello di pregio nella sua carriera). In tal senso, a maggior ragione in quel di Torino, viene in mente il post-rock intimista di Paolo Spaccamonti, sebbene le reference più affini potrebbero andare più nella direzione di cantori dark-folk come Rome o Pall Jenkis.

Tuttavia nell’approccio decisamente psichedelico alla forma-canzone, Elliott evoca il suo passato come demiurgo dei Third Eye Foundation e in generale la sua formazione a Bristol (prima di diventare un francese d’adozione) nel solco dell’elettronica più astratta. Le sue canzoni-fiume scorrono ora placide ore impetuose tra fingerpicking e distorsione arrivando spesso ad un minutaggio elevato: in quest’ottica Elliot ricorda quasi un producer abile a giocare coi saliscendi della sua traccia sul dancefloor, ovviamente in versione crepuscolare e intimista.

A metà concerto siamo già completamente assorti, rapiti, naufraghi. Il nostro capitano senza regole né destinazione, allora, si concede persino una cover in italiano, e che cover! Elliot intona il canto anarchico “Il Galeone”: ci strappa un sorriso per la pronuncia non perfetta ma ci strappa anche il cuore per la dolcezza mista al trasporto della sua accorata versione. Ad un certo punto, osservando la foto proiettata sullo schermo del locale – che lo ritrae un (bel) po’ di anni fa – sussurra un commento sornione sullo scorrere del tempo, giusto per irridere la vecchiaia che inesorabile arriva per tutti: questo concerto ci conferma che indubbiamente Matt Elliott invecchia come il buon vino. Un brindisi al suo inestimabile canzoniere è tutto ciò che possiamo fare per affrontare un altro giorno in cui, come dice lui, “non siamo attrezzati per sopravvivere“.

Immagine di copertina  e gallery completa sul nostro profilo IG a firma Ettore Castellani (clicca qui)

Segui i prossimi appuntamenti targati Burning Tower e Hardstaff Booking