“Questa è la terza volta che torniamo in questo posto”, dicono i Protomartyr, che ormai alle pareti dello sPAZIO211 di Torino avranno sicuramente appeso qualche poster. Una seconda casa, che accoglie i musicisti di Detroit come solo i club storici di periferia sanno fare: non ospitandoli, ma consegnando loro le chiavi per una sera. Reportage a cura di Umberto Scaramozzino. Foto di Nat Cole.
La sensazione, sia per chi li vede per la prima volta, sia per chi aggiunge una tacca al conteggio, dovrebbe a questo punto essere proprio quella di andare a trovare la band, più che di andare a vederne lo show. Ma i paladini del post-punk a stelle e strisce di sicuro non sono famosi per il loro contatto col pubblico, per il loro sforzo empatico o per la loro espansività. Perlomeno il frontman Joe Casey, che si presenta sul palco torvo, con il suo solito incedere lento, disinteressato. Gli americani lo definiscono “anti-carismatico”, perché sembra faccia di tutto per non piacere e apparire annoiato e quindi annoiante. Ovviamente Joe Casey sulla psicologia inversa ci ha costruito una carriera di oltre un decennio e sa esattamente che così facendo, grazie al bisogno di approvazione interiorizzato e radicato nella nostra cultura non faremo altro che seguirne ogni movimento, ogni espressione, alla ricerca di sfumature che Joe non ci concederà mai.
Non lasciamoci deviare da quest’approccio: nonostante la comunicazione seria, talvolta grave, i Protomartyr sono un concentrato di auto-ironia. Non a caso il primo album in carriera venne intitolato “No Passion All Technique”, prevedendo alcune delle facili critiche che gli sarebbe state mosse contro, da chi non è in grado di scavare poco oltre la superficie. In fondo dietro a quel cinismo e a quello scazzo imperante, c’è una sconfinata emotività che pervade tutta la poetica di Joe Casey e del progetto. Ne è pervaso anche il club torinese, che immerso nelle sue luci rosse accoglie quel muro di suono da fine dei tempi.
Il sound dei Protomartyr, poi, è sempre stato ed è ancora dannatamente irresistibile. Insistiamo a definirli post-punk perché si sono ritrovati questa etichetta appiccicata addosso già nel 2010, poco prima che dall’altra parte dell’oceano un intero movimento seguisse gli stessi passi. Dunque sembrerebbe irrispettoso togliergliela proprio ora che dovrebbero prendersi un evidente merito, tredici anni dopo essersi sorbiti la facile critica di essere poco originali. Nessuno vuole detronizzare i Protomartyr, ma ammettiamo che continuare a parlare di post-punk, a questo punto del loro percorso artistico, è quanto meno limitante.
I brani estratti dal nuovo “Formal Growth In The Desert” ci mostrano una band forse al suo picco creativo. La capacità del combo del Michigan di costruire intorno a un’immagine desertica la sua intera epica artistica è formidabile. I toni crepuscolari, pessimisti e al limite del post-apocalittico invadono lo sPAZIO211 di Torino con un’angoscia che si fa anche estetica e teatrale. Mentre Joe Casey assume tutte le pose da anti-divo che conosce, dando anche le spalle al pubblico mentre beve la sua birra Moretti in lattina, sappiamo che nel suo deserto emotivo soffia ancora forte il vento della morte, di un lutto devastante come quello che ha dovuto affrontare in seguito al decesso della madre.
Le composizioni taglienti del chitarrista Greg Ahee, sorrette dalla cupa ritmica di un Alex Leonard più che mai ispirato, si manifestano sul palco andando a creare una struttura post-post-punk. C’è un limite al numero di “post” da preporre al punk? Forse non per i Protomartyr, che ormai non vengono più sfiorati dai paragoni con i The Fall e pur restando legati al rinnovato fervore musicale della Motor City sembrano distanziarsi da qualsiasi riferimento statico, in un approccio sempre più unico.
Giunti all’encore, i Protomartyr regalano le ultime perle del passato, da “Jumbo’s” – probabilmente la traccia più memorabile del loro debutto – a “The Devil in His Youth”, fino alla conclusiva “Why Does It Shake?” che otto anni dopo la sua uscita resta l’epilogo perfetto. La platea è a questo punto totalmente soggiogata ai modi di Joe Casey, che pur senza fare nulla più del suo solito, in qualche modo dà il giro e diventa anti-anti-divo. Ancora una volta: quanti “anti” si possono preporre a un divo? Joey vi risponde sorseggiando l’ultimo sorso di Moretti e uscendo dal palco senza proferire parola. I Protomartyr riconsegnano così le chiavi della loro casa di Via Cigna, a Torino, e senza troppe smancerie scompaiono dietro a un’invisibile tempesta di sabbia. Il miraggio di quel manifesto indie rock americano si dissolve, lasciando impressa nella retina l’istantanea di un concerto post-tutto, anti-tutto.
Foto di Nat Cole.