Legni di Arden: dal Bardo a Muscato

In scena sul palco del Teatro Carignano di Torino, fino a domenica 5 giugno, la commedia shakespeariana Come vi piace diretta con soluzioni piuttosto particolari dal regista Leo Muscato. 

Amico mio, io non sono ciò che sembro”  –  da Il folle di Kahlil Gibran

di Matteo Tamborrino  –  Osservare il palco vuoto, una conifera scenica buia a sipario aperto, prima che lo spettacolo cominci, porta a chiedersi: e se un tronco di Arden fosse caduto in un fiume, uno di quelli in cui Jacques amerà poi riflettersi, e fosse giunto con la corrente sino a noi, dopo un viaggio lungo quattrocento anni, che cosa potrebbe mai rimanerne? Che cosa avrà intagliato, su quel legno, il regista?

Come vi piace venne composto da William Shakespeare presumibilmente nel biennio 1599-1600. Si tratta di un momento centrale della vita del Bardo: di lì a pochi mesi verranno alla luce le sue grandi tragedie, prima fra tutte Amleto; ma è anche il giro di anni in cui il drammaturgo mette in scena la Dodicesima notte, la cui protagonista – Viola – può dirsi “compagna di merende (e di travestismi)” della bella Rosalinda. Per altro – felice coincidenza – giusto un anno fa Carlo Cecchi calcava proprio il palco del Carignano con quest’altra grande pièce shakesperiana, per molti versi affine all’As You Like It. Un’ilare commedia dunque in cui si ride e si sorride, ma in cui comunque le interferenze distorcenti della malinconia non sono trascurabili. Non si può poi dimenticare il fatto che la commedia si apra con un atto carico di topoi tragici.

Facciamo un passo indietro. Come ci ricorda Rosanna Camerlingo nel compendio di Letteratura inglese pubblicato da Einaudi, Come vi piace probabilmente deriva da Rosalynde, un romanzo prosimetrico pubblicato qualche anno prima da Thomas Lodge; la commedia narra le vicende dell’amore tra Rosalinda, nipote del Duca Federico, usurpatore del trono del fratello maggiore, e Orlando, uno dei figli di Sir Rowland de Boys (nemico del Duca usurpatore), maltrattato dal fratello Oliver. Gran parte delle vicende si svolge nella foresta di Arden, ritiro (pseudo)arcadico che rimanda al cognome della madre di Shakespeare, Mary, o anche alle Ardenne del mondo d’oltremanica. In questo microcosmo Rosalinda en travesti, celandosi dietro i panni maschili di Ganimede e accompagnata dalla cugina Celia (sotto il falso nome di Aliena) e dal fool Touchstone, si troverà a fare i conti con una realtà da età dell’oro, dove incontrerà la contadina Audrey, i pastori Febe e Silvio e il cortigiano esiliato Jacques. Un’esistenza amena ma – nel profondo – un po’noiosa.

Come avvicinarsi a quest’opera nel modo più genuino possibile? Ce lo dice Shakespeare stesso, tramite Celia: «Ora allontaniamoci felici | verso la libertà, non verso l’esilio» (I.3, vv. 135-36). Con una risata sì, ma a bocca chiusa. Se volessimo spingerci in una pedantesca analisi retorica della frase, noteremmo un chiasmo (allontanarsi:felicità=libertà:esilio) con ossimori e antitesi (lontananza felice; libertà/esilio). E questo sembra essere il sottofondo di tutta l’opera. Interessante constatare che, passando al piano fisico, gli attori di Muscato per ben due ore e mezza si spostano rapidi e, alcuni, con una certa ritmata e legnosa tensione (come se fossero disposti sui bracci di una croce di San Patrizio), proponendo una foresta «alla rovescia» (testuali parole nel programma di sala) e sfoggiando abiti del tutto contrari alla tipica, eterea e ormai consunta iconografia dell’As You Like It, troppo a lungo letto come un dramma boschereccio, ecloga arcadica dai toni mozartiani. Insomma, in Muscato, della levità vagheggiante delle cromie (alla Aldrina di Morris, per intenderci) non resta più nulla. È un tripudio di colori.

Concludiamo questo obbligato prologo con un’ultima precisazione, messa in evidenza dal Professor Bertinetti durante l’ultimo incontro della rassegna “Retroscena”, tenutosi il 19 maggio scorso presso la Sala Colonne del Teatro Gobetti: uno dei maggiori problemi posti dall’As You Like It consiste nel fatto che – in traduzione – l’opera può potenzialmente diventare noiosa, costruita com’è sulla fantasia verbale del fool (parte scritta su misura per il nuovo membro della compagnia dei Chamberlain’s Men, Robert Armin, che aveva sostituito proprio nel 1599 l’istrionico buffone, dalla comicità più gestuale, Kempe) e sui giochi di parole.

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photocredit: Alfredo Tabocchini

MESSI IN CHIARO TUTTI QUESTI ELEMENTI PRELIMINARI, PROVIAMO AD ANALIZZARE IL LAVORO DI MUSCATO E DELLA SUA TROUPE.

Eccezionale la povera scenografia, una scatola a tre pareti, che svetta verticalmente, fatta di fettucce sporche e terrose che cadono verso il basso e che danno alla scena un che di imponente, altero, radicato. Questa staticità apparentemente insormontabile delle “mura” del palazzo di corte viene però puntualmente contraddetta dall’apertura (da parte degli attori) del fondale, a simulare una sorta di tenda/sipario, per far entrare e uscire il trono mobile del Duca usurpatore. Quella stessa scenografia, illuminata ora con colori caldi e autunnali e adornata di foglie brune, si trasformerà nella radura dell’eros, Arden. Sembra di ammirare la serie dei faggi di Klimt.

Le musiche, eseguite dal vivo da Dario Buccino con strumenti a corda, sono di gran bellezza: non avvolgono come in un drammone arcadico pieno di sinfonie emotive, ma coinvolgono, imprimendo un ritmo nell’animo, e degli attori e degli spettatori. Sembra di accarezzare un tronco e di rimanere occasionalmente punti da qualche scheggia, che ci desta, ricordandoci che questa commedia non vuol creare immedesimazione piatta, ma una grottesca distorsione delle abitudini. Due gli elementi scenici di supporto: l’albero con rotelle, che segue Jacques come un’ombra, e il già citato trono di Federico, che ricorda la poltrona d’un barbiere (una scelta quest’ultima un po’ ai limiti, così come gli intermezzi con il gregge di pecore, di un kitsch che poteva essere evitato).

I costumi, di Vera Pierantoni Giua, sono accesi ed estrosi. Sembrano usciti da un calderone: dal punk di Rosalinda e del buffone, alla frivolezza degli abiti di Celia, che hanno un tocco anni ’50; dalle caricature pastorali di Silvio, Febe (che ricorda un po’ la Bo Peep di Toy Story) e Audrey, al metastorico abito di Oliver, passando per i nobili figli dei fiori ritiratisi ad Arden e giungendo sino alla plumbea tenuta di Jacques, che ricorda l’iconico Piton di Alan Rickman.

Veniamo ora agli interpreti. Divertente il duo comico formato da Laura Pozone e Mariangela Granelli: simpatiche, fresche, senza arrivare mai ad annoiare con i loro siparietti; c’è poi Giulio Baraldi, proteiforme trasformista, che supera la pratica del doubling, in quanto interpreta ben sette personaggi. Ma – lode al merito dell’attore – è difficile riconoscerlo nelle sue varie parti: sembrano e sono davvero sette personae diverse. Restando in tema “doppio ruolo”, un altro nome da fare è quello di Marco Gobetti, che è perfetto soprattutto nell’interpretazione del Duca messo al bando, con le sue movenze da santone anni ’70. Interessanti le due cugine: Beatrice Vecchione/Rosalinda (una Siddal in gonna viola e Dr. Martens) è un’ottima protagonista ed emoziona soprattutto nei travagli d’amore sotto le mentite spoglie di Ganimede e nell’epilogo rivolto al pubblico; accanto a lei Silvia Giulia Mendola, una Celia dalla chioma color miele, tutt’altro che mera spalla: è ora lieve e delicata, ora pungente nelle sue battute. Una convincente e degna co-protagonista. Ancora, i grandi Eugenio Allegri, davvero superlativo nel ruolo del motley fool (divertente la capigliatura rosa shocking a orecchie d’asino), e l’aspirante buffone Michele Di Mauro, profondo, malinconico e – nonostante tutto – speranzoso fino “al penultimo”. Infine, molto buoni anche Daniele Marmi, Matteo Baiardi e Vittorio Camarota.

Il coro degli attori è insomma saggiamente strutturato. Tuttavia è inalienabile l’impressione che manchi un qualcosa, una piccola tessera di mosaico. La messinscena non è affatto noiosa, corre rapida, ma ogni tanto l’ingrannaggio si inceppa: è come se, nell’intaglio del legno, questo spettacolo incontrasse qualche nodo ancora da levigare. Labor limae, per dirla con Orazio.

Concludiamo con le parole di Leo Muscato: «Ci sono due mondi in diretta opposizione che si specchiano l’uno nell’altro: da una parte quello del potere, del Ducato, dove un uomo può esercitare un’arbitraria violenza sugli altri uomini, solo per trarne un proprio beneficio; dall’altra quello apparentemente paradisiaco e ideale di Arden, dove altri uomini esercitano uno sfruttamento incondizionato a scopo di lucro delle risorse naturali». Insomma due realtà non tanto antitetiche, quanto più parimente problematiche. E l’unico modo per affrontarle sembra essere allora il non sense. Il regista – come lui stesso rivela nel già citato incontro “Retroscena” – ha voluto «restituire un clima, un umore» assimilabile a quello che il testo dovette suscitare ai tempi di Shakespeare.

Essere fedeli alla sua idea di teatro, questo l’imperativo di Muscato, rendendo vitali per lo spettatore di oggi quelle parole antiche. In teoria della traduzione (e Muscato è infatti anche artefice della traduzione e dell’adattamento) un’opera del genere – non pedissequamente ricalcante il testo originale e attenta invece alla sua ricezione nella nuova cultura, quella d’arrivo – si definisce target-oriented. Il che pare ovvio, considerando che il titolo dell’opera è – non a caso – Come vi piace. La sua si presenta come una regia orizzontale: i personaggi sono costruiti, adattati, cuciti sugli interpreti (come, d’altra parte, si faceva già in epoca elisabettiana).

Una sfida interessante, quella di Muscato, che si confronta con un testo – come abbiamo visto – per molti aspetti impervio, già solo per il fatto che qui il gioco dei travestimenti è spinto all’estremo: ai tempi di Shakespeare infatti un giovane attore maschio interpretava una donna (Rosalinda) che tornava poi ad essere uomo (Ganimede) per farsi corteggiare da un altro uomo (Orlando) come se fosse una fanciulla. Robe da far venire mal di testa a Freud. Una sfida in gran parte superata (che fa calare il sipario sulla stagione 2015-2016 dello Stabile di Torino), ma che per la sua audacia talvolta troppo esuberante, in alcuni punti risulta poco convincente. Insostenibili tuttavia le critiche della vecchia guardia di spettatori che – giocando inconsciamente sul titolo che De Monticelli scelse per la sua recensione dell’As You Like It yè-yè di Franco Enriquez pubblicata su «Il Giorno» – dicono: “Shakespeare accontentato, il pubblico un po’ meno”. C’è chi parla di limiti da avanspettacolo. Ma non crediamo assolutamente che sia così.

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Il regista Leo Muscato.

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