In scena alle Fonderie Limone di Moncalieri fino a domenica 31 gennaio, L’Arialda, una produzione del Teatro Stabile Torino per la regia di Valter Malosti, che racconti la periferia milanese del secondo Dopoguerra.
di Matteo Tamborrino – Chi si ricorda quella scena della Classe morta in cui la Prostituta Sonnambula (sotto lo sguardo vigile dello stytelerys-regista Kantor) metteva a nudo un seno, mentre nel frattempo altri due allievi costringevano la povera Donna con la Culla Meccanica, legata a un bizzarro attrezzo ginnico che divaricava ritmicamente le gambe, a simulare il parto? Ecco: quella fisicità terrosa e ferina, quel confine labile fra vivi e morti, quelle “grida gregoriane”, sembrano ricorrere anche qui, nell’opera di Testori.
L’Arialda, terzo capitolo de I segreti di Milano, è una “tragedia plebea”, composta e messa in scena per la prima volta nel 1960; visti i risvolti osceni e i riferimenti all’omosessualità, lo spettacolo – diretto da Luchino Visconti – venne bloccato. Così, il 15 novembre, per protestare contro la censura e il divieto di rappresentazione, il regista e alcuni attori (tra cui la Morelli e Stoppa) si rivolsero all’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, che però si rifiutò di riceverli.
È trascorso più di mezzo secolo: cinquantasei anni di storia del teatro, durante i quali la sessualità è stata di certo sdoganata. Che cosa vuole raccontarci allora questa bella Arialda di Valter Malosti, in scena alle Fonderie Limone fino a fine gennaio? Nata come saggio finale degli allievi del triennio 2012-2015, la messinscena – in parte riadattata – ci mostra dei cani randagi, rabbiosi e violenti (tranne forse la sola Rosangela), che si rincorrono in un dilaniato spazio meneghino.
Ad esso conferiscono un tocco di “vita” soltanto il misero mobilio (quattro sedie, il telaio mobile di una porta e un tavolo color betulla), gli abiti provincialotti, qualche nota dialettale (soprattutto le varietà “terrone” degli immigrati Lino e Gaetana) e le litanie popolari. Se non ci fosse tutto questo sembrerebbe quasi di trovarsi su una spiaggia in inverno (complici forse le luci di sfondo e la pavimentazione nuda e candida) piuttosto che fra quei “prati” così spesso ricordati dai personaggi.
Saggiamente calibrate sono le componenti testoriane del realismo e dell’espressionismo, che l’autore probabilmente ereditò dall’amico Longhi e dall’amore per la critica d’arte. La cromia dello spettacolo sembra quella di un quadro di Courbet: gli attori malostiani sanno infatti essere sia uomini sia belve, quando si lasciano andare a grida stridenti e ad abbracci infoiati. Sulle scelte prossemiche e scenografiche la questione è più complessa: la vastità del palco delle Limone può generare talvolta dei problemi di dispersione. Ma nulla pare affidato al caso: di certo il non voler medicare l’horror vacui posizionando masse imponenti al centro della scena è stata una precisa scelta registica, per poter acuire il senso di miseria che avvolge i protagonisti.
Passiamo ora agli attori: nel complesso molto buona la scelta degli interpreti, che si “aggrediscono” per due scorrevolissime ore, mostrando un’umanità senza filtri, meschina e materiale. L’unica “pecora nera”, che si distacca da questo gregge di esseri abietti, è la bella Rosangela (Roberta Lanave), che – con grande intensità – mescola ingenuità, sentimento e malinconia. Ma alla fine anche lei – uscita di scena dopo l’addio a Gino (dai toni un po’troppo smorzati, a dire il vero) – cede al mondo corrotto.
Negli altri l’amore sembra essersi consumato, isterilito, avvilito. Anche l’apollineo fratello di Arialda, Eros (un abile Marcello Spinetta in camicia fucsia – il tocco kitsch malostiano non manca mai!), che alla fine piange amaramente sul corpo dell’amato giovinetto Lino, non può davvero redimersi agli occhi degli spettatori: è un “mostro”. Non certo per la sua “diversità”, ma perché ha lasciato che le angherie subite da ragazzo lo rendessero a sua volta carnefice. La vittima d’elezione è l’avvenente Mina (Camilla Nigro), prostituta dalle melodie roche, affetta da una tipica Sindrome di Stoccolma.
C’è poi la famiglia Candidezza: il nome è chiaramente antifrastico. In primis Amilcare, il capofamiglia, campione di viscidezza, interpretato da un ottimo Vittorio Camarota, che mescola perfettamente nel suo personaggio i tratti del Don Giovanni frollato e del senex libidinosus plautino: i figli non lo ascoltano e ci si chiede anche se, in fondo, le donne lo desiderino davvero (solo Arialda lo vorrebbe, ma parlare di amore è davvero fuori luogo). C’è poi l’allegra prole: Gino (l’energico Matteo Baiardi), bulletto dalla mano pesante che alla fine perde la sua fiamma, e Stefano (Christian Di Filippo), un irritante fratello minore che però – al momento opportuno – sa arrivare dove non arrivano calci e pugni.
A completare la composizione: Archimede Pii (Tino), Jacopo Squizzato (Oreste, felice caso di physique du rôle) e Gloria Restuccia, quest’ultima nei panni della “negra” Gaetana, la madre di Rosangela, che risulta davvero commovente nella scena della supplica alla gelida Arialda, prima del suicidio nella cava. Nella cornice (letteralmente) della scena ci sono infine i dipartiti Vittoria (Noemi Grasso, dalla fantastica mimica facciale) e il Marcione (Isacco Venturini, esecutore di un ineccepibile lavoro plastico), che – quanto a invadenza – non hanno nulla da invidiare ai vivi.
Ma al centro, ad illuminare la tela e a capitalizzare l’attenzione, c’è lei, Arialda Repossi, la bravissima Beatrice Vecchione, “mentecatta” nevrotica (come la definisce Amilcare) in preda alle sue visioni e nel contempo spietata pianificatrice quando si rende conto di aver perso tutto. È la Vergine frigida, che nella vita non ha mai conosciuto il sesso: «Che l’ascolti fin che può – dice – il cancro dell’amore! Sono io, io sola che non posso!». A tenerla al caldo ci sono solo gli abbracci del suo spasimante morto. Insieme ai suoi progetti, nel corso dello spettacolo, precipita anche la sua acconciatura, sempre più scarmigliata. L’attrice, in questa parte, rivela anche dei perfetti tempi comici.
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L’Arialda rimarrà in scena fino al 31 gennaio: insomma, un’occasione da non perdere. Per info su costi, biglietti e orari il sito web del Teatro Stabile Torino.