Dopo l’ingresso…dritti nello studio, piccolo focolare di idee e passioni: il secondo appuntamento con l’Orchestra Filarmonica di Torino è stato Lo studio, presso il Conservatorio Giuseppe Verdi, con Cecilia Bacci come maestro concertatore.
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_di Silvia Ferrannini
_di Silvia Ferrannini
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Nella penombra dello studio l’invenzione si dispiega e saggia tutte le sue possibilità: si concepisce un’idea, la si coccola se ci soddisfa, la ribaltiamo in mille modi se ci sembra che possa dare di più, la martoriamo se delude. L’Arte della fuga di Bach possiamo immaginarla come un vettore che perlustra movimenti diretti, movimenti inversi, temporanee stasi in un estroso saliscendi ritmico: in un caleidoscopio di sperimentazione mutano i toni, entrano temi nuovi e se ne fanno derivare altrettanti da quello principale; contrappunti fughe ed imitazioni corteggiano il soggetto musicale senza posa in quest’opera monumentale e passionale insieme: alla faccia di chi riteneva che Bach fosse un semplice strumentista.
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Il compositore di Eisenbach infatti non amava l’aridità matematica e retorica, per quanto il tessuto della sua Arte risponda a principi compositivi ben riconoscibili. E non sempre trovava pace nelle sue stanze: moglie e figli si riunivano continuamente intorno a lui, così come colleghi e studenti non si facevano troppi problemi ad aprire la porta ed interrompere. Ma la discontinuità della concentrazione evidentemente non lo hanno preoccupato troppo: quando è l’assorta passione a guidare la mano e l’orecchio, non c’è interferenza che regga.
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Bach continuò dunque con le sue fughe creative, ma non poté concludere il prestigio poiché la morte lo colse prima: fortunatamente il figlio Carl Philipp Emmanuel Bach la fece stampare malgrado fosse incompleta ed eccolo lì, il tabellone da gioco sul quale tanti compositori vorranno posizionare la loro pedina.
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In tanti capirono che quel raccoglimento doveva essere d’esempio. Ed eccoli tutti a rinchiudersi nelle rispettive stanze: Antonio Vivaldi se ne stava bello appartato nel suo studiolo presso il Pio Ospedale della Pietà di Venezia, sulla Riva degli Schiavoni; Corelli lavorava indisturbato nel Palazzo della Cancelleria a Roma, ospitato dal cardinale Pietro Ottoboni; possiamo immaginare facilmente un Beethoven curvo e serio sul pianoforte nello studio di un appartamento nell’ex convento detto Casa degli Spagnoli Neri (ora non esiste più), o al terzo piano del n.3 di Ungarngasse, dove presero vita alcune delle sue ultime composizioni. Ma è anche vero che Beethoven traslocava spessissimo da un angolo all’altro di Vienna, con quell’inquietudine in lui sempre vibrante, perciò è anche difficile immaginare lo studio della Pasqualatihaus sul Mölkerbastei come suo vero spazio, malgrado oggi lo si presenti come sua “casa” viennese, dove soggiornò all’epoca del Fidelio.
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Frank Martin e Arthur Honegger erano decisamente esigenti: il primo si lamentava con la moglie perfino del cinguettio degli uccellini fuori dalle finestre della sua casa a Naarden, in Olanda; il secondo cercava la solitudine anche nel cuore di Parigi, in Boulevard di Clichy, dove affittò uno studio tutto suo dopo aver sistemato moglie e figlia in un appartamento nella vicina place de Vintimille. Divenne il suo palcoscenico: allievi, colleghi, committenti, esecutori della sua musica, cineasti e fotografi si affollavano intorno alla sua scrivania, dove invecchiò fino al 1955, anno della sua morte.
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Il più elastico di tutti fu certamente Mozart. Stando a un ricordo della cognata raccontato dal biografo Wolfgang Hildesheimer, ogni luogo poteva fungere da studio: casa, camera da letto, strada, stanza da biliardo, chiesa. L’isolamento fisico non implicava necessariamente per lui l’isolamento mentale. Se qualcuno gli chiedeva qualcosa, era in grado di rispondere perfettamente a tono pur rimanendo immerso nei suoi pensieri. Giocherellava poi con qualsiasi cosa che gli capitasse fra le mani: un cappello, la catena di un orologio, un libro, «come se avesse sempre una tastiera sotto le dita» e tutti gli oggetti del mondo non fossero che materia per far musica.
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Tra chi pensa a un modo per declinare la musica del proprio tempo in modo innovativo e chi recupera il passato in cerca dell’eterno, tutti i compositori scelti per questo concerto sono stati degnamente omaggiati.
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Gli Archi dell’OFT hanno saputo magistralmente restituire al pubblico quell’intreccio d’ingegno ed enigmaticità che solo lo Studio può accogliere. Guidati dalla giovane e talentuosissima Cecilia Bacci, i musicisti si sono collocati a cerchio sul palco, lasciando il centro sgombro di ostacoli che possano impedire alla musica di quasi materializzarsi in mezzo a loro e di fronte a noi. Hanno eseguito, nell’ordine: i Contrappunti 1, 4 e 9 della bachiana Die Kunst der Fuge, il Concerto grosso op. 6 n. 4 in re maggiore di Arcangelo Corelli, il Concerto grosso op. 3 n.11 in re minore RV 565 di Vivaldi, il Prélude, Arioso et Fughette sur le nom de Bach di Arthur Honegger, Preludio e fuga in fa maggiore per quartetto d’archi Hess 30 di Beethoven, lo Studio n. 4 di Frank Martin e l’Adagio e fuga in do minore K 546 di Mozart.