In questa recensione di Triangle of Sadness andiamo alla scoperta del film di Ruben Östlund, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes.
Di Alberto Vigolungo – Otto naufraghi sulla spiaggia di un’isola in apparenza deserta, dopo l’attacco di una banda di pirati ai danni dello yacht sul quale stavano trascorrendo la loro vacanza di lusso. Una microsociologia stravolta, in cui lo status economico non conta più nulla. Prima dell’improvvisa (e insperata) possibilità di ristabilire l’ordine basato sulle consuete gerarchie. Ruben Östlund torna con una satira acuta del potere e della sua reversibilità, in grado di mescolare registri diversi, dall’assurdo, all’ironico, al grottesco. Il film Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes è in questi giorni nelle sale italiane: ecco la nostra recensione di Triangle of Sadness.
Triangle of Sadness recensione
Un certo cinema del conflitto è tornato ad affacciarsi in maniera significativa negli ultimi anni, anche incoraggiato da una serie di prestigiosi riconoscimenti: dai film di critica radicale del “sistema” firmati Ken Loach, che su questo approccio ha basato l’intera sua carriera (si ricordi il più recente Sorry We Missed You), alla satira nera del Bong Joon-ho di Parasite, Premio Oscar nel 2020 e divenuto ormai oggetto “di culto” tra i cinefili, passando per l’indagine vagamente claustrofobica dei rapporti di forza dei film di Yorgos Lanthimos (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro).
In questa direzione muove Ruben Östlund con il progetto di Triangle of Sadness, commedia magistrale sul dominio e sulla natura delle relazioni che lo caratterizzano e che lo nutrono continuamente, sullo sfondo di una società cinica che misura il successo unicamente in base all’immagine che l’individuo propone di sé, prima che un tragico evento rovesci le gerarchie dei personaggi coinvolti.
Lo squarcio sulle derive del neo-impero è qui aperto all’altezza del vertice della “piramide”, sullo sfarzo materiale di un’upper class globalizzata sotto ogni aspetto, e direttamente proporzionale alla sua piattezza morale. Suddiviso in tre parti, il nuovo film del regista svedese pone un certo accento sull’ambientazione, che di volta in volta introduce un elemento di discontinuità nelle dinamiche del racconto: la realtà mondana che ruota intorno alla vita di una coppia di modelli (e che ne delinea le routine), lo yacht dove questi ultimi decidono di trascorrere una vacanza e in cui esplodono i dubbi e le contraddizioni emerse in precedenza, l’isola che li ospita nei giorni successivi al naufragio, scenario dello stravolgimento.
Non solo, l’ambientazione costituisce un elemento fortemente identificativo dei vari personaggi: essi attingono il loro senso dall’ambiente in cui si trovano, ed è attraverso questa dimensione corale che l’opera conduce abilmente il suo gioco. Dall’ambientazione, i personaggi di Triangle of Sadness traggono interamente la loro “legittimazione” e le dinamiche in cui restano intrappolati.
Nella prima parte, Östlund affronta la tematica del potere e dei paradossi della “classe agiata” versione anni ’20 del nuovo millennio rivolgendo il proprio sguardo ad un coté dai codici minuziosamente definiti, così come nei miti e negli stereotipi che da sempre lo distinguono: l’industria della moda. Carl e Yaya provengono da questo mondo, assorbiti nei cliché e nelle logiche ciniche (peraltro autoconfessate) che ne determinano la sopravvivenza: anche nella loro relazione, consumata tra cene di lusso, taxi e camere d’albergo, esiste una gerarchia definita, dettata da uno status economico che mette la ragazza in una posizione di vantaggio.
Da questa ipocrisia di fondo emergono i primi segni di un dissidio: Carl, ben lungi dal mettere in discussione il “sistema”, comincia a dubitare di sé e della compagna, con la quale decide di trascorrere un soggiorno a bordo di uno yacht esclusivo.
Ma più che dalle dinamiche interne a questa relazione, fortemente influenzate dalle logiche dell’industria in cui si sviluppa, il potenziale satirico del film emerge nettamente dalle modalità con cui, in due scene particolari, il suo regista sceglie di rappresentare un mondo frenetico e in continua evoluzione, lo stesso descritto da Claudio Calò in uno dei più bei saggi sulla moda degli ultimi anni.
Rispetto a questo ambiente, l’autore svedese non si accontenta di riprodurre lo sguardo di un osservatore “neutrale”, ma adotta un punto di vista il più possibile “interno”, riflettendo un procedimento secondo cui il dispositivo coincide con lo sguardo (o il mezzo di cui si serve lo sguardo) dell’insider. Così, la macchina da presa si fonde dapprima con la telecamera di un operatore intento a filmare alcune interviste nel backstage di un casting, poi con quella della regia dell’ultima, magniloquente, immersiva sfilata di moda, con i suoi “segni”.
Proprio in questo bombardamento ipertrofico di luci, suoni, scritte inizia ad affiorare il senso dello scollamento che domina il film. Così, l’ipocrisia di un intero sistema è messa in luce dal suo stesso linguaggio, con i suoi messaggi dall’autoreferenzialità spesso rivelatoria, se non addirittura epifanica (“Cinismo travestito da ottimismo”). Già a partire dalla rappresentazione di questi elementi, enunciati con lo sguardo di chi assiste allo spettacolo di moda, la satira di Triangle of Sadness inizia a montare, e a farsi irresistibile.
Il passaggio al livello successivo vede realizzarsi quella dimensione corale su cui fanno decisamente leva la seconda e terza parte del film. Tra “sessioni” di sunbathing, scatti social, dopocena più o meno alcolici passati sul ponte dell’imbarcazione adibito a zona lounge, i due protagonisti fanno la conoscenza di altri socialites dell’élite europea e russa, fra i quali il loquace Dimitry, industriale attivo nel settore dei fertilizzanti (fiero liberista apparentemente fermo agli anni ’80, quando i suoi affari sono decollati), un taciturno imprenditore dell’hi-tech, una coppia di anziani inglesi proprietari di una delle più importanti compagnie dell’industria bellica del loro Paese.
Rispetto a questo microcosmo della pura apparenza, lontano dalla realtà almeno quanto lo yacht che lo ospita non sia dalla terraferma, il capitano Thomas si colloca come outsider: il personaggio non si riconosce in questo ambiente mondano, anzi lo evita (preferendo rimanere chiuso nella sua camera) fino all’immancabile cena allestita in suo onore, che determina il corto circuito del film e il preludio al ribaltamento della terza parte. Il culmine grottesco di Triangle of Sadness è toccato in una lunga scena di disordine e conflitto, sulla quale la figura di Thomas aleggia come una maledizione: la lotta schifosa dei ricchi ospiti colpiti da attacchi di vomito e diarrea è accostata al surreale confronto tra Thomas e Dimitry i quali, accompagnati da una buona dose di alcol, si sfidano in un duello ideologico a colpi di aforismi di Marx ed Engels da una parte, di Reagan e Thatcher dall’altra, in una curiosa inversione simbolica (“capitano americano comunista” vs. “russo capitalista”).
La festa è ormai finita, e tutte le contraddizioni che porta con sé sono ormai sulla moquette che riveste i pavimenti interni dello yacht: se la seconda parte era iniziata nel segno dell’euforia dell’equipaggio, istruito dalla responsabile sui segreti per la buona riuscita di una crociera di lusso, si finisce con colpe letteralmente vomitate e addirittura con il fuoco dell’attacco di una banda di pirati. La scena conclusiva dello “Yacht” completa questa spumeggiante satira della crisi sottolineando ancora una volta tutto il gusto per il grottesco di Östlund, con la coppia di anziani inglesi che, dopo aver raccolto una bomba a mano lanciata dagli assalitori, e averla riconosciuta come uno dei prodotti della fabbrica di loro proprietà, salta in aria.
L’inettitudine dell’outsider “per scelta”e la deriva incontrollata del finale di parte 2 scaraventa i sopravvissuti su un’isola apparentemente deserta, insieme ad un membro della banda. In questo scenario si delinea rapidamente una nuova gerarchia, fondata su leggi più primitive. Qui lo status non conta, ma solo l’istinto e la capacità di fare con le proprie mani. Un altro outsider, nella figura della responsabile delle pulizie a bordo, assume il comando del gruppo: Abigail realizza il ribaltamento della gerarchia, ponendosi al vertice di un’autocrazia in cui ognuno è chiamato ad adempiere obblighi esclusivamente finalizzati alla sopravvivenza del gruppo.
In questo contesto, il piacere è riservato unicamente al capo, che dispensa premi e punizioni in modo arbitrario: Carl è scelto come amante da Abigail, Yaya ridotta a spettatrice impotente. Insomma, sull’isola non c’è spazio per alcuna rivoluzione, ma solo per un ordine con nuovi servi e nuovi padroni: nuova tirannia, stesse logiche, e forse poco importa che si tratti di un matriarcato, come sottolinea la stessa Yaya, rivolgendosi al capo in un misto di adulazione e ammirazione.
Prima dell’ultima promessa di ritorno, dell’irresistibile richiamo della comodità (per pochi) che deriva dall’egemonia del capitale. Nella sua costruzione, la terza parte di Triangle of Sadness introduce un interessante parallelo con la prima, confermando una scelta narrativa che, come si è visto, è fonte profonda dello spessore satirico dell’opera e della sua resa complessiva: rappresentare una certa realtà adottando una forma ben precisa, con le sue regole.
Se in “Carl e Yaya” essa corrisponde alla comunicazione di moda (nei messaggi, così come nelle soluzioni di regia), nell’”Isola” riflette i caratteri di un format consolidato, tra i prodotti più venduti del mercato audiovisivo: le vicende dei naufraghi ricalcano infatti le dinamiche tipiche del reality. In queste scelte si misura l’abilità di Östlund nel cristallizzare uno zeitgeist, fine ultimo della grande satira.
Alla fine, Abigail, protagonista di un’ascesa sociale dettata dall’imprevisto e vertice superiore di una nuova “piramide” accetterà l’offerta di Yaya, ossia tornare ad un mondo dominato dai “ricchi” in cambio di un po’ del loro denaro? Con la stessa astuzia divertita di Thomas – del tutto azzeccata la scelta di Woody Harrelson per questo ruolo – il regista lascia appena in sospeso la risposta, anche se la musica da passerella in sottofondo, preludio ai titoli di coda, rappresenta più di un indizio. Un refrain che riporta tutti alla realtà legata ad un modello economico, politico, sociale, culturale che dopo oltre due secoli continua a rigenerarsi, ergendosi a unica alternativa, malgrado le sue infinite derive e contraddizioni.
E che materializza la sensazione (e la rassegnazione?) di non poterne davvero fare a meno. Come non si può fare a meno dell’ironia tagliente e grottesca di Ruben Östlund.