La serie FX ideata da Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steven Canals è stata resa disponibile su Netflix a partire dal 31 gennaio. Comunità LGBT+ e propositi attivisti, un cast di altissimo livello e un’analisi che – finalmente – rende giustizia alla cultura dei ball degli anni Ottanta, ovvero le sfilate in maschera a ritmo di musica che parodiavano e sfidavano l’egemonia culturale dell’epoca. Una forma di resistenza creativa che continua anche oggi grazie a realtà come la torinese Kiki House of Savoia, che abbiamo intercettato all’ormai storico appuntamento “militante” con il Lovers Film Festival, al Cinema Massimo di Torino.
_ di Beatrice Brentani
Le families in cui, nella seconda metà degli anni Ottanta, si riunivano alcune minoranze etniche o immigrate, spesso composte da persone transgender, non sono un’invenzione. Molte persone sole, povere, costrette ai margini della società, decidevano di porsi sotto la tutela di una mother che si prendeva la responsabilità di garantire loro un tetto sulla testa, del cibo e un mantenimento almeno minimo, oltre che precetti educativi di vario tipo. Vere e proprie famiglie, tenute insieme da una cultura comune: quella dei ball, competizioni in cui le varie case-famiglia si sfidavano attraverso una serie di balli e sfilate per riuscire ad aggiudicarsi il premio e la gloria all’interno della comunità LGBTQ+ nera e latina di New York. Una comunità, appunto, separata da tutti gli altri: non solo dagli etero, ma anche dagli uomini gay, bianchi e cisgender.
Ryan Murphy, già pioniere della comunità LGBTQ+ con i suoi lavori (è lo stesso autore, tra gli altri, di American Horror Story, Scream Queens e Glee), ha letteralmente fatto la storia su FX con la nuova serie Pose. Si tratta del primo prodotto seriale ad alto budget e dall’elevato interesse mediatico che comprende il più ampio cast mai visto di attrici transgender.
MJ Rodriguez, Indya Moore, Dominique Jackson, Hailie Sahar e Angelica Ross sono le cinque attrici transessuali protagoniste. Uscita lo scorso giugno negli Stai Uniti e rilasciata, in Italia, su Netflix a partire dal 31 gennaio, Pose parla dell’espansione dell’universo del lusso nell’era di Reagan e di Trump, della scena sociale e letteraria di fine anni ’80, nonché del mondo della cultura dei club e dei cosiddetti ball.
MJ Rodriguez, che interpreta Blanca, è un’attrice teatrale già apparsa in serie come The Carrie Daries e Luke Cage; Dominique Jackson, già conosciuta per Transparent e Mr. Robot, interpreta, invece, Elektra Abundance. A loro si aggiungono anche alcuni interpreti maschili, come Ryan Jamaal Swain, Billy Porter e Dyllon Burnside. Ryan Murphy, inoltre, ha voluto dare ampio spazio anche ai registi transgender emergenti (la serie, per esempio, è stata la prima a vedere ingaggiata Janet Mock, regista e autrice transgender e nera).
Pose, dunque, nasce e si sviluppa in una una New York di fine anni ’80 che vede rappresentate sulla scena le vite dei membri della House of Evangelista, alla cui guida c’è Blanca, una ragazza transgender sieropositiva che decide di lasciare la sua vecchia family – la cui mother è l’ambiziosa e dispotica Elektra Abundance – con l’obiettivo di crearne una propria. Vicino a Blanca gravitano le vite degli altri personaggi principali, come la sex worker portoricana e transgender Angel, che ha una storia d’amore con un suo facoltoso cliente yuppie, e Damon, un ballerino afroamericano diciassettenne cacciato di casa dai genitori dopo aver rivelato loro la propria omosessualità.
La sigla di testa esplicita subito l’ideologia interna all’intero lavoro: sullo sfondo di un titolo dal font glamour al neon gravitano tre concetti fondamentali – live, work, pose – che verranno sottolineati per tutta la serie, con grande enfasi. Pose si insinua nelle vite, i lavori e le pose della ball culture – sottocultura LGBT+ tra l’altro accuratamente descritta in Paris is burning, documentario degli anni ’80 prodotto da Jennie Livingston e oggi considerato una pietra miliare della storia LGBTQ+, disponibile su Netflix. Intorno ai balli e alle sfilate sfarzose, utili, in quel mondo, per conquistarsi la fama di leggenda, Murphy dipinge un quadro che rappresenta le diverse inclinazioni e realtà possibili: in un moto descrittivo che gioca tra il serio e il caricaturale senza però cadere mai nel facile stereotipo: una produzione tanto baroccamente artefatta quanto intrinsecamente vera e sincera.
Quello dell’inclusione è uno dei principali temi indagati dalla serie. La scena delle ballroom nasce come risposta sociale alla totale segregazione di una minoranza delle minoranze, anche in un contesto progressista come quello New York.
Il ball si caratterizza per le diverse categorie che le families devono interpretare con costumi, sfilate e danze (il famoso voguing) di fronte a un panel di giudici. I vincitori delle ball sono quelli che riescono a sembrare veri e assolutamente convincenti. L’autenticità è il primo valore da soddisfare per poter trionfare e portare a casa il premio ma, soprattutto, è il solo modo per poter essere chi si è veramente.
Ciascuna categoria rappresenta il mondo da cui la comunità LGBTQ+ è esclusa: per la categoria “royalty” è richiesto di indossare corone e mantelli e atteggiarsi come membri della nobiltà. “Possiedi la tua nazione”, commenta il presentatore del ball Pray Tell, “possiedi i tuoi gioielli”, in una grande e festosa parodia del privilegio della ricchezza. Per “executive realness” i partecipanti si fingono affermati e ricchi professionisti della finanza e della moda. Il ball è l’occasione sociale per sentirsi parte di quell’american dream fatto di ricchezza, successo e auto-realizzazione. La bellezza femminile diventa una forma di potere e di legittimazione per cui si è disposte a fare di tutto, perché garantirsi l’accettazione come donna a tutti gli effetti, per chi è transgender, garantisce l’attenzione degli uomini, in particolare degli uomini bianchi.
Estremamente intrigante, poi, è la messa in scena. Sono proprio le scene delle ball a occupare la maggior parte delle puntate: vestiti, cappelli, corone, passi di danza, espressioni mimiche, pose costellano gli episodi definendo la cifra stilistica della serie e rendendola un prodotto unico nel suo genere. Ogni volta che inizia una gara e una voce annuncia la categoria, non si aspetta altro che vedere sfilare e muoversi i personaggi. La spettacolarizzazione di queste sfilate è uno dei punti di forza di Pose, il suo marchio più riconoscibile ed indimenticabile.
Come, del resto, l’intera produzione di Murphy, Pose è un’opera estremamente variegata, che combina al suo interno differenti realtà e ideologie. È documentario specialistico e un saggio generale/generalista su di un certo periodo storico allo stesso tempo. Pur rimanendo ancorato quasi esclusivamente al tratteggio delle minoranze in difficoltà e alla scena dei ball e delle house, con le loro categorie, i vestiti e gli enormi trofei, riesce anche a tratteggiare perfettamente l’intero funzionamento del sistema americano degli yuppies.
Tutto riflette ed evidenzia le contraddizioni di una società fratturata, disillusa e disperata.
I sobborghi sono conseguenza di una politica elitaria, i ball una maniera originale e identitaria per trovare l’unica possibilità del riscatto (un mondo alla rovescia dove il potere è in mano agli ultimi) in un mondo dove per sopravvivere è necessario stare sul ciglio di una strada o dietro un vetro, perché non accettati nella quotidianità di una società ipocrita e razzista, moralmente arroccata contro il diverso, ma perversamente attratta dalle torbide prospettive di trasgressione e senso di controllo che proprio il diverso può aprire. Società che vede nella figura di Stan Bowes (Evan Peters) un’incrinatura, un errore di sistema: uomo sposato, con un lavoro appagante e una famiglia felice, si sente però attratto da Angel in una maniera a dir poco viscerale, e riesce a iniziare una relazione intima e profonda con lei, dove il sesso diviene solo un piccolo tassello inserito dentro un coinvolgimento totale, emotivo e celebrale. Stan, apparentemente una figura abbastanza classica e stereotipata di yuppie, è in realtà un uomo complesso, frammentato, succube della contraddizione da cui vorrebbe liberarsi, simbolo del conflitto tra quello che la società dominante vorrebbe che lui fosse e il naturale impulso ad esplorare la sua vera natura e i desideri.
Pose è un documento che si fa naturalmente racconto intimo, family drama che mette le persone al di sopra del contesto, per poi fondere le due anime in un unico amalgama. La house di Blanca è veramente una famiglia a tutti gli effetti. La luce di Blanca si posa non solo sui ragazzi che accoglie all’interno della sua house ma si estende anche nella direzione di coloro a cui deve la vita, quasi a ricambiarne il sostegno: a beneficiarne sono soprattutto i due personaggi di sostegno più influenti, Prey Tell (Billy Porter) ed Elektra Abundance (Dominique Jackson), a cui tra l’altro spetta il fondamentale compito di essere i rappresentanti di tematiche centrali come l’HIV e il sentimento di (in)completezza.
Dentro la denuncia di un contesto sociale si nasconde un discorso molto più personale ed intimo sull’identità, sull’accettazione, non tanto degli altri, del mondo, quanto di una dimensione privata, soggettiva: conoscere se stessi, sentirsi a proprio agio, riconoscersi nel proprio corpo. E ancora: genitorialità, responsabilità, rapporti di coppia, e di tutte quelle relazioni sane che apportano un che di positivo nella vita di un individuo.
Nel 1987, anno in cui è ambientata la serie, era passato solo un anno da quando il virus dell’HIV aveva preso tale nome.
I contagi accertati erano più di 38mila, di cui 31mila nei soli Stati Uniti. Proprio quell’anno si sperimentò la prima cura antiretrovirale, l’Azidotimidina, abbreviata in AZT, e si cominciò a utilizzare il Western Blot Test, un test di diagnosi molto più affidabile ed efficace. Tuttavia, alla fine di quell’anno, i casi diventarono quasi 50mila. In un modo o nell’altro, l’Aids entra prepotentemente nelle vite dei personaggi di Pose, quasi a significare l’incarnazione di quello stigma che li isola non solo dalla società etero, ma anche dalla loro stessa comunità. Presto si sarebbe scoperto che l’Aids non fa distinzione di sesso, di identità di genere, di classe o di etnia, ma allora era ancora il muro che segregava neri, poveri, transgender ed emarginati dal resto del mondo.
“Tutti hanno bisogno di qualcuno che li faccia sentire superiori. E noi siamo all’ultimo posto. Ci sono le donne, i neri, i Latinos, i gay, prima di raggiungere il fondo dove ci siamo noi” – Blanca
Che cos’è, dunque, in ultima analisi Pose? Pose è Ryan Murphy nella sua essenza, per gusto e contenuti; è la sintesi di un discorso iniziato vent’anni fa; è una forma di attivismo ed è soprattutto il primo significativo passo verso l’abbattimento di barriere oramai obsolete; esponente fulgido di quell’arte civica oltre che estetica, incarnazione della dignità seriale.
Anche se la realtà di Pose sembra ormai lontana, una serie come questa ancora oggi ha un’importanza cruciale, non solo perché raccontare le discriminazioni e le violenze di cui le persone transgender sono state succubi in passato ha una valenza storica e testimoniale, ma anche perché Pose è una narrazione delle dinamiche di potere che si ripetono sempre uguali a se stesse. Dare voce a questo tipo di storia con un prodotto culturale mainstream e di alta qualità, raccontandola con realismo e senza pregiudizi, lasciando che siano le persone protagoniste a darle vita con il loro talento e le loro abilità, è il primo passo verso la legittimazione di una voce che per troppo tempo è stata soffocata.
Non c’è da stupirsi, quindi, se sono stati sopratutto i Golden Globe ad aver evidenziato l’impaccio generale con certe tematiche, con l‘assurda situazione che ha visto la serie candidata a miglior serie drammatica senza però nessun riconoscimento per le proprie protagoniste, imbarazzo ancor più sottolineato dalla nomination come miglior attore a Billy Porter, tra i pochi cisgender, ottimo anche lui ma non certo il protagonista della serie. In ambito ufficiale, quindi, Pose non è riuscita a scalfire antichi preconcetti e immobilismi dell’industria. Ma questa è un’altra storia. Che speriamo cambi, presto.
La ball culture, però, non ha attecchito soltanto in America: le competizioni (o function) si tengono anche in moltissimi altri Paesi, in cui ci sono famiglie, o House, organizzate alla stessa maniera di quelle che si vedono in Pose e che competono tra di loro su scala internazionale. A Torino, in omaggio proprio alla ball culture, un gruppo di giovani ragazzi ha creato una di queste vere e proprie famiglie allargate: la Kiki House of Savoia.
Li abbiamo scoperti quest’anno, durante una delle giornate di proiezioni del Lovers Film Festival: prima del film Skate Kitchen (Crystal Moselle, 2018), i membri della Kiki House of Savoia hanno “sfilato” sul palco del Cinema Massimo, subito dopo un dialogo/intervista con la Diva underground del pop nostrano Myss Keta. La family sabauda aveva già partecipato al Lovers, festival che celebra le società LGBTQI e, più in generale, la cultura queer – il più longevo Festival in Europa su queste tematiche – riesce a coniugare spettacolarità e riflessione. Nell’edizione dello scorso anno, la Kiki House of Savoia è stata protagonista di un evento speciale, durante il quale è stato proiettato il cortometraggio realizzato dall’Associazione culturale Elvira intitolato “Savoia”, che li vede protagonisti. Nata nel 2016, la Kiki House of Savoia ha organizzato la prima function al Supermarket di Torino, riscuotendo un vero e proprio successo: molte altre famiglie, provenienti da tutto il mondo, hanno deciso di aderire alla competizione.
Da fenomeno dimenticato a “next big thing” con hype internazionale? Vedremo, per ora ci godiamo il “colpo di coda” della Ball Culture. Speriamo che se ne parli sempre di più e sempre meglio.