Ritratto di famiglia con tempesta: Kore-eda e il tempo infinito della ricerca

A Torino per “Ritratto di famiglia con tempesta”, il cineasta giapponese si è concesso alle domande del pubblico del Cinema Massimo, offrendo alcune riflessioni sul suo ultimo film e non solo. All’incontro ha partecipato anche il professor Dario Tomasi.

_di Alberto Vigolungo
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Shinoda Ryota è un romantico segnato da alcuni fallimenti. Alla soglia dei cinquant’anni la sua vita sembra aver preso un binario morto: padre separato, lavora per una piccola agenzia di investigazioni private di Tokyo, raccogliendo quel tanto che basta per tirare avanti. Due cose lo tengono vivo: la speranza di ricongiungersi con la sua famiglia e il ricordo di un libro da lui scritto e pubblicato quindici anni prima, con tanto di premio. Ma la pratica quotidiana non fa altro che lasciargli dubbi che, ogni sera, annota su foglietti destinati alla bacheca sopra la sua scrivania, la stessa sulla quale cerca un’ispirazione. Con il collega più giovane trascorre le gior-nate fra pedinamenti, incontri di nascosto, squallide proposte: arriva perfino a seguire l’ex-moglie Kyoko e a scoprire la nuova vita di lei. Di tanto in tanto, Ryota va a trovare la madre, una donna forte che gli esprime non senza ironia la sua pena per lui. Alla fine di una giornata passata con il figlio Shingo, Ryota si ferma per cena dalla madre con il bambino e l’ex-moglie. Bloccati in casa dall’arrivo di un tifone e dalle affettuose insistenze della nonna, i tre trascorrono la notte insieme. E’ l’occasione di un dialogo, delle riflessioni, ma anche della constatazione che tutto torni come prima, semplicemente perché il passato non può ritornare. Il giorno dopo, i tre riprendono le loro strade.
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Per coloro che si avvicinano all’opera di Kore-eda soltanto adesso, essa appare come una preziosa scoperta. A schermo bianco, quando le luci tornano a riempire la sala, rimane l’impressione di un

cinema estremamente vario, costruito su una scrittura ispirata, mobile, sempre in linea con il “mood” delle situazioni: si osserva insomma la mano dello scrittore, per un cinema dai notevoli esiti autoriali. E di questi tempi una rarità, come hanno osservato critici e “addetti ai lavori”. Nel dibattito seguito alla proiezione del suo “Ritratto di famiglia con tempesta”, in concorso a Cannes un anno fa nella sezione “Un Certain Regard” e distribuito ora in Italia da Tucker Film, Kore-eda ha svelato i particolari di un lavoro che l’ha impegnato, oltre che alla regia e alla sceneggiatura, anche al montaggio:

 

“Quando scrivo una sceneggiatura, di solito mi piace partire da una frase che metto in alto nel foglio. La frase che ho scelto per questo film è stata: non sempre da adulti si diventa quel che si vorrebbe diventare.”

E’ la battuta che Ryota rivolge ad uno studente liceale dopo che quest’ultimo gli ha sputato tutta la sua rabbia per essere stato scoperto. Ed è proprio questa dimensione dell’incompletezza a connotare quel che è la vita del protagonista: l’assenza di un rapporto “vero” con il padre ormai defunto, di continuità nella carriera di scrittore cominciata sotto buoni auspici, la mancanza di un legame stabile con l’amato figlio Shingo che Ryota, dopo la separazione dalla moglie, non può rivedere che per poche ore.
La prima enunciazione del personaggio di Ryota passa attraverso la messa in relazione ai luoghi dell’infanzia, ai quartieri popolari della capitale in cui il protagonista è cresciuto e dove vive ancora la madre: luoghi-simbolo dell’alienazione metropolitana, che fagocitano vite strette nella morsa di una fredda solitudine e nei quali si consumano piccoli drammi silenziosi. Qui il protagonista viene a sapere da una vecchia amica della storia di un anziano morto in casa e dimenticato da tutti fino al giorno del ritrovamento del suo corpo, avvenuto per caso; sente pronunciare da un altoparlante l’appello di scomparsa di un uomo, messaggio che sembra aleggiare quasi come un fantasma. Luoghi non certo indifferenti all’autore:

“Ho ambientato il mio film a Nerima, un distretto di quartieri popolari di Tokyo dove io stesso ho vissuto fra i nove e i ventotto anni: perciò, fare le riprese in quei luoghi è stato per me un po’ come viaggiare in una macchina del tempo.”

Se nella scelta dei luoghi entra in gioco una prima componente autobiografica, allo stesso modo Kore-eda non rinuncia al riferimento al sociale, in particolare alla condizione del precariato nel Giappone odierno (Ryota è in costanti difficoltà economiche e dedito alle scommesse). Attenzione per il sociale che, per la verità, ha sempre caratterizzato l’opera di questo cineasta, fin dagli esordi nell’ambito del documentario a inizio anni Novanta. Kore-eda prosegue dunque nel solco della narrazione realistica e, pur manifestando la sua ammirazione per maestri come Miyazaki, allontana qualsiasi ipotesi (emersa nel dibattito) di un suo passaggio al cinema d’animazione. Più in generale, al di là della scelta d’ambientazione, il motivo autobiografico è piuttosto forte nel film, e su questo punto il regista non si nasconde:

L’attenzione per la famiglia è qualcosa che mi riguarda profondamente. Negli ultimi dieci anni sono cambiate molte cose all’interno del mio nucleo famigliare: mia madre è mancata e io ho costruito una famiglia, sono passato dalla condizione di figlio a quella di padre, dall’essere amato all’amare e tutto ciò mi ha portato diversi cambiamenti.”

In qualche modo, anche i personaggi si sono trovati ad attraversare una fase di passaggio, ma Ryota, a differenza dell’ex-moglie e del figlio, non è ancora riuscito a interiorizzarla. Tuttavia Kyoko stessa guarda con incertezza al futuro, come lo stesso Shingo, che cerca nella nonna le risposte ai propri dubbi. In tal senso, la metafora della tempesta e della sua atte-sa si lega profondamente alla

condizione vissuta dai personaggi: essa si manifesta in tutta una serie di elementi che rimandano alla minaccia incombente, introdotta sin da subito dai bollettini della radio. E fin dal prologo si riscontra un certo gusto di Kore-eda per la costruzione di immagini ricche, attraverso l’uso di inquadrature prolungate che danno rilievo alla profondità di campo.
Una ricerca che sembra accostarlo a grandi registi del passato, su tutti Ozu:

“Fin da subito, molti hanno cominciato a paragonarmi a Ozu, ma io non ci facevo troppo caso. Da allora l’ho sentito dire così tante volte che a poco a poco me ne sono convinto, con grande onore, ovvio. Effettivamente, abbiamo diverse cose in comune.”

Molti sono i riferimenti per il regista, che sostiene di essersi interessato un po’ tardi alla settima arte, ai tempi dell’università, quando fra i vari cineforum vide il Fellini de “Le notti di Cabiria”, “La strada”, spostando poi l’attenzione alla scena indipendente giapponese dei Sessanta e stringendo amicizia con altri importanti autori della sua generazione (Kurosawa Kiyoshi.). Uno degli aspetti che, tuttavia, lo avvicina più di altri all’opera di Ozu è senz’altro la concezione del tempo, quindi la sua rappresentazione. Spiega Kore-eda:

“Sono interessato a cogliere l’intervallo, i momenti di transizione che scorrono fra un evento e un altro più che all’azione e alla sua immediata conseguenza.”

L’attesa della tempesta è dunque l’attesa di qualcosa che non si decide ad arrivare, al tempo stesso inesorabile nel suo passare: quest’ultimo non corrisponde certo ad una svolta, ma si configura come occasione di dialogo, momento in cui vivere il presente e in cui diventa possibile guardare al futuro con un po’ meno paura; di guardare avanti, proprio come quando, alla fine di un grosso temporale, ci si affaccia alla finestra e le cose appaiono sotto una luce nuova. I due momenti, prima e dopo questa nuova consapevolezza, passano anche attraverso un’accurata significazione degli spazi: se la confusione e lo spostamento fra tanti luoghi dominavano la prima parte del film, quella dell’attesa, la seconda, statica e caratterizzata da una certa tranquillità, è ambientata quasi interamente in due soli spazi: la casa della nonna e il parchetto sotto casa.

Sono gli spazi della ri-conciliazione, o almeno tentata, con se stessi.
In questo processo, centrale è la figura della nonna, la quale, senza nascondere al figlio e all’ex-nuora i propri rimpianti, si dedica ora alle proprie passioni, come seguire lezioni di storia della musica classica a casa di un anziano professore con le altre donne del vicinato. L’attrice Kilin Kiki si cala nella parte dando vita a un personaggio che si destreggia fra gravità e toni da commedia con straordinaria leggerezza. In esso torna forte la componente autobiografica, tanto che Kiki, con la quale il regista dice di avere un rapporto speciale, indossa sul set gli occhiali che furono della madre di lui: alla domanda di uno spettatore, che si interroga sulla definizione di questo personaggio, Kore-eda risponde senza alcun dubbio che si tratta di sua madre, o meglio “metà lei e metà l’attrice”. E l’immagine della donna che saluta dal balcone di casa, rappresenta forse al meglio la sintesi di quest’equilibrio fra autobiografia e realismo che l’autore ha orgogliosamente proposto, per un film nel quale ha voluto anche condensare una stagione importante della sua vita: un film che, ben lungi da facili risvolti, è un invito a riconsiderare il presente, malgrado i dubbi, i rimorsi, le aspirazioni mezze annacquate, perché in fondo si riparte sempre dalle persone, dalla necessità del confronto, giorno dopo giorno.
“Ritratto di famiglia con tempesta”, nelle sale dal 25 maggio.