Dal 27 aprile al 3 giugno 2017 la Burning Giraffe Art Gallery di Torino ospita la mostra “Fremito a perdere”, personale del giovane pittore Rosario Vicidomini. Siamo andati all’inaugurazione e abbiamo cercato di sapere qualcosa di più degli oggetti metafisici che dipinge, ma anche dell’uomo dietro la tela e delle ispirazioni che lo guidano.
–
_di Gerri J. Iuvara
Iniziamo dal principio, e quindi dal titolo della mostra: da che cosa deriva “Fremito a perdere”?
Non mi piace usare parole per descrivere i miei quadri – che peraltro, come avrai notato, non hanno neppure veri e propri titoli, ma piuttosto dei codici. Penso che le parole creino interferenze tra l’immagine e il suo fruitore. Quindi, dovendo scegliere il titolo per questa mostra, ho cercato di giocare con esse e usare un po’ di ironia, per contrapporla alla profonda serietà con cui affronto il mio lavoro. “Fremito a perdere” indica il tipo di vitalità interna agli oggetti – pur inanimati – che dipingo: un impulso fine a se stesso, che nasce e muore in sé.
Parlando dei soggetti dipinti nei tuoi quadri, puoi svelarci che cosa rappresentano per te o quali sono le tue intenzioni?
L’unica cosa che so è che sono oggetti in uno spazio; per il resto, che tipo di oggetti siano è ignoto anche a me. Non mi permetterei mai di suggerire un’interpretazione univoca. Sono forme misteriose e familiari al contempo. Mi piacerebbe che l’osservatore si approcciasse ad esse con occhi nuovi. Credo sia importante essere liberi di guardare le cose senza attribuire loro un nome o una funzione – come bambini che osservano il mondo per la prima volta, senza l’ossessione di far corrispondere nozioni e certezze a tutto ciò che è visto.
Le forme che dipingi sono frutto di una tua ricerca, cui sei arrivato per gradi, o sono loro che ti hanno scelto per essere dipinte?
Una cosa non esclude l’altra: credo anzi che soltanto entrambe, insieme, possano descrivere al completo il mio lavoro. Devo necessariamente riconoscermi in quello che creo: a volte, ad esempio, sulla tela emergono forme esteticamente interessanti ma che non mi appartengono, e allora non posso fare altro che cancellarle, disfarle. È mentre dipingo che l’idea si sviluppa: in un dialogo tra me e la tela, da cui nasce un avvenimento unico, un lavoro ogni volta irripetibile. Credo sia fondamentale perdere il controllo su ciò che si fa, altrimenti il proprio lavoro finisce per essere illustrativo e la pittura perde la sua vitalità, la stessa vitalità per cui nulla è replicabile.
Posso chiederti se hai dei maestri cui ti ispiri? Ho intervistato qualche tempo fa tuo fratello (clicca qui per leggere l’intervista), e lui mi ha citato, tra le sue fonti di ispirazione, Giorgio Morandi e Francis Bacon; secondo il sottoscritto, però, in questa breve lista di influenze visive c’è il tuo zampino. Sbaglio?
(Ride) No, non sbagli, sono due pittori che amo. Credo di avere assimilato la loro intensità in due modi diversi: se qualcuno ha intravisto nei miei lavori l’irruenza e l’irrequietezza tipiche di Bacon, forse è perché in me resta un riferimento cui ho probabilmente attinto in modo inconscio; Morandi, invece, è stato da me coscientemente adottato come un modello, fin dai miei primi passi.
Se potessi permettermi di sintetizzare questi maestri nella tua poetica, sembra che sulle tue tele Bacon abbia provato a dipingere gli oggetti di Morandi. Ci può stare?
(Ride) Sì, mi sembra una sintesi interessante. Data la grandezza dei due maestri, non posso che sentirmi lusingato di questo paragone!
Puoi parlarci del tuo processo creativo? Che cosa ti aiuta ad esprimere le tue esigenze artistiche? Ad esempio, ascolti musica quando dipingi? Che genere di musica ascolti?
Quando dipingo ascolto molta musica, ma forse il musicista che più mi accompagna è Moondog, un incredibile compositore che ha vissuto per decenni suonando per le strade di New York, cieco e in abiti da vichingo. La prima volta che lo ascoltai pensai di aver finalmente trovato qualcuno che stesse creando musica attuale e innovativa, per poi accorgermi con stupore che si trattava di brani registrati alla fine degli anni Sessanta.
So che vivi in Germania e che esponi i tuoi lavori prevalentemente all’estero. Per una tua personale in Italia, perché hai scelto proprio Torino?
È stata la Burning Giraffe Art Gallery a propormi questa stimolante collaborazione. Finora la galleria ha dato spazio e visibilità a giovani artisti molto interessanti, e sembra proprio voler uscire dal cliché dell’arte come questione elitaria. Mi è sembrato quindi il posto giusto per far conoscere il mio lavoro anche in Italia.
Concludendo, la più canonica delle domande: quali progetti hai per il futuro? Che cosa hai in programma prossimamente, oltre a questa esposizione sabauda?
In questo momento i miei lavori sono ospitati in due sedi espositive: questa galleria torinese e uno spazio ad Amburgo, dove espongo al fianco dell’artista Judith Mall. In ottobre, insieme ad altri artisti visivi, porterò alcuni dei miei lavori in Giappone, per un progetto espositivo in collaborazione con le città di Amburgo e Kyoto. Nei primi mesi del prossimo anno, dovrei avere la mia seconda mostra personale presso la Susanne Albrecht Galerie di Berlino, uno spazio con cui collaboro da lungo tempo.