Club to Club: un festival, un concetto, un viaggio, un rituale

Il festival torinese si conferma al top in Italia portando avanti un concetto di dancefloor sempre più libero e aperto a contaminazioni. Avant e pop.  Radicale ma non dogmatico. Illuminato e a tratti  illuminante. 


_di Lorenzo Giannetti
Una analisi “diagonale” dell’edizione 2016 attraverso le esibizioni di Swans e Tim Hecker, Arto Lindsay e Autechre.
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L’evoluzione di C2C avvenuta negli ultimi anni è qualcosa di stimolante ed esaltante da vivere e da raccontare. Una metamorfosi graduale quanto fisiologica che – come nel più coinvolgente dei romanzi di formazione – ha portato il festival ha plasmare una propria identità, sempre più forte e definita, eppure anche così eclettica e difficile da catalogare. Non si tratta più di un festival “solo” di elettronica: questo si è già detto e scritto, qui e altrove. Che cos’è diventato, allora, Club To Club?  E perché – rispondiamo ad un dubbio sulla bocca di molti “profani” – quest’anno in line up abbiamo trovato una band come gli Swans?
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Già agli albori del festival, Club to Club indicava (ed auspicava) lo spostamento “from club to club”, da una venue all’altra, da un set ad un altro. Mai come ora – per coloro che sanno e vogliono ascoltare – quel concetto di mobilità e fluidità viene traslato (o forse è meglio dire sublimato) dalle location strettamente fisiche ai percorsi del pensiero. In altre parole Club to Club mette in risalto dei collegamenti, suggerisce un percorso e prova a individuare strade nuove (o almeno a percorrerle per primo, in Italia).
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Se il dancefloor è il punto di partenza (diciamo il foglio bianco su cui tracciare gli assi cartesiani di C2C) il festival sembra costantemente alla ricerca di altre dimensioni da esplorare. Dalle frontiere più avanguardiste del pop alle danze estatiche della world-music passando per l’onda d’urto del noise-rock e le pulsioni viscerali dell’hip hop: quest’anno Club to Club ha fatto un altro passo avanti verso una danza totalizzante e dionisiaca che coinvolga muscoli e cervello. Uno spettacolo che sappia intrattenere ma anche interdire. No, quindi: Club to Club non è un festival di “sola” elettronica. Si avvicina più ad un mix di motorik e groove, ad un’idea di psichedelia proiettata nel futuro. Coi beat, coi droni o con le chitarre: non importa.
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Ecco allora che è possibile – eccome – tracciare un filo tra la sinfonia dell’Apocalisse degli Swans e la discesa agli Inferi di Tim Hecker, entrambe nella roccaforte di Lingotto ma in giorni diversi.
I primi costruiscono una cattedrale di suono dall’impatto dirompente, guidata – letteralmente – da uno ieratico Michael Gira che come un demiurgo e un direttore d’orchestra plasma un monolite fatto di stratificazioni sonore che potrebbero andare avanti all’infinito. E sicuramente vanno avanti – come dire? – più del dovuto, provocando un ragionevole panico dello staff di palco e causando uno slittamento della timetable, poi diligentemente recuperato.
Il secondo celebra un’altrettanto suggestiva liturgia sonica: i suoi droni si dilatano e si perdono nella fitta coltre di fumo che avvolge la consolle e tutti i presenti, in un’atmosfera estatica e al contempo asfissiante.
Più muscolare e impattante la proposta degli Swans, più eterea ed surreale quella di Hecker. Due percorsi diversi per portare nello stesso posto: Altrove.
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E che dire delle performance apparentemente così distanti dei fuoriclasse Arto Lindsay e Autechre? Forse le esibizioni più ostiche e insieme esaltanti di questa edizione, legate dal filo conduttore della decostruzione del linguaggio e dall’astrattismo della forma. Se il primo dichiara di usare la sua dodici corde come un drum machine, i secondi sembrano utilizzare le loro drum machine come lame affilate.

Il chitarrista americano – nella cornice sabauda del Conservatorio Giuseppe Verdi – offre una performance per certi versi spiazzante: non tanto per i suoi standard, quanto per quello che pensavamo avrebbe potuto proporre in un contesto come quello di Club To Club. Attingendo dal suo enciclopedico ed eclettico repertorio, non opta ad esempio per le commistioni elettroniche che avevamo apprezzato nell’ultima raccolta di rivisitazioni “Encyclopedia of Arto” bensì per l’avant-rock più anarchico, quello della scuola no wave che ha contraddistinto la prima parte del suo illuminante percorso artistico.
In effetti, non avevamo tenuto conto della “drum machine umana” con la quale Lindsay è finita a condividere il palco: quello straordinario batterista che risponde al nome di Paal Nilssen-Love, norvegese capace di fare i fuochi d’artificio dietro alle pelli, già visto all’opera con musicisti sovversivi del calibro di Matt Gustafsson e The Thing. È normale, dunque, che il coefficiente free-jazz dell’esibizione aumenti di parecchio: repentini cambi di tempo, corde imbizzarrite e percussioni strozzate intervallati da fugaci (e deliziosi) momenti di romantico tropicalismo. Ancora una volta, Arto sale in cattedra e ci fornisce la sua inafferrabile declinazione di “musica totale”.
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Altrettanto astratto e se vogliamo ancora più radicale il live set degli Autechre. Sono le 4 del mattino e l’incedere marziale dell’opening di Ghost In The Shell (in loop durante i cambi palco di questa edizione) suggerisce un approccio mistico alla performance del duo di Manchester. Una frangia del pubblico non ha apprezzato di dover aspettare quasi l’alba per uno dei main artist di questa edizione ma è pur vero che ha avuto un suo senso lo iato rispetto alla stordente esibizione degli Swans. E – diciamolo subito – gli Autechre hanno comunque spazzato via le polemiche su una timetable secondo alcuni poco felice grazie ad una esibizione monumentale.
Le luci vengono spente del tutto e sull’hypercube del Lingotto cala un’oscurità irreale, squarciata solo dai lampi di genio della coppia inglese. Le percussioni divorano letteralmente le viscere, mettendo fortunatamente subito k.o. buona parte (anche se purtroppo non proprio tutti…) degli stolti intenti a vociferare fastidiosamente durante suite erratiche come “Rpeg“.
Ad impressionare sono la potenza e la precisione con la quale il suono sferza lo spazio: neanche gli Autechre volessero aprire una crepa nel continuum temporale, neanche volessero incidere la tela nera del Lingotto come in un’opera di Lucio Fontana.
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Un altro rituale alieno da aggiungere alla lista. Qualcosa che attualmente, in questi termini, poteva accadere solo nella chiesa pagana di Club To Club. Amen.
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