Zaire ‘74

A metà degli Anni ’70, in quella che oggi conosciamo come Repubblica Democratica del Congo, si susseguirono una serie di eventi che assumono i contorni della leggenda. Tra sport, musica e politica, ecco l’incredibile storia di Zaire ’74.

 

Sire, non saremo più le vostre scimmie

Che il fiume Congo e le sue sorgenti rivestissero un fascino particolare negli occidentali è cosa nota. Fatto sta che furono i belgi i più scaltri tra gli europei, subito all’indomani del Congresso di Berlino del 1884, ad insediarsi in questo territorio immenso. L’imperatore Leopoldo II se ne impossessò e ne fece un suo dominio personale, dandogli il nome di “Stato Libero del Congo”. Che per tutto l’Ottocento e buona parte dei primi trent’anni del Novecento in Congo, nel frattempo diventato “Congo Belga”, i belgi abbiano perpetrato orrori indicibili contro la popolazione locale è, purtroppo, storia ormai nota. Tanto che perfino in italiano è diventata idiomatico, quando si vuole indicare qualcosa di inaudito o incredibile, dire “Ma dove siamo? Nel Congo Belga?”. Per chi volesse approfondire consiglio uno dei migliori libri (se non il migliore) libro del 2015, ovvero “Congo” di David Van Reybrouck.

Però il mondo, specie tra la fine degli anni Cinquanta e la fine dei Settanta, va avanti molto velocemente ed accade che, nel 1960 anche il Congo, nell’ottica di una più globale decolonizzazione, raggiunse l’indipendenza. Il primo Presidente, Patrice Émery Lumumba invitò re Baldovino I, sovrano del Belgio durante la cerimonia per la dichiarazione ufficiale d’indipendenza del suo Paese. Il monarca belga fece un discorso piuttosto paludato, dove non volle sottolineare troppo la sostanziale resa, almeno all’epoca pareva così, dei belgi ma disse, verso la fine: “Ringrazio poi il mio avo, re Leopoldo, un grande sovrano che ha dato lustro al mio come al vostro Paese”. Lumumba, giovane Primo Ministro, dopo aver sentito queste parole squadrò da capo a piedi Re Baldovino e gli disse: “Sire, non saremo più le vostre scimmie”.

Da scimmie a leopardi

Eppure la “vita pacifica” per il Congo doveva avere breve durata. Sobillati e finanziati da ufficiali e uomini di coordinamenti belgi, molte fila dell’esercito non riconobbero la presidenza Lumumba. Ciò portò allo scoppio di una vera e propria guerra civile, durante la quale venne ucciso lo stesso primo ministro Lumumba. In quel caos magmatico emerse, prepotentemente, la figura di Mobutu Sese Seko, già capo di Stato Maggiore dell’esercito nel 1961. Solo quattro anni più tardi destituì il primo ministro dell’epoca, ormai senza poteri, ed instaurò nel Congo una feroce dittatura. Lo stadio di Kinshasa, la capitale, veniva usato, spesso e volentieri, per esecuzioni sommarie. In questo scenario da incubo crebbe però uno nazionale di calcio, quello dello Zaire (così venne ribattezzato dallo stesso Mobutu il Congo), molto forte e competitiva in patria. Inoltre, il “neonato” Zaire si apprestava ad ospitare il match di pugilato che verrà ricordato come uno dei più importanti eventi sportivi di tutti i tempi.

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Di pallone, boxe e altre storie

I calciatori congolesi fecero in quegli anni presto parlare di sé. Nel 1972 il Mazembé, la più titolata squadra del Paese (e che poi, molti anni dopo, si giocò una finale di Mondiale per Club contro l’Inter di Benitez ed Eto’o) vinse la “Coppa dei Campioni Africana” e nell’anno successivo, la nazionale dei “leopardi”, il simbolo della federazione, strappò il pass per Germania ’74, ovvero per il Mondiale di Calcio, prima volta nel calcio africano.

Chi è Ilunga Mwepu?

Il Mondiale (uno dei più interessanti, tra l’altro, dal punto di vista tecnico-tattico) cominciò subito in salita per i congolesi. Infatti lo Zaire venne inserito in un girone che definire “di ferro” era dire poco: Scozia, unica squadra imbattuta delle qualificazioni, Jugoslavia, temibilissima e reduce da importanti risultati a livello continentale (finale degli Europei del 1968 proprio contro l’Italia) ed infine il Brasile, il Campione del Mondo in carica. Se in Africa i leopardi erano indomabili, in Germania appaiono come dei gattini impauriti. Ne beccano due dalla Scozia (e fin qui non male) e poi addirittura nove dalla Jugo. Un 9-0 fa sempre effetto ed ai Mondiali ancora di più. La figuraccia intercontinentale raggiunge anche le orecchie del Presidente – Maresciallo Mobutu che, per non saper né leggere né scrivere, prende il primo aereo da Kinshasa e raggiunge il ritiro della Nazionale in Germania.

Un gesto d’amore disperato

Facciamo un piccolo passo in avanti. Siamo già in campo, Brasile – Zaire: c’è una punizione per i verdeoro, la batte Rivelino. Rivelino, come da tradizione, prende la sua caratteristica rincorsa, molto lunga ed attende che l’arbitro fischi per calciare. Ma qui avviene “l’incredibile”: dalla barriera congolese si stacca, lasciando ammutoliti tutti gli spettatori presenti, tale Ilunga Mwepu che tira un calcio fortissimo al pallone, che se va dall’altra parte del campo. Inaudito: “Questi africani non sanno neppure le regole elementari del gioco del calcio” si sente riecheggiare dagli spalti e per tutto il mondo.

No, non era così. Certo i Leopardi non erano una squadra di livello e sicuramente erano la “peggiore” di quelle arrivate alla fase finale. Ma quella partita loro, i congolesi, non la giocavano per la vittoria o per la gloria, no: loro la giocavano per la vita. Infatti poche ore prima (e qui riannodiamo i fili della nostra storia) Mobutu, esonerato l’allenatore e riuniti tutti i giocatori davanti a lui fa un discorsetto che nessuno si scorderà: “Dopo quello che avete fatto, lo sapete già, le vostre famiglie sono state più volte minacciate. Io ho fatto quello che ho potuto ma se prenderete più di tre gol col Brasile non posso assicurarvi che tornerete a casa”. Altro che vittoria, altro che gloria. Ecco perché Mwepu si era staccato dalla barriera in un gesto folle e disperato: stava proteggendo la sua famiglia, i suoi compagni e la sua stessa vita.

Rumble in the jungle

Bene, la partita finisce 3-0 e i congolesi sono salvi, ma non è finita qui. Certo il Mondiale finisce e, come quasi sempre, a vincerlo sono i tedeschi. Ma noi prendiamo l’aereo verso settembre per Kinshasa dove sta avvenendo l’impossibile. Infatti dal 22 al 24 settembre la capitale dello Zaire è travolta da un altro evento – un evento “doppio” di portata epocale – che accende i riflettori mondiali sulla nazione governata da Mobutu: l’incontro di pugilato tra Alì e Foreman e il più grande concerto di black music mai organizzato fino ad allora.

When we where kings

Il clima di quei giorni – che diventarono settimane, a causa del rinvio del match per una ferita all’occhio rimediata da Foreman in allenamento – è descritto in maniera superba dal documentario When We Were King di Leon Gast, vincitore del Premio Oscar nel ’97 e recentemente riproposto in Sala dal Cinema Massimo di Torino in occasione dell’ultimo appuntamento della rassegna dedicata al documentario d’autore intitolata Tra Cinema e Antropologia.

L’intento originale del regista era con ogni probabilità quello di filmare le acrobazie delle grandi stelle della soul music sul palco e le contorsioni dei due pugili sul ring, ma – come sottolineano Cecilia Pennacini e Franco Prono affiancati nell’introduzione alla proiezione dal giornalista sportivo Gianpaolo Ormezzano, che proprio nel ’74 ebbe modo di intervistare Alì – è quasi impossibile scrivere la sceneggiatura definitiva di un documentario poiché gli elementi più interessanti sono spesso quelli inaspettati: l’affresco di Gast va infatti ben oltre la cronaca sportiva o l’antologia musicale (c’è spazio per i divi James Brown e B.B. King e altresì per il carismatico manager Don King, deus ex machina dell’evento) restituendo una visione diagonale della società sudafricana degli Anni Settanta e uno sguardo intimo sulla straordinaria parabola esistenziale di Alì. Tra funk e diritti civili, sport e politica, When We Were Kings può ragionevolmente essere tramandato ai posteri come il grande romanzo della negritudine.

Dopo le indagini strettamente pedagogiche di Essere e Avere di Nicolas Philibert e La mia classe di Daniele Gaglianone, un documentario “sulla boxe” in occasione della chiusura della rassegna potrebbe suggerire una cesura che in realtà non c’è: “Be somebody”, trova la tua strada e lotta con tutto te stesso per qualcosa in cui credi, sembra suggerire per tutto il film Alì. Se non è pedagogia questa…

Articolo di Mattia Nesto con il contributo di Lorenzo Giannetti.