La preview del Seeyousound con i documentari firmati da Noisey fa il tutto esaurito al Cinema Massimo.
_di Lorenzo Giannetti
Seeyousound è il festival torinese dedicato ai documentari di matrice musicale. Generi, scene e tendenze legate al mondo della musica – e dell’arte in generale – sono spesso frutto di una particolare contingenza storica. La società plasma l’arte e viceversa, in un ambiguo rapporto simbiotico che può generare paradigmi inediti e contaminazioni inaspettate ma anche mostri e falsi idoli. Parlare di musica quindi – anche e soprattutto attraverso il documentario – vuol dire quasi sempre scandagliare l’humus culturale di un luogo e un tempo: parlare di fatti, luoghi e persone, oltre che di note, testi e strumentazione.
Ecco perché é bene sottolineare che un festival come Seeyousound non é e non deve essere oggetto di interesse esclusivo degli appassionati di musica.
In questo senso, il 2015 é di buon auspicio: pellicole dall’impronta documentaristica su musicisti di culto come Amy e Montage of Heck (ma anche Straight Outta Compton, pur essendo un vero e proprio biopic) hanno registrato numeri importanti al botteghino, coinvolgendo una fetta di pubblico (e di critica) ben più ampia del previsto. Ed é sull’onda lunga di quest’ottima annata che Seeyousound “entra” al Cinema Massimo – quest’ultimo reduce dalla 33° edizione del Torino Film Festival che ha omaggiato, tra gli altri, anche Julian Temple, uno dei guru del documentario a sfondo musicale.
Il battesimo nella cattedrale sabauda della Settima Arte non poteva andare meglio: sold out in Sala 2 e qualche sfortunato ritardatario rimasto in Via Verdi senza biglietto. Dopo i ringraziamenti istituzionali da parte del Professor Boni a sancire la collaborazione tra Museo del Cinema e Seeyousound, la parola passa al direttore artistico del festival Maurizio Mao Pisani. Quest’ultimo illustra per sommi capi le coordinate della prossima edizione, che si terrà in febbraio (non più in primavera) e farà perno su una rassegna intitolata Music is the weapon (ricordate il folgorante documentario su Fela Kuti e la guerriglia afrobeat?). Il tempo di proiettare il teaser realizzato da Seeyousound per la racconta fondi su Musicraiser a sostegno del festival e si procede con le proiezioni-format intitolate Under the influence.
Si tratta di tre documentari realizzati da Noisey, piattaforma editoriale satellite di Vice dedicata all’approfondimento musicale.
Vice ha recentemente inaugurato il proprio canale televisivo e le sue inchieste vengono passate regolarmente su Sky, per darvi un’idea della cura e delle ambizioni dei loro contenuti video. Virginia W. Ricci, una delle firme più conosciute di Noisey Italia, è chiamata a rappresentare la redazione e presentare le proiezioni in questione: lo fa indubbiamente in maniera non troppo ortodossa, leggendo una bozza salvata sul cellulare, ma la puntualità e la sagacia delle sue parole sono le stesse di sempre. I documentari, accorpati per l’occasione, sono introdotti da altrettanti local heroes. Il tutto esaurito è un risultato ancora più sorprendente se pensiamo che i documentari in questione sono visibili liberamente su youtube, sul canale di Noisey, senza bisogno di scaricare alcunché.
For those I love I will sacrifice
Il primo è forse il più controverso: quello sull’hardcore punk newyorkese. Il cappello introduttivo è a cura di Francesco Rapone – dj, organizzatore di eventi e fondatore della crew Devil’s Dancers: una autorità cittadina in fatto di musica heavy e dark, che si tratti di elettronica, psichedelia, new wave, post-punk o quant’altro. Nel tris di relatori Rapone è quello che si rivelerà più a suo agio nel ruolo di “Cicerone”. Del resto, come racconta lui stesso, per una serie di coincidenze, nell’ultimo mese si ritrova a presentare ben tre documentari sull’hardcore punk e le sue declinazioni: l’exploit del mese scorso al Blah Blah per la proiezione sulla scena hc nostrana, l’appuntamento di questa sera e quello del prossimo lunedì, di nuovo al Blah Blah, per parlare dei peculiari sviluppi del punk nella Germania dell’Est. Rapone prosegue evidenziando come il documentario di Noisey si concentri sulla seconda ondata dell’hardcore americano, piuttosto diversa dalla prima; poi sfodera una serie di cimeli a tema da mostrare al pubblico: le più esaustive pubblicazioni della Shake Edizioni sull’argomento ma soprattutto alcune copie della leggendaria fanzine Maximum Rock’n’roll, che essendo stampata con mezzi rudimentali in ottica DIY aveva – racconta tradendo una certa emozione Rapone – la particolarità di sbavare, “sporcare le mani di inchiostro”.
E’ forse questa immagine rappresenta al meglio lo spirito del documentario che vedremo di lì a breve: hardcore – per di più a New York, dove è sempre stato un “family affair” – vuol dire sporcarsi le mani, non tirarsi indietro, uscire dalla comfort zone. We gotta know, dicevano i Cro-Mags. E aggiungo: Rifiuta di accettare/sforzati di capire, dicevano i nostrani Fluxus.
Il documentario offre poi diversi spunti interessanti, citando l’urlo barbarico di Walt Whitman, l’esistenzialismo intimista dei Title Fight, le illustrazioni del mosh-pit di Dan Witz e ovviamente la fucina di artisti fuoriuscita più incazzata che mai dai tombini della Grande Mela (dai padrini Agnostic Front ai Sick Of It All fino ai Beastie Boys). Le sforbiciate non mancano (Ian MacKaye? Le derive intransigenti e violente dello straight edge?) ma nel complesso il documentario è godibilissimo. Come sottolineato da Rapone, é interessante in chiusura mettere agli atti una sorta di passaggio di consegne transgenerazionale che travalica anche i generi: il documentario va a pescare infatti gli Youth Code, band di matrice EDM (i loro dischi escono su Sacred Bones, etichetta sempre pronta a demolire i cliché di genere), lontana musicalmente dal punk newyorkese ma simile nell’attitudine.
L’onda senza fine
Attitude, i Bad Brains lo dicevano fin dall’inizio. La stessa attitudine che sarebbe l’unico vero collante di quel manipolo di alieni atterrati (o decollati) in una terra di mezzo tra le due Germanie nel ’68, spiega Alessandro Gambo, chiamato a presentare il secondo documentario sul Krautrock. La sua presenza sancisce innanzitutto un’altra importante partnership chiusa da Seeyousound: quella con il Varvara, festival al crocevia tra clubbing, psichedelia heavy e sperimentazione colta, di cui Gambo é il direttore artistico. Non solo: quest’ultimo gestisce la programmazione del Magazzino Sul Po, ha fondato un’etichetta discografica techno oriented, é uno dei curatori della rassegna di musica elettronica PunkT nonché un dj: in tutti e tre i casi l’approccio di Gambo si é rivelato eclettico, onnivoro e soprattutto aperto a contaminazioni e sinergie. Non si dilunga troppo nella sua disamina del kraut, dicendo di preferire ascoltare (e collezionare!) la musica, mentre non si trova molto a suo agio nel “raccontarla”.
Io provo a fare l’una e l’altra cosa e faccio che partire proprio dall’elettronica per arrivare al kraut, prendendo in mano uno dei fili logici del documentario: ogni dj è figlio più o meno consapevole del kraut. Così come, molto probabilmente, il krautrock tutto é figlio illegittimo degli studi di Stockhausen sulla musica concreta e puntuale. Come l’hardcore newyorkese, la psichedelia tedesca di Neu!, Faust etc é una questione di attitudine ed altresì una manifestazione diretta dello spirito del tempo e del luogo nel quale si é sviluppata – in questo caso una Germania ancora confusa dopo il marasma della Seconda Guerra Mondiale in cerca di una rinnovata identità, da plasmare anche attraverso il recupero di uno zeitgeist tipicamente teutonico.
Anche in questo caso non é facile imbastire un discorso esaustivo, ma del resto non é l’obiettivo del documentario. Le suggestioni sono delle più disparate: dalle danze dei rituali ancestrali, al principio del Less is more inteso come ricerca delle radici e dell’essenziale, passando per il campionamento dei Kraftwerk da parte di Afrika Bambaataa (da considerarsi una sorta di big bang per l’hip hop). In quest’ottica le canzoni non si scrivono: si scoprono, si rivelano sul “rettilineo infinito” del “motorik beat” (il suo creatore Michael Roter infatti preferisce chiamarla “road music”), in jam senza regole e in formazioni senza gerarchie. E forse anche con un po’ tutta quella droga che non avrebbero invece consumato gli straight edge…
This is England
Il terzo ed ultimo documentario possiamo considerarlo il filmino del “matrimonio perfetto” tra reggae e punk, che ha dato vita a quel crogiolo di stili – musicali e non – finiti sotto l’etichetta di 2tone britannica. Due generi musicali, due colori: il bianco e il nero. E soprattutto due facce delle stessa medaglia: Yin e yang, come ha detto Virginia in apertura e come ribadisce Giovanni Naska degli Statuto, che introduce un argomento che conosce a menadito. Lo conoscevano sicuramente in maniera meno approfondita i Beatles, che tuttavia in almeno un paio di canzoni suggeriscono un collegamento tra UK e Giamaica – racconta Oscar. E prosegue: Ghost Town é sicuramente la canzone che meglio rappresenta il clima del periodo: le tensioni razziali fuori dai locali, l’aria pesante delle vie di Coventry, i diktat del Front National, il preludio all’Era della Lady di Ferro. Anche in questo caso il documentario non lesina in quanto a spunti ed é un ottimo punto di partenza per una riflessione sull’annosa questione dell’integrazione razziale, della lotta di classe e delle dinamiche sociali in generale – che consiglio di integrare con la visione del film (e poi della serie) This is England.
Segnalo almeno un paio di chicche emerse durante la visione: gli Aquabath (band ai limiti del non-sense tra The Specials e Devo), la storia delle copertine dei Sublime e l’intervista alla rapper cilena Ana Tijoux (forse l’avete sentita in Breaking Bad). A proposito, una cosa che accomuna tutti e tre i documentari, e che per quanto forse un po’ dispersiva trovo piuttosto interessante, è quella di ricercare in terre anche lontanissime i prodromi delle esperienze socio-musicali oggetto di analisi, dall’hardcore in Korea al kraut e lo ska in America Latina (personalmente avrei citato almeno l’exploit mediatico dei Die Antwoord nel Sudafrica post-Mandela, ricollegandomi al tema del multiculturalismo ma that’s it).
Quest’ultimo documentario é anche quello che coinvolgeva più direttamente Tim Armstrong, la voce narrante del tris di inchieste socio-musicali messe a segno da Noisey. Famoso soprattutto per la sua militanza nei Rancid (coi quali ha riportato lo ska nelle classifiche di mezzo mondo e nelle cuffie del kid classe 1990 che scrive questo articolo) Armstrong ha fatto parte delle cosiddetta terza ondata ska con la sua prima formazione, gli Operation Ivy. La sua voce biascicata ci ha guidato in questo viaggio dalla Grande Mela alla Terra d’Albione via Berlino che ci insegna soprattutto che la musica ha un punto di partenza ma infiniti punti di arrivo.
E a me tornano in mente proprio le parole di Tim, quelle di una delle più famose canzone dei Rancid e quelle che mi sono sentito ripetere in cuffia n. volte da ragazzino, folgorato:
Turn it up
Fuckin’ loud
Radio Radio Radio
When I got the music I got a place to go
La serata prosegue all’Amantes, dove già durante l’aperitivo ci si poteva rifare gli occhi con i dischi cult esposti per la mostra Vinilogy 33×33, curata da Paolo Campana e Gabriele Bramante è resa possibile grazie ai preziosi vinili di Marzio Bertolotti, Materiale Resistente, Les Yper Sound e Vinylwood. Ci rivediamo a febbraio, Seeyousound.