Blade Runner 2049 non sarebbe piaciuto a Philip K. Dick

Denis Villeneuve riesce a dirigire un sequel più che dignitoso ma – come del resto il primo capitolo firmato da Ridley Scott – Blade Runner 2049 non sembra rendere davvero giustizia allo spirito outsider del suo autore Philip K. Dick. 


_di Matteo Billia

A Los Angeles, in California, c’è una fabbrica di sogni. All’interno di questa, in un’ampia sala, stanno seduti i pezzi grossi di Hollywood, gli scrittori e i registi che hanno dedicato la loro vita al cinema. In quella stanza hanno posto gli autori di ogni tempo, ma là, per autore, si intende una funzione che accompagna l’opera, non dando alcuna importanza a chi l’ha scritta. Così, tra questi invitati, si trova anche il defunto scrittore di fantascienza Philip K. Dick, per sua scelta un po’ in disparte, quanto basta a testimoniare la propria svogliata presenza. Forse, in questo caso bisogna dire che fosse l’invitato meno adatto, perché i grandi produttori dello spettacolo sono troppo avidi per comprenderlo appieno.

Si può dire che il signor Scott abbia estetizzato l’opera dello scrittore, quella sua figlia un po’ nevrotica e paranoica, replicandola con i grandi budget. E quindi, se Philip si fosse seduto in sala, durante una proiezione di Blade Runner in maxi schermo, sarebbe uscito dopo neanche metà film dalla porta di sicurezza. Non perché il film fosse fatto male, ma perché non c’era niente di suo.

«Esistono opere cinematografiche che raccontano una verità esistenziale:
Blade Runner 2049 non ci prova neanche, ma vuole essere una di loro,
esattamente come un replicante impazzito»

Blade Runner 2049 è un film ingiustificatamente lungo, con scene che non creano la tensione che dovrebbero. Quasi tutti i pregi si devono alle spettacolari scenografie di Dennis Gassner (Oscar nel 1992 per Bugsy), alle ricostruzioni realistiche delle ambientazioni (molte scene, come l’entrata dello spinner nell’edificio in cui Deckard si è rifugiato sono state realizzate senza l’ausilio degli effetti speciali) e all’impeccabile fotografia di Roger Deakins (immancabile collaboratore dei Coen, nominato 13 volte agli Oscar senza mai vincerne uno).

«Quasi tutti i pregi si devono alle spettacolari scenografie di Dennis Gassner
e alle ricostruzioni realistiche delle ambientazioni»

Tutto ciò che lo scrittore Philip K. Dick criticava in vita, quella rappresentazione che è sempre un rovesciamento della propria verità, è tutto ciò che rappresenta questo film. L’autore è diventato, suo malgrado, una mera funzione: un nome scritto nei titoli di coda per innalzare il valore di un prodotto. Ma Philip K. Dick non era un intellettuale. Lui stesso ha voluto vivere nella zona d’ombra dell’emarginazione, la periferia dove vanno a morire i suoi androidi, il luogo fisico e astratto del degrado, regno degli alienati. Perchè, incredibilmente, quel luogo tanto temuto dagli “integrati”, zona di confine che non si deve oltrepassare, è il regno della libertà e della scoperta al di fuori della gabbia sociale; è la discarica, il deserto dove i tanti non potrebbero vivere, ma dove un androide scopre il miracolo della creazione: un fiore che nasce tra i rottami arrugginiti.

È proprio in quella zona che si incontrano gli agenti del potere e i fuggitivi da quel potere stesso. Era proprio per l’agente Deckard che “lavorare stanca”, perché un contratto compromettente la libertà dell’individuo, contro ogni sua volontà. Quel messaggio così pericoloso è stato snaturato, con il risultato che, chiunque voglia avvicinarsi all’opera dello scrittore, si aspetterà effetti speciali e scenografie che non si possono costruire tra le pagine di un libro.
Esistono opere cinematografiche che raccontano una verità esistenziale. Blade Runner 2049 non ci prova neanche, ma vuole essere una di loro, esattamente come un replicante impazzito, invidioso del proprio creatore. Un doppio con un proprio linguaggio, che per esigenze diverse non potrà mai replicare la sua umanità originaria.

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