Film “travestito” da opera d’arte o opera d’arte a tutti gli effetti? Se, da una parte, la magniloquenza di The Brutalist si offre immediatamente al pubblico lasciando affiorare l’ambizione smisurata del suo autore, dall’altra non si può non riconoscere il valore di un dramma epico di rara intensità filmica, che cede tuttavia nella durata. Al di là delle manie di grandezza di Brady Corbet, resta tuttavia il ritratto audace di un soggetto preso a calci dalla storia (non certo di moda, oggi) e della natura ambigua dell’arte. Di Alberto Vigolungo.
Nelle premesse, The Brutalist avrebbe dovuto essere uno dei film dell’anno. In primis, per la durata (oltre le 3 ore), per l’eco straordinaria seguita alla sua anteprima veneziana, per l’estetica ricercata tutta movimento e ritmo alla ricerca dell’immagine perfetta, alla quale Brady Corbet affidava i suoi sogni di gloria per la definitiva consacrazione del suo talento come regista (costantemente ricercata fin dal 2015), e del sodalizio artistico (oltre che affettivo) con la sceneggiatrice norvegese Mona Fastvold. Scommessa riuscita? Solo in parte, perché tra eccessi di magniloquenza e momenti di grande cinema la grandiosità di questo film è confermata da diversi elementi.
La pellicola si distingue infatti per la sua innegabile potenza espressiva, nella fotografia così come nelle scelte profilmiche, frutto di uno studio che si confronta con la lezione di maestri come Peter Greenaway (vedi gioco di grandangoli e prospettive), costituendo il tratto distintivo di un progetto coltivato per anni, “summa” di tutte le ambizioni di Corbet non solo come cineasta, ma come artista in grado di sintetizzare nella sua opera diversi linguaggi. Anche il movimento, protagonista di uno dei trailer più audaci degli ultimi anni, si conferma almeno in parte nell’opera, manifestandosi in un dinamismo che, oltre alle soluzioni di regia, è magnificamente corroborato dall’incedere maestoso delle musiche di Daniel Blumberg.
Monumentale sinfonia audiovisiva divisa in tre parti, con il respiro del grande romanzo storico, The Brutalist è un’opera sul dolore della migrazione, sul trauma della memoria, sull’ambiguità del rapporto tra artista e opera (e committente), sulla fedeltà a sé stessi e al proprio talento. Riecheggiando la forma del dramma epico-storico (in un gusto letterario confermato anche dai titoli, che sembrano uscire direttamente dalle opere di Paul Auster e Don DeLillo), il film è molte cose, ma prima di tutto la storia di un genio dell’architettura e del suo dramma, che fu di milioni di persone colpite dalla ferocia delle persecuzioni naziste.
Architetto ebreo-ungherese fuggito dal campo di concentramento di Buchenwald sul finire della Seconda guerra mondiale, László Tóth approda a New York insieme a milioni di persone sopravvissute alla rovina dell’Europa, per cominciare una vita diversa, nella speranza flebile, ma ancora viva, di accogliere nel Nuovo Mondo l’amata moglie Erzsébet e la nipote Zsófia. A Philadelphia è ospite del cugino Attila, esponente della classe media rampante proprietario di una ditta di mobili e arredo, che lo assume e lo coinvolge nel progetto di realizzazione della nuova biblioteca personale del facoltoso industriale Harrison Lee Van Buren. Su impulso del figlio di quest’ultimo, che offre “carta bianca” alla ditta rispetto ad un progetto concepito per stupire, László esprime tutta la sua creatività, dando forma ad un ambiente progettato per essere intorno al fruitore, e in cui luce e verticalità dominano lo spazio. A lavoro terminato, tuttavia, lui, Attila e i collaboratori vengono allontanati in modo brusco dal ricco imprenditore, senza nemmeno ricevere il compenso.
A questo episodio segue il progressivo logoramento dei rapporti tra il protagonista ed il cugino, che lo costringe ad allontanarsi dalla sua casa e a tornare in mezzo alla strada. Anni dopo, impiegato come operaio presso un cantiere dove conosce Gordon – che in seguito diventerà il suo più fidato collaboratore – e sprofondato nella dipendenza da eroina, László incontra nuovamente Van Buren il quale, scoperta la sua formazione di architetto nelle maggiori esperienze d’avanguardia europee nel periodo compreso tra le due guerre, intende risarcirlo per il lavoro svolto e invitarlo a frequentare la sua dimora; qui, durante un party, Tóth riceve da colui che ha ormai deciso di diventare il suo esclusivo mecenate l’incarico di un nuovo progetto: l’edificio monumentale che Harrison intende consacrare al ricordo della madre Margaret, che troverà forma, al termine di un percorso travagliato, nel Margaret Lee Van Buren Memorial Center.
È proprio durante il soggiorno presso la residenza del suo committente che László si ricongiunge con i propri cari, facendo i conti con l’infermità di Erzsébet e i silenzi di Zsófia. Mentre inizia il doloroso processo di assimilazione della famiglia ritrovata alla realtà americana, e mentre Erzsébet, donna colta e brillante, fa sempre più colpo sui Van Buren, cercando di riprendere il suo lavoro di giornalista, il progetto del memoriale subisce una brusca interruzione, a causa di un incidente che coinvolge il treno sul quale viaggiavano i materiali edili acquistati per la sua costruzione, e che provoca diverse vittime. Tra alti e bassi, tra intrusioni e tentativi di revisione sempre orgogliosamente respinti, László è costretto ad abbandonare l’impresa.
Trasferitasi a New York, dove László si impiega come progettista e la moglie come giornalista, la famiglia Tóth prende atto della separazione da Zsófia, che ha deciso di trasferirsi con il marito in Israele. In questo periodo, il protagonista viene nuovamente coinvolto da Harrison nel progetto, volando con lui a Carrara per acquistare il marmo destinato alla costruzione dell’altare; qui, durante una notte di festa presso le cave, il committente abusa dell’architetto, approfittando degli effetti del mix di alcol e droga assunti dallo stesso.
Testimone del declino del marito, dopo aver ascoltato la sua confessione, Erzsébet si presenta da sola a casa Van Buren e accusa Harrison davanti alla sua famiglia; dopo essere stata allontanata dal figlio di lui e aver trovato il parziale sostegno della figlia, la proprietà viene setacciata dal personale, ma dell’uomo non viene trovata alcuna traccia.
Nel 1980, nell’ambito di una retrospettiva a lui dedicata dalla Biennale di Venezia, un anziano Tóth, ormai vedovo e provato dalla malattia, è celebrato come uno degli architetti e designer più geniali della sua epoca, nonché ispiratore del movimento brutalista.
La prima parte concentra il meglio delle oltre tre ore e mezza del sogno magniloquente di Corbet, quella che ne giustifica il tentativo di misurarsi con grandi demiurghi dell’immagine alla Orson Welles o Francis Ford Coppola, almeno in parte. L’enigma dell’arrivo (1947-1953) dischiude una potente mitopoiesi del Sogno americano, un’epopea della migrazione che si respira in romanzi come Underworld o 4 3 2 1, tracciando i confini del dramma di un artista sradicato, o “escluso”, come scrive efficacemente Nicole Henneberg a proposito dei personaggi di un’altra opera-mondo, Berlino, addio, del quale l’ultima parte è interamente dedicata alla condizione degli ebrei fuggiti in America dagli orrori delle persecuzioni naziste. Qui, le idee di Corbet sul cinema trovano la loro realizzazione più completa, la conferma del suo talento registico, tra costruzioni complesse, distorsioni ottiche e soluzioni funzionali ad un dinamismo figurativo di grande impatto, espresso sia sul piano filmico sia sul piano profilmico (dal lavoro sulla scala dei piani alla soggettiva impossibile del paraurti, vera e propria metafora visiva dell’ansia di riscatto che accompagna la nuova vita di László Tóth).
Ne’ Il nocciolo duro della bellezza (1953-60), che vede l’agognato ricongiungimento della famiglia Tóth, viene affrontato il tema dell’inquietudine dell’artista e del suo famigerato rapporto con il committente. Qui, il Corbet cinefilo (che passa per Dreyer e Tarkovskij) e raffinato cultore d’arte osa in una rappresentazione che aspira a far convergere in un unico linguaggio le sue grandi passioni, dedicandosi ad un rigore formale che privilegia campi interi e paesaggi dominati da linee verticali, quelle stesse linee al centro dell’estetica Bauhaus e minimalista da cui proviene il protagonista, e che trovano la loro espressione più spirituale nel progetto di costruzione dell’Istituto Van Buren. Ambiziosa e carica dei risvolti più concettuali del film, la seconda parte è quella in cui il regista perde definitivamente il controllo del suo lavoro, in cui l’idea pura si infrange alla prova dei fatti, come László si perde nella notte di Carrara, divorato dall’avidità del suo ambiguo committente.
Questo tentativo di fusione totale, mentre dal racconto affiorano tracce della biografia di Frank Lloyd Wright, precedute dalle esplicite citazioni della prima parte (con l’omaggio a due oggetti “icona” del design del XX Secolo, come la chaise longue di Mies Van Der Rohe e la sedia “B 32” di Marcel Breuer, prodotte rispettivamente a partire dal 1927 e 1928), è tradito dal rallentamento di quel ritmo che aveva colto lo spettatore fin dalle prime sequenze, restituendo un film vittima delle sue stesse ambizioni. A fronte di questo calo di tensione narrativa e filmica, rimane suggestiva la riflessione sul tema del rapporto tra artista e committente, in un’epoca crocevia per la storia dell’arte del XX secolo, che vede il definitivo spostamento del baricentro culturale dell’Occidente da una parte all’altra dell’Atlantico e, con esso, il confronto degli artisti europei con un nuova committenza, decisa a riversare le sue logiche di potere su un sistema dell’arte in rapida trasformazione.
La parabola discendente che accompagna The Brutalist è poi certificata nell’epilogo un po’ scontato, limitato ad una sintesi della vicenda umana e artistica di Tóth, come ad anticipare i titoli di coda, nel contesto à la page di una Biennale di Architettura.
Sogno cinematografico di un talento riconosciuto molti anni fa da un regista come Jonathan Demme, The Brutalist rimarrà celebre, al di là dell’Oscar assegnato con merito ad Adrien Brody (alla sua seconda statuetta, dopo quella ottenuta per Il pianista di Roman Polanski, più di 20 anni fa), per il racconto dei sogni di gloria del suo autore-demiurgo, che mette in scena l’estremo tentativo di un uomo di redimersi attraverso l’arte, riflettendo una scrittura ispirata che perde tuttavia di tensione nella durata. Resta un film assolutamente godibile, capace di incantare lo spettatore come gli immensi edifici di Manhattan incantano il migrante Tóth al suo ingresso nel porto di New York, che punta ad una dimensione artistica e narrativa nella quale in tempi recenti è riuscito solo il Mank di David Fincher, con esiti decisamente differenti.