“The Substance”: l’orrore della perfezione

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Annunciato come una delle esperienze cinematografiche dell’anno, il secondo lungometraggio di Coralie Fargeat non delude le attese, specie quelle di un pubblico devoto ad una certa concezione di horror, tanto coraggioso nella sua proposta estetica quanto nella sua visione politica; non un capolavoro, perché non sempre in grado di bilanciare i suoi eccessi formali rispetto alla complessità dei temi che affronta. Disturbante, folle, spietato, “The Substance” resta comunque un grande film sul nostro tempo: protagonista assoluto, il corpo femminile e la sua percezione, tra ipocrisie e stereotipi che, nonostante le battaglie del movimento #MeToo, continuano a condizionare in larga misura il canone estetico contemporaneo. Di Alberto Vigolungo.

Di tutto ciò che si è detto a proposito di “The Substance”, non si può certo negare che la sua regista abbia osato. Coralie Fargeat, esponente di spicco di una generazione assai talentuosa di cineaste d’oltralpe (di cui fa parte, tra le altre, Justine Triet), osa decisamente in questo horror d’autore teso tra vette di citazionismo “colto” (da Kubrick a Lynch, passando per il miglior Cronenberg, di cui riprende uno dei temi portanti di tutto il suo cinema, la mutazione) e puro splatter (del quale la cruenta decomposizione finale rappresenta l’apoteosi), filtrato attraverso un montaggio ipertrofico che ricorda Aronofsky. Per tutti questi ingredienti, l’opera della Fargeat – alle prese con la sua prima produzione al di fuori dei confini patri – si impone in un mix sensoriale davvero esplosivo, spesso ispirato e quasi sempre sconvolgente.

Molteplici (e complessi) i temi: il rapporto femminile con il corpo e la sua rappresentazione, l’estetica come paradigma dominante della società contemporanea, il terrore dell’oblio, il transumanesimo… Assalto frontale agli stereotipi della bellezza contemporanea, nonché satira brutale di un certo sguardo maschile (tutt’altro che “morto” con Harvey Weinstein, cui si rifà non a caso il nome del personaggio interpretato da Dennis Quaid), “The Substance” descrive la parabola di autodistruzione di una stella della tv, protagonista di un patto faustiano con un’oscura tecnologia che le permette di accedere ad una versione “più bella, più giovane, più perfetta” di sé, finché quest’ultima non prende il sopravvento, decostruendo il corpo che l’ha generata pezzo per pezzo, senza possibilità di ritorno alcuno.

Uno dei tratti più ambiziosi dell’operazione di Coralie Fargeat è che lo sviluppo di tematiche di tale respiro passi attraverso una delle formule narrative di più ampio successo nel mainstream di questi ultimi anni, televisivo in primis: quella della gamification. In maniera non così dissimile da “Squid Game”, “The Substance” consiste infatti nella ludicizzazione di un vasto campionario di incubi postmoderni. Tutto, in questo film, si sviluppa come un gioco: lo stesso fluido sintetico la cui somministrazione promette di “cambiarti la vita” viene presentato attraverso un packaging seducente, è accompagnato da un set di regole precise (quasi tutte di natura tecnica, tranne una, l’ultima, che diventerà la maledizione di Elisabeth Sparkle: “Ricorda: sei sempre solo una, te stessa”), porta con sé l’irresistibile promessa di un alter-ego, che qui assume le sembianze della frizzante Sue. Come ogni gioco, inoltre, il tempo di “The Substance” è scandito secondo un ritmo definito: una settimana a disposizione di Elisabeth, una settimana a disposizione di Sue, allo scopo di favorire la rigenerazione delle riserve biologiche necessarie al suo sostentamento. L’alternanza, regola fondamentale di questo patto, viene violata dalla protagonista dapprima in misura minore, poi sempre crescente. Il punto di non ritorno della sua esperienza è fissato in una scena in cui Elisabeth, alle prese con le prime controindicazioni, scopre in un anonimo bar di Hollywood di essere protagonista tutt’altro che solitaria di questo gioco infernale, riconoscendo in un misterioso interlocutore il medico che le aveva raccomandato la sostanza. “Hai già iniziato a divorarti da dentro?”: con queste parole, dall’afflato quasi dantesco, si spalanca l’abisso per la donna. Ciò che distingue nettamente The Substance da un gioco è un unico aspetto, certamente non secondario: l’impossibilità di ricominciare. Il reset non è contemplato, e alla protagonista non resta che affrontare le conseguenze di questa scissione, fino alla morte.

Certamente, le visioni più estreme della pellicola (sulle quali è stata costruita in larga misura la sua campagna promozionale) risultano degne del Cronenberg di “Videodrome” (1983) o, per citare un esempio recente, di “Crimes of the Future” (2022), così come l’estetica della scissione, affidata a soluzioni di montaggio ipertrofiche, stabilisce un nesso esplicito con un’opera come “Requiem for a Dream” (D. Aronofsky, 2000). La percezione “fisica”, addirittura morbosa, che accompagna lo spettatore, è sublimata nella dialettica dei corpi di Demi Moore (cui in molti, non a torto, attribuiscono l’interpretazione della carriera) e Margaret Qualley, che trova corrispondenze ben oltre il livello della storia narrata, accostandole ancor di più ai rispettivi personaggi e mettendole intrigantemente in gioco anche su un piano simbolico, con la prima da tempo circonfusa dall’aura di “stella decaduta” – peraltro con un passato di depressione e tossicodipendenza – e la seconda già icona tra le più rappresentative del nuovo star-system hollywoodiano.
Ma l’idea estetica di “The Substance” passa molto anche dallo studio degli ambienti, intimi in particolare, e del rapporto che questi spazi intrattengono con le figure, richiamando un immaginario che corre da Kubrick a Lanthimos. Tra questi, il bagno (in primis quello di casa Sparkle, ovviamente, “teatro degli orrori” tutto neon e piastrelle bianche, ma anche quello degli studi dove Elisabeth registra le sue trasmissioni di fitness, che sembra direttamente traslato dal set di “Shining”) e, naturalmente, il super soggiorno panoramico affacciato su Los Angeles e i suoi miti, schermo delle paranoie della protagonista. Particolarmente interessanti le scelte legate proprio a questo ambiente: se, per buona parte del film, il soggiorno trasmette tutto il senso di solitudine e angoscia provato da Elisabeth (rafforzato da inquadrature fisse in campo lungo), in una delle scene clou si trasforma nel set movimentato dello scontro finale tra le due, nel luogo di un dinamismo splatter tutto wrestling e moquette fradice di sangue, che anticipa il finale sul palco dello show di capodanno e la sua satira corrosiva.

Quasi paradossalmente, è proprio nel lungo – e, a più riprese, demenziale – finale che l’accusa di Coralie Fargeat raggiunge la sua pienezza, affermando il valore universale di una certa prospettiva femminista e restituendo così tutto il suo disprezzo per una società incapace di tollerare ciò che non è conforme ai suoi canoni: da questo punto di vista, la doccia di sangue che accompagna la definitiva decomposizione del “mostro” sarà fin troppo kitsch, ma sicuramente “The Substance” è uno di quei film destinati a rimanere, ben oltre gli spasmi allo stomaco provocati dalle sue visioni orrorifiche.