Sudore, terra, sigari e arepas alla piastra: Donne della nebbia di Laura Acero

Donne della nebbia, primo romanzo della scrittrice colombiana Laura Acero, tradotto da Serena Bianchi, è uscito in Italia il 16 ottobre 2024 per Ventanas Edizioni. La scrittrice, attraverso la storia polifonica delle contadine delle steppe del Paramo, e di due insegnati di scrittura venute da Bogotà, scoperchia la situazione sociopolitica di una Colombia frammentaria e dilaniata dalla guerriglia. Articolo a cura di Carolina Dema.

“Mi dice che l’Icononzo è molto bello, si, ma di sicuro non ho idea di quanti corpi siano stati buttati in quel canyon negli ultimi duecento anni, i corpi dei rivoluzionari, dei liberali, dei rossi, di quelli che venivano considerati cattivi perché non credevano in Dio. Il suo commento basta a cancellare l’immagine romantica del ponte così come appariva nelle stampe dei viaggi di Humboldt trovate su internet qualche settimana prima.”

La prof la portano in macchina dalla capitale Bogotà, per tenere un corso di scrittura alle contadine del Paramo di Sumapaz; e lei, talvolta, si domanda se per quelle donne – aspre come le Ande che abitano ma, allo stesso tempo, lievi nella loro vita di comunità – non sia più un’infiltrata: la prof cittadina che pone troppe domande personali; commenta con piglio da sociologa gli episodi di violenza sistematica dei gruppi armati, che per loro sono accadimenti pressoché routinari da soffocare nella nebbia; e si commuove mentre legge ad alta voce Virginia Woolf.

Ma, in realtà, “Se non avessi tutte ste faccende da sistemare ogni giorno, la bombola del gas che ieri è finita, la legna bagnata, i compiti di Samuelito, dover andare tre giorni fino a Cabrera per fare il formaggio […] avrei il tempo di mettermi seduta e raccontare con più calma perché provo la stessa tristezza della signora di quella storia, e ce l’avrei quella cosa che diceva la professoressa, l’introspezione, che serve per raccontare l’infelicità, ma domani è un altro giorno e io proprio non mi posso lamentare, ho avuto tempi peggiori” pensa Anadelina, una delle contadine. E le storie, in effetti, iniziano a sgorgare, prima a scatti e viscose poi, man mano, sempre più scroscianti, come l’acqua del rubinetto di una casa in campagna rimasto chiuso per tutto l’inverno.

E “tutte ste faccende da sistemare ogni giorno” sono celebrate attraverso i titoli di ogni capitolo, che enunciano cronologicamente le mansioni giornaliere delle contadine; dall’uscire all’alba, accendere la stufa, e dare il granturco alle galline, ad accendere la radio, fumare il sigaro e, infine, guadare la montagna.

Mentre ascolta le storie delle contadine, la prof ha il seno gonfio e dolorante di latte materno, e il grembo che rimbomba dell’assenza di un figlio appena nato. La maternità l’ha allontana da suo marito, l’unico amore che li lega è ormai quello verso il piccolo; ciò che rimane è la tenerezza dell’abitudine, la complicità che permette alla prof di affidare il figlio al suo compagno una volta a settimana, per raggiungere le donne della nebbia. Ma, tra le piante di frailejón e il profumo di farina di mais delle arepas, si stagliano anche degli uomini, uno in particolare: Rubén, contadino di poche parole, il quale col suo odore “di sudore e terra” ha già conquistato Adriana – un’altra professoressa, che ha abbandonato coniuge e figlio a Bogotà per trasferirsi nel Paramo. Rubén rappresenta forse la seduzione delle Ande ferine e silenti, il fascino di una vita di fatiche manuali, di comunità, e di simbiosi con la natura; per quanto ostile. È il popolo contadino che sopporta e, dei soprusi subiti dai grandi proprietari terrieri (i Pardo Roche), ne parla come parlerebbe di un insetto particolarmente fastidioso, ma inestirpabile. Perché i guerriglieri socialisti contadini vengono buttati giù dal ponte dell’Icononzo.

“La vuole sentire una storia terrificante? Che ci vuole? Posso raccontarle di come abbiamo cominciato a sentire gli elicotteri e le bombe e poi le sparatorie a terra, e di come le arepas sono rimaste sulle piastre e non potevamo neppure uscire a prendere il latte, che si è guastato nelle mammelle delle vacche.”

Il latte nel seno duro come un ciottolo della prof è proprio come quello delle vacche ma, al contrario di quello di mucca, il suo latte non si guasterà, perché le mani esperte di Rubén si occuperanno di offrire il sollievo dello svuotamento alla prof, in mancanza di suo figlio. Sceglierà, la donna, di tornare ad allattare il suo bambino e l’amore confortevole per la sua famiglia in città, o di nutrire il fascino per il Panamo e rimanere lì, come Adriana, che forse già se ne sta pentendo? Ma lo desidera davvero,poi, la prof, affiancarsi a questa vita violenta in cui anche una vecchia cagna di campagna, di fronte al feto abortito di una giumenta morente, senza pensarci due volte si precipita a sbranarlo?

Laura Acero, promotrice culturale, esordisce in realtà nel 2018 con Viajes de campo y ciudad, diario in cui registrava le sue giornate all’interno di una biblioteca itinerante a bordo di una Renault 4. Col progetto Biblocarrito R4 non solo ha portato in consultazione libri nelle zone urbane e rurali del Paese, ma anche uno spazio orizzontale in cui confrontarsi su scrittura e oralità. Si potrebbe dunque affermare che Donne della nebbia è anche un romanzo di testimonianza? Di questo non ci sono garanzie, ma è certo che i suoi obiettivi, come racconta in un’intervista del 2022 a BibloRed Bogotá, è smontare il concetto di presentazione letteraria come incontro gerarchico, e della letteratura come una questione separata dalla vita, democratizzare i saperi, offrire a chi ha minor accesso alla lettura nuove lenti per osservare se stessi e il mondo.

El BibloCarrito R4
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Donne della nebbia è la storia polifonica di una Colombia logorata dalle lotte intestine: gli indigeni, i contadini discendenti dei coloni andalusi, gli afrocolombiani, gli eruditi della grande città, i signorotti terrieri, i paramilitari, i narcotrafficanti; le parole attraverso cui potrebbero affrancarsi e riconoscersi, disperse nella nebbia.

E si può parlare forse di una tendenza – con l’accezione di propensione naturale, non di moda assoggettata – nel romanzo sudamericano alla narrativa plurale? Dal caposaldo di Bolaño (vissuto tra Cile, Messico e Spagna) I detective selvaggi, in cui le voci in prima di decine di personaggi ci accompagnano per le quasi settecento pagine del volume, pubblicato per la prima volta nel Novantotto; arrivando a romanzi contemporanei acclamati tra i più attualmente formidabili in lingua spagnola, come Nefando di Mónica Ojeda – ecuadoregna migrata in Spagna – in cui attraverso narrazioni in prima, interviste, e diari, un gruppo di coinquilini ricostruisce la storia di un macabro gioco sul deep web; o Kentuki dell’argentina Samanta Schweblin, in cui voci da tutto il mondo raccontano del loro rapporto con delle specie di Furby collegati casualmente a un utente anonimo tramite a una webcam e a un pannello di controllo. Quasi che l’eterogeneità di questo territorio sterminato esiga la polifonia, in un tentativo di carpire parole disperse nella nebbia e, finalmente, ricongiungerle.