Dopo trentacinque anni è arrivato il 29 ottobre 2024 in libreria Nuovi Delitti (D Editore, casa editrice anarco libertaria), il sequel del terrificante Primi Delitti che, con i suoi racconti splatterpunk su bambini omicidi, si beccò una denuncia per istigazione a delinquere. Abbiamo intervistato l’autore, Paolo Di Orazio. Articolo a cura di Carolina Dema.
Quando nell’Ottantanove uscì come allegato al mensile Splatter (fumetti e racconti brevi horror) di Edizioni Acme, il libro Primi Delitti fu considerato talmente scandaloso che costò a Paolo Di Orazio una denuncia per istigazione a delinquere, poi l’inesorabile censura e le fotocopie illegali fatte girare tra gli amanti dello splatterpunk: i benpensanti scioccati dal pensiero che dei candidi e docili bambini potessero torturare e uccidere a sangue freddo. Ma la questione davvero scomoda, in realtà, è la messa in crisi della società costituita, poiché i personaggi di questi racconti sono le famigliole che, come scriveva Tolstoj, dovrebbero assomigliarsi nella loro felicità, invece, nelle case italiane si annida un marciume dai mille volti: quando la telecamera si spegne, la famiglia felice della Mulino Bianco cessa di esistere e si rivela per quello che è: l’ennesima accozzaglia di esseri umani disfunzionali.
In ogni caso, censura o no, credo che Primi Delitti (1989) sia – forse inconsapevolmente – uno dei motori propulsori della letteratura Cannibale. Ovvio che c’è Carrie di King (1974) e c’è American Psycho di Ellis (1991), giusto per citare due mostri americani che hanno portato quel tipo di brutalità celata nella vita di tutti i giorni nella letteratura, influenzando allegramente lo stivale. Ma in Italia credo che Di Orazio sia stato uno dei primi a indagare queste tematiche spinte proiettandole anche sullo stile: una prosa sporca, gergale, a tratti sgrammaticata; l’emulazione del chiacchiericcio interiore di un bambino esposto alla violenza. In particolare, penso al racconto LA MIA BEBISITTER È UN ORCO, l’incipit recita:
“Ciao, mi chiamo Iodea. Sono una bambina di undici anni. Sono dell’Acquario, amo il pan di spagna e le bambole.
Mi piace molto giocare con le bambole e avere cura di loro sono. Sono sette e tutte e sette molto belle. Faccio loro il bagno, le pettino, le faccio passeggiare, le faccio giocare. Loro amano farsi narrare storie, che io leggo o recito. Vere e inventate. Loro hanno molto bisogno di me, io devo proteggerle. È molto importante le protegga, perché loro sono indifese. […]
C’è un volto, nei miei pensieri che mi guarda fisso negli occhi. La sua bocca assomiglia a quella di un coccodrillo. Denti storti a punta che sbucano dalle labbra rosse. Vedo i suoi artigli. Questa creatura è una donna, si chiama Melania.”
Ora, prendiamo Woobinda – uno dei manifesti della letteratura cannibale – pubblicato per la prima volta nel Novantasei da Castelvecchi e, in particolare, prendiamo il racconto Noi, che Aldo Nove aveva già mostrato a Nanni Balestrini nel Novantadue. L’incipit recita:
“Mi chiamo Maria, ho ventisette anni e sono del Toro. Possiedo una collanina d’oro regalatemi da mia madre quando ho fatto la prima comunione.
Sono sposata con un ragazzo di trentadue anni, Giacomo, che fa l’elettricista in Milano.
Non ci piace abitare a Cormano perché nel nostro palazzo ci sono i muri che sembrano fatti della Scottex di una volta, a un velo solo. Adesso la carta igienica la fanno a due veli, e molto più resistente di una volta, mentre i muri del nostro palazzo sono come carta igienica che non serve più a niente, sono completamente inutili.”
Da questi due incipit, che esordiscono con un primo periodo apparentemente affettuoso, deviano due storie in egual misura brutali: nel primo, una bambina torturata dalla sua babysitter decide di vendicarsi ammazzandola con il rasoio con cui la giovane donna la stava costringendo a depilarle l’inguine; nel secondo, si narra della vita privata degli inquilini di un palazzo di provincia attraverso i rumori che si insinuano nei muri sottili (un padre che violenta un figlio, Testimoni di Geova che spacciano, un figlio che tira calci in culo a sua madre…). Ma allora, perché Paolo Di Orazio fu censurato, e Aldo Nove pubblicato in un’antologia Einaudi (una delle più importanti case editrici italiane)? Se Woobinda non fosse uscito nel Novantasei, ma nell’Ottantanove, avrebbe subito lo stesso destino? Che Di Orazio abbia, in fondo, spianato la strada ai Cannibali?
Grazie a D Editore, Primi Delitti, dopo la ripubblicazione di Castelvecchi nel 1997 e i successivi anni di latitanza si può trovare di nuovo in libreria, ma non finisce qui. L’autore e la casa editrice hanno pianificato addirittura una trilogia. Il secondo episodio, Nuovi Delitti, è appena uscito: Di Orazio torna a trovare, dopo trentacinque anni, quei bambini serial killer per scoprire chi sono diventati.
L’intervista
Da dove è arrivata l’esigenza di scrivere un nuovo capitolo di Primi Delitti? E quale pensi sarà la ricezione da parte del pubblico? È chiaro che parlare di serial killer adulti ha apparentemente meno impatto che parlare di bambini. Se in Primi Delitti, come scrivi nella prefazione, avevi oltraggiato la Famiglia, “il nervo sciatico del culto italiano formale e dell’occulto italiano parastatale delle logge massoniche”, quale pensi che potrebbe essere il nuovo punto nevralgico di Nuovi Delitti?
Paolo Di Orazio: Tutte queste cruciali domande me le sono poste per due anni di seguito, dopo aver ultimato la prima stesura (sì, lo confesso). Emmanuele Pilia, al quale avevo garantito una consegna celere, ha avuto la pazienza tibetana di attendere e sopportare poi i miei conflitti interiori (ma si sa, io sono notoriamente pazzo, lode a Emmanuele che è sempre stato entusiasta del progetto in trilogia sin dall’edizione 2021 del nostro Primi delitti). L’esigenza di questo sequel è arrivata spontaneamente. Primi delitti è il titolo che tutti hanno nel cuore sin dalla sua prima edizione Acme (1989). Sono 35 anni che ormai nelle mie interviste parlo solo dello scandalo parlamentare, nonostante io abbia sfornato migliaia di altre pagine. Sia i vecchi sia i lettori nuovi di Primi Delitti continuano a trovarlo un libro importante. E allora, visto che amo le sfide con me stesso, e visto che oggi il mondo si muove per sequel e prequel, mi sono detto: “che fine hanno fatto quei personaggi? Dove sono? Cosa stanno facendo?”. Dato che tra i miei cult cinematografici legati a Primi Delitti troviamo il già citato Halloween e Profondo Rosso – prima ancora di consegnare a D Editore Primi Delitti, ormai alla sua quarta o quinta ripubblicazione – ho avuto l’esigenza di costruirci attorno una nuova vita editoriale, sotto forma di trilogia. In modo che i lettori già legati all’opera da anni possano avere qualcosa di comunque nuovo. Quindi, quei giovanissimi protagonisti avvolti nel crimine, che nel primo libro non hanno trovato un finale, ora hanno un sequitur.
Per quanto riguarda tutti i dubbi sull’efficacia e il gradimento di quest’impresa, cioè, sfidare un cult considerato il titolo pioniere dello splatterpunk – posso dirlo – internazionale, la parola la lascio ai lettori. Per me è stato un viaggio letterario immaginare quei ragazzini di trentacinque anni fa oggi adulti. In mio aiuto, la dottoressa Trabucco, psicoterapeuta, mi ha suggerito letture sul trauma infantile. Che ho assorbito per romanzare, ovviamente, gli aspetti del crimine a beneficio delle nuove storie, ancora di stampo realistico noir ma scatenati in una violenza brutale ma possibile, cioè umana. Sì, è vero, sono tecnicamente serial killer, nulla di nuovo sotto il sole, ma spero si percepisca il nucleo profondo della loro natura, il fanciullo che resta nel fossato del proprio trauma infantile.
Soffermandoci ancora un attimo sulla “letteratura d’oltraggio” – tema su cui mi pongo spesso questioni, infatti ne ho discusso recentemente anche con Jacopo Iannuzzi in un’altra intervista – pensi che sia ancora possibile immergersi davvero in questa corrente e portare qualcosa di nuovo, o forse è ormai una questione che appartiene al passato? Ci sono dei temi che sono ancora così scomodi da suscitare shock, da portare alla censura nel nostro mondo occidentale in cui la libertà di parola è diventato un diritto talmente inalienabile da aver, forse, in qualche modo perso la sua carica sovversiva? (Anche se poi, vedendo come stanno andando le cose al momento per quanto riguarda il TGMeloni, qualcosa sta effettivamente mutando…)
Paolo Di Orazio: Eh, sì, vedremo cosa accadrà nel breve termine in questa bizzarra nazione… Nella mia trilogia Debbi [la strana] ho affrontato con dolore i temi più ostici delle psicopatie sessuali. Chiaramente, non l’ho fatto con la speranza di attirare l’attenzione nuovamente dei templari del politically correct in salsa dem-neocon. Credo che a palazzo Chigi abbiano altre grane, al momento. Nonostante l’onda nevro-buonista dell’inclusivismo, la libertà di parola è per ora limitata ai social network, ma credo si tratti di una blanda sperimentazione dell’iper-controllo molecolare da parte dell’IA (le stiamo insegnando cosa si può dire, cosa no. Poi toccherà alle facce, all’abbigliamento, alle aggregazioni spontanee, alle conversazioni all’aperto – siamo pieni di telecamere e di antenne gigantesche sui nostri palazzi, ma questa è un’altra storia). Dunque, posso rispondere che non penso sia più possibile pensare a tavolino il modo di dare uno shock al lettore o alle istituzioni con un libro. Nessun Tg o rotocalco borghese griderà allo scandalo per un libro di assassini seriali (a patto che non oltraggino personaggi reali di spicco). Gli anni Ottanta/Novanta sono ormai preistoria, rispetto alla velocità evolutiva della semantica del brivido. Scandalizzare oggi col cannibalismo o la pedofilia credo sia un’utopia anche per ChatGpt, a meno che non studiamo un particolare contesto e un meccanismo geniale con cui raccontare un orrore. Cercare di essere sovversivi oggi con un libro di fiction? Le idee possono essere mille, ma manca il quadro sociopolitico da sovvertire. Fino a trenta, quarant’anni anni fa era più facile. Poi il costume è lentamente cambiato: sono arrivati Real Tv su Italia 1, rotten.com e YouPorn. Questi tre pilastri sono stati come la ghianda dello scoiattolo di Era glaciale e quel sacro comune senso del pudore (valore intoccabile dei Settanta, per chi c’era) è andato sbriciolandosi e ce lo siamo giocato. Oggi pensare di fare scandalo attraverso un libro sarebbe come illudersi di vendere ciabatte infradito in Siberia. C’è addirittura chi pensa di fare successo con un libro. Al limite si può tentare di colpire la sensibilità di qualche tribuna: l’opinione pubblica è stata strategicamente divisa in gruppi di scontro: comunisti vs fascisti (pensa un po’), novax vs provax, vegetariani vs carnivori, scie vs condensa, elettrico vs benzina, luna sì luna no, è più forte Hulk o la Cosa e tanti altri wrestling buoni per un nuovo hit degli Squallor. Certo, abbiamo avuto il caso Vannacci, ma stiamo parlando di un personaggio massmediatico.
In Nuovi Delitti ritroviamo tutti i personaggi del primo libro oramai adulti. La cosa che mi ha colpito di più è come siano rimasti tutti ancorati al loro passato traumatico: non sembra esserci possibilità di salvezza o redenzione per nessuno, nonostante il carcere minorile, le case famiglia o l’incontro con persone che gli hanno donato, seppure talvolta in modo distorto, amore. Il tuo intento era più quello di avvalorare la tesi che la redenzione non esiste, o mettere in luce un sistema rotto, lo stesso che ha prodotto quei bambini “cattivi” e che non sarà mai in grado di salvarli attraverso un percorso di riabilitazione sociale?
Paolo Di Orazio: Sì, sono rimasti ancorati al loro passato, a testimonianza che il male può essere un serpente senza testa che continua a strisciare. Ma anche un male animato – in taluni casi – da paradossali intenti positivi. Così come Jeffrey Dahmer uccideva perché altrimenti i suoi amanti avrebbero lasciato prima o poi il suo abbraccio.
Come scrivevo nell’introduzione, Primi Delitti – senza voler rinchiudere l’arte in scatolette claustrofobiche – si potrebbe considerare in parte un libro “pre-cannibale”. Quando sono iniziati a uscire in libreria gli Aldo Nove e le Simona Vinci (che ha scritto il meraviglioso romanzo sulle torbide pulsioni sessuali infantili Dei bambini non si sa niente, pubblicato nel Novantasette da Einaudi Stile Libero) e tutti gli altri, ti sei ritrovato nella loro scrittura? Hai pensato che ci fossero dei punti di contatto? Se sì, hai mai avuto modo di interfacciarti con loro?
Paolo Di Orazio: Ho letto Woobinda di Aldo Nove, ma non il romanzo di Simona Vinci, e neanche l’antologia Bambini assassini (a cura dei miei amici Giovannini-Tentori, Stampa Alternativa 2000). Forse sì, mi sono ritrovato nell’intento di narrare l’infanzia come teatro intoccabile, cioè quel valore supremo un po’ Disney un po’ cattolico per cui “il bambino è tempio di bontà angelicale”; già ribaltato nel 1960 col film Il Villaggio dei dannati, con il racconto I figli del grano (1977) dell’inevitabile King; e ancora col cinema da Halloween, la notte delle streghe di John Carpenter, 1978, nonché da Grano rosso sangue (1984). Senza dimenticare il gioiello vampirico Mammina cara, breve storia a fumetti dell’autore cult punk Graziano Origa (1973, c.ca, Edizioni CAB). Quando ebbi l’occasione di interfacciarmi con Aldo Nove (mi coinvolse nel progetto-letterario discografico Up The Line, di Garbo, 1998), non ho sinceramente affrontato l’argomento.
«Il male può essere un serpente senza testa che continua a strisciare.»
Sia in Primi Delitti che in Nuovi Delitti vige sempre una legge del contrappasso, o comunque un principio causa-effetto molto solido.
Questa connotazione quasi morale che è intrinseca alla maggior parte dei racconti era qualcosa che avevi già pensato di inserire a monte, o è emersa durante la stesura? C’è una forma di giudizio verso i personaggi, una sorta di scala cromatica nella violenza? L’omicidio compiuto, per esempio, per vendetta da parte di un bambino vittima (o ex vittima) si può considerare più giustificabile degli atti violenti degli aguzzini? O volevi solo mostrare un ciclo perpetuo di violenza, che non è innata ma indotta dalle circostanze?
Paolo Di Orazio: La connotazione morale era ben definita nella mia traccia mentale pre-stesura, esatto. Alcune soluzioni si sono perfezionate da sé, altre sono fedeli alle idee iniziali, e un racconto l’ho cestinato e riscritto. In ogni caso, mi sono basato sul fondamento della ritualità. Non c’è un giudizio verso i personaggi, ma una telecamera, come nel primo tomo, che ruba il nuovo delitto in modo freddo e acritico. Dal mio punto di vista reale, il crimine è sempre un fallimento. Il perdono è un discorso troppo complesso e sofisticato e meriterebbe un romanzo di formazione (che magari un giorno scriverò), ma con Nuovi delitti volevo ancora insistere sullo Zio Tibia style, un flash dell’orrore dove non c’è neanche tempo di formulare un giudizio, appunto, morale. Sì, effettivamente ne esce un ciclo perpetuo, la violenza è così. Non esiste una violenza risolutiva. La storia ce lo insegna dalla comparsa umana su questo pianeta e ancora prosegue.
Tra tutti i racconti di Nuovi Delitti, quello che ho amato di più è Mott: in Primi Delitti Mott è una bambina africana senza gambe che è considerata maledetta dal villaggio e, proprio a causa della sua condizione di emarginata, non può fare altro che ritrovarsi costretta a compiere il male, anche quando trova un’amichetta, questa poi finisce molto molto male, perché Mott si convince che l’unico sentimento che può suscitare negli altri è l’aberrazione. Nel sequel si è trasferita in Occidente ed è diventata una super modella che, grazie alle sue disabilità e alla sua bellezza esotica e maledetta, incute un fascino ferino che la fa divenire celebre in tutta Europa. Eppure, occultati dietro alla sua immagine di donna sofisticata e ben inserita nella società, vi sono dei feticismi erotici, diciamo, peculiari.
Da dove è nata l’idea di questo personaggio che si distacca parecchio dagli altri bambini della raccolta, i quali agiscono sempre all’interno di una famiglia italiana canonica, per quanto spesso disfunzionale? E come si è trasformata poi in questa esotica dea delle parafilie?
Paolo Di Orazio: L’idea è nata dal fatto che raccontare Mott ancora nella sua Africa non mi sarebbe piaciuto. Anche perché non ho mai visto quei luoghi e non intendo (più) scriverne poiché non li ho vissuti di persona. Desideravo fare di Mott un personaggio iper-glam, un’europea venerata e che ha fatto della sua caratteristica fisica il fulcro dell’estetica e del suo conto in banca. Mi piaceva rivederla totalmente trasformata senza raccontare l’arco biografico del come e perché dalla giungla fosse diventata una star. Forse ti è piaciuto proprio per questo stacco brutale fra il prima e l’ora, che è quanto volevo. Ci sono atlete e modelle da tutto il mondo che attirano milioni di ammiratori sui loro social, dove cade finalmente quel velo attorno alle malformazioni, alle mutilazioni da infortunio o genetiche divenendo dettagli di una bellezza da scoprire. Così è Mott. Questo racconto è stato un’occasione per approfondire l’acrotomofilia (Boxing Helena, Jennifer Lynch ci aveva già pensato nel Novantatré), una nuova frontiera di Amore & Mortevivente che meriterebbe un romanzo (ahimè, la carta me la sono giocata). A dirla tutta, il personaggio di Mott nasce dalla foto di una bambina africana dai denti limati a squalo che vidi nell’enciclopedia di mio padre, e da una comparsa nel film Cobra verde di Werner Herzog (1987).
Oltre alla narrativa, ti occupi anche di fumetti. Ti va di congedarti da lettrici e lettori consigliandogli qualche fumettista, magari ancora poco conosciuto, che consideri particolarmente interessante da scoprire?
Paolo Di Orazio: Quando parlo di fumetti, noto che alcuni miei eroi degli anni passati, sia autori che i loro personaggi, non sono così familiari a molti. Cattivik (Bonvi, Silver), Giuseppe Bergman (Milo Manara), Ranxerox (Tamburini, Liberatore), Torpedo (Abuli & Bernet), Kraken (Segura & Bernet), Chiara di notte (dell’amico Trillo & Bernet), Kriminal, Satanik, Alan Ford (Magnus & Bunker), Necron (Volpe & Magnus), e non posso non citare Licantropus (Conway & Ploog) o Frankenstein 1974 (Friedrich-Buscema; Moench-Mayerik). Venendo al contemporaneo, sono d’obbligo Thomas Ott e, per chi ha lo stomaco molto molto-molto forte, direi tutto del mio amico Miguel Angel Martìn, e aggiungo Hellboy di Mike Mignola. Chiudo con il fumetto più accademico e totale della fantascienza avventurosa in bianco e nero, che ho scoperto da bambino [sul periodico «Bugs Bunny presenta Silvestro» (Editrice Cenisio)] e riletto recentemente in elegante cartonato, ovvero Kelly’s Eye (L’occhio di Zoltec) di Solano Lopez e Tom Tully. Tutto il resto, citando un certo amico mio di nome Franco… “è noia”.