Jacopo Iannuzzi esordisce come scrittore nel maggio del 2024 con il romanzo White People Rape Dogs (Einaudi Stile Libero), dopo la vittoria del Premio Calvino 2023. Il libro è un’allucinata poesia sulla decadenza della periferia e molto di più. Ne parliamo insieme in quest’intervista anti sintetica epistolare, perché discutere di letteratura richiede un tempo lento e ragionato. Articolo a cura di Carolina Dema.
Leggendo un po’ di recensioni del tuo libro, ho visto che la tua scrittura è stata spesso accostata ai Cannibali degli anni Novanta, o al Tondelli di Altri Libertini. Per carità, due paragoni di tutto rispetto. Sembra però che in Italia risuoni l’idea che la “letteratura d’oltraggio” e i romanzi sulla vita drogata e spericolata siano un fenomeno appartenente al secondo Novecento, ormai molto lontano da ciò che offre la letteratura contemporanea nazionale, quando invece ci sono una varietà di autori e autrici che continuano a portare questi temi con modalità più o meno innovative. Quindi, prima di tutto, volevo chiederti quali sono state le tue influenze per la scrittura di questo libro (in particolar modo italiane, ma non solo); ho letto in un’intervista che sei un amante di Kerouac, e questo emerge molto, ma ci sono anche letture contemporanee che ti hanno forgiato? Non so, a me durante la lettura del libro è venuto in mente quel piccolo capolavoro (purtroppo rimasto nell’ombra) che è Cometa di Gregorio Magini (NEO Edizioni), il racconto di Tommaso Pincio, che è un po’ il Kerouac italiano, Il Budda delle anfetamine (Minimum Fax), ma anche Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa di Francesca Mattei (Pidgin Edizioni).
Iannuzzi: Per la scrittura di questo libro le influenze provengono perlopiù da scrittori italiani, nonostante io mi sia formato più sulla letteratura americana. Per parlarne devo fare una distinzione tra influenze consapevoli, ovvero quegli scrittori che sapevo
di star rapinando durante la scrittura, e influenze inconsapevoli, ovvero di quegli autori che mi sono reso conto solo in seguito di aver avuto vicino.
Tra le prime, sicuramente l’incontro coi primi libri di Isabella Santacroce è stato determinante: ho capito che aveva ancora senso portare avanti una ricerca del tutto letteraria, che non tenesse conto delle mode ma si concentrasse soprattutto sul linguaggio, sull’officina poetica, con l’obiettivo di forgiare una lingua nuova, letteraria appunto, e si allontanasse dall’uso comune (come invece credo che sia la tendenza ora, quella di utilizzare una lingua più comune possibile, privilegiando la comunicazione di un messaggio, almeno nel mainstream). Mi sono sentito libero, attraverso quel suo esempio. Più indietro nel tempo, i primi romanzi di Gianni Celati, che ho studiato all’università, soprattutto
Le avventure di Guizzardi, mi hanno fatto venire voglia di raccontare una storia un poco scombinata, non necessariamente lineare, che si appoggiasse più sulla forza e sullo stile dei personaggi che su una conseguenza narrativa di eventi, riuscendo comunque a trasmettere un
significato e a piacere. Per ultimo, anche i primi libri di Paolo Cognetti mi hanno aperto un mondo. Lui, al contrario di Santacroce o Celati, mi ha mostrato come scrivere invece una storia semplice, delicata, che però allo stesso tempo contenesse elementi di crudezza, eversivi, anarchici. I personaggi delle sue raccolte di racconti sono un insieme di inquietudine e tenerezza che fin da subito ho sentito essere una cosa anche mia. Tra le influenze inconsapevoli ci sono invece tanti classici, più o meno distanti nel tempo: Tondelli, Ginsberg, Dostoevskij, Céline, Genet, Brizzi, Pinketts, il poeta Simone Cattaneo. Di letteratura contemporanea ne leggo pochissima, soprattutto italiana. Invece tra gli stranieri mi piace Yasmina Reza, anche se non c’entra niente con quello che faccio io. Lei è proprio brillante, tagliente. Cometa lo conosco, è un libro che mi ha fatto volare, ma l’ho letto dopo aver scritto White People Rape Dogs. Riguardo alla “letteratura d’oltraggio”, capisco che venga considerata un fenomeno del passato. È comprensibile: lo è. Credo che quello scenario, in letteratura come anche in altri ambiti artistici, sia stato un po’ assorbito e disinnescato dal mercato. Col fatto che non esiste più un underground, ma solo un grande mainstream pieno di nicchie, anche quel genere di letteratura è finita per essere una di quelle, e a confondersi tra le molte, perdendo la sua carica, la sua rilevanza, di fatto deprimendosi ed esaurendosi. Allo stesso tempo mi immagino essere anche una questione di mode. Forse un giorno vedremo tornare sull’onda gente che scrive solo roba maleducata, in reazione al perbenismo confortevole che mi sembra sia la corrente di maggior successo attualmente.
«Se io dovessi trovare un aggettivo per il libro sarebbe anarco-pop»
Quando hai iniziato a scrivere avevi in mente di inserirti in qualche tipo di corrente (o anti- corrente)? Il libro si vuole porre come – uso uno di quei paroloni un po’ pretenziosi – manifesto di qualcosa, sulla scia, per dire, dell’Urlo di Ginsberg, o è stato solo puro e semplice
“sbocco letterario”? In cui ovviamente non intendo sbocco (vedi “vomito)” nell’accezione di scarto, ma in quella di rilascio asistematico di una tensione accumulata per un lungo periodo. Ti chiedo questo anche perché White People Rape Dogs è stato definito la scommessa punk di Einaudi. Ti ritrovi in questa categorizzazione, o è un po’ un’etichetta di marketing che ti devi “accollare”? Che poi ormai “punk” è diventato uno di quegli aggettivi che hanno pressoché perso di significato, associato a qualsiasi forma d’arte o di attitudine che si muove su una traiettoria leggermente più obliqua rispetto alla norma mainstream. Se poi consideriamo anche le non troppo velate frecciatine agli anarchici antagonisti – coloro che rappresentano i punk per antonomasia – allora forse non sarebbe più corretto trovare un altro aggettivo da accostare alla tua scrittura? Si può forse dire che Kerouac fosse un punk ante litteram, del resto? Per me no: era un beat, che ha qualcosa di similare, certo, nell’attitudine, ma anche svariate differenze. Magari non sei d’accordo, ma la mia opinione è che la si debba smettere di rifugiarsi nelle categorie del passato e trovare parole inedite per descrivere forme d’arte inedite.
Iannuzzi: La scrittura di White People Rape Dogs è stata più la seconda cosa che dici, il rilascio di una tensione che si accumulava fin da quando ho cominciato a scrivere, circa dieci anni fa, quindi me la immagino più come un’operazione istintiva che un progetto consapevole. Era più nella mia
fantasia, che nelle mie azioni concrete, l’idea di voler scrivere un’opera di scontro, che si mettesse di traverso, o al limite che assomigliasse ad un manifesto come Urlo. Faceva parte della mia mitomania quella di sentirmi un erede di quel genere di letteratura, e sicuramente anche questo
aspetto ha contato, soprattutto nel modo che avevo di percepirmi mentre scrivevo. Ma in realtà era solo un gioco, un’immedesimazione fantastica.
Con White People Rape Dogs ho voluto semplicemente scrivere qualcosa che piacesse ai miei amici. E credo sia stata proprio la spontaneità di voler parlare a un gruppo così ristretto di persone a permettermi di tirare finalmente fuori un’opera che funzionasse anche a livello più generale, in cui anche molti altri si potessero riconoscere.
Una cosa che ho notato in questi mesi di uscita del libro è proprio il bisogno di riferirsi sempre a delle categorie pre-esistenti per poter parlare di un determinato argomento, o se non altro di dover indicare delle somiglianze a qualcosa di già noto, per essere più immediati nel riconoscimento di un prodotto culturale. È meno faticoso fare così, credo, che sforzarsi di cercare nuove parole e nuove categorie. Si ragiona per similitudini, non è un atteggiamento che condanno, lo capisco. Rivela qualcosa di noi, del nostro rapporto con la tradizione, quanto ne sentiamo il bisogno, di sederci tutti sotto il grande albero. Però allo stesso tempo io nel mio piccolo mi discosto, preferisco stare da solo. Per me la tradizione è una costruzione del potere, serve a fondare un’identità, che è un concetto che io disprezzo, è solo fumo, uno strumento di controllo. Quindi sì, scommessa punk è un’etichetta “editoriale”, necessaria al funzionamento di un mercato, e forse ad una parte del riconoscimento di ciò che è il libro, ma solo parzialmente appunto. Tra tutti i difetti di White People Rape Dogs, l’unico che sento non esserci proprio è l’essere derivativo, pur mantenendo consapevolmente delle relazioni con altre opere. Ma forse non è neanche un’opera così “originale” da richiedere la creazione di una nuova categoria. È da considerare anche questo. Se io dovessi trovare un aggettivo per il libro, comunque, sarebbe anarco-pop.
Ok, ora addentriamoci un po’ nel romanzo. La scelta di iniziare il libro con il capitolo su Gioia sembra voler ingannare lettori e lettrici: ci
si convince che sia l’ennesima storia d’amore dannata, l’ennesima narrazione di una “manic pixie dream girl” idealizzata dallo sguardo di un uomo inetto a vivere ma, andando avanti nella lettura, per fortuna, il personaggio di Gioia non si appiattisce in due dimensioni, anzi,
tra stregoneria, cam soft porn, raglie, calzini con i coniglietti e un’università privata di moda, ne viene fuori una figura estremamente realistica nelle sue contraddizioni. E a pensarci bene, nonostante il fascino di lei, non siamo nemmeno troppo sicuri che Remo ne sia davvero innamorato: ne è più che altro investito. Poi Gioia (occhiolino per il nomen omen) scompare dalla vita di Remo e l’antitesi con l’esistenza paludosa di anfetamine, micro crimini e sgherri di periferia che lo accompagna per gli altri quattro capitoli è ancora più violenta.
Che cosa rappresenta, alla fine, Gioia per Remo? E che cosa rappresenta per Jem (il suo migliore amico che ne è a sua volta un po’ innamorato ma che, differentemente da Remo, non riesce a connettersi a lei così profondamente)?
Iannuzzi: Per Remo, Gioia rappresenta proprio ciò che è: un incontro che gli cambia la vita. È un elemento che viene dalla mia esperienza. Gioia è quella persona che sembra venire da un pianeta lontano solo per farci capire delle cose, per darci una nuova prospettiva sul mondo, per aprire degli orizzonti. Spesso questo stravolgimento passa attraverso l’amore. Nel caso di Remo, l’amore a sua volta passa attraverso due “filtri”, quello della colpa per il tradimento dell’amico, e quello dell’incredulità. Remo è abituato a vedere l’amore come uno schema, un sistema in cui le persone che si amano assumono un ruolo. È il modello con cui è cresciuto, più o meno quello romantico. Gioia gli mostra una via diversa: l’amore come esplorazione, come domanda sempre aperta, e infine come invenzione spensierata. Di fronte a questo rovesciamento, Remo si spaventa, “abituato come è a capire solo le cose che corrispondono a un modello” e a immaginarsi l’amore come principio o come valore superiore, fermo e indiscutibile; un qualcosa che si trova così com’è, piuttosto che una costruzione interpersonale. Metaforicamente, nella storia della loro amicizia, Gioia rappresenta per Remo e Jem una contesa e una rottura, ma anche un elemento di fronte al quale tra i due si crea una distanza e risaltano le loro differenze. Nel diverso rapporto che i due instaurano con lei, emergono i loro modi particolari di vedere la vita. Jem è l’irriducibilità, la cocciutaggine, il voler sempre forzare il mondo dentro i propri schemi mentali, per poterlo controllare. Remo è il contrario, è più elastico, più curioso, anche se spaventato e tendenzialmente “sottone”. Di fronte a Gioia, Remo capisce che esiste la possibilità di evolvere, di cambiare seguendo il flusso, mentre Jem reagisce diversamente, non recepisce la sua visione. Gioia si innamora di Remo perché lui la vede, a differenza di Jem, che la ama in modo più rigido, e per questo la fraintende. Entrambi, comunque, nel tempo che spendono per capirla, finiscono per farsela sfuggire. L’amore in cui lei crede è selvaggio, libero, spensierato. Gioia trasmette a entrambi questa nuova teoria: vivete!
È piuttosto chiaro che questo mondo a Remo e ai suoi amici fa schifo, tanto che si parla spesso dell’eventualità di star vivendo in una sorta di Matrix. Sono prigionieri dell’inerzia, nessuna delle sostanze che si calano sarà mai la pillola rossa che li libererà dalla simulazione,
condannati ad assumere solo un’infinita serie di pilloline blu che gli faranno scordare per qualche ora di aver intravisto la tana del bianconiglio e di non avere avuto il coraggio di entrarci. Ma, allo stesso tempo, si sentono migliori degli altri perché, in qualche modo, della
simulazione ne sono consapevoli e quindi ne rifuggono dedicandosi al più assoluto nichilismo. Ogni volta che compare un accenno alla rivolta, dunque, mi sembra che questo appaia ai loro occhi come qualcosa di inutile e patetico. Penso a quando vedono gli anarchici che protestano davanti al municipio: l’unica cosa che cattura per un attimo l’attenzione di Remo è l’errore ortografico sul cartello che stringono due punkettone con i piercing. Anche le teorie del complotto di Franco: all’inizio vengono scartate come il delirio di un tossico appena uscito dal Sert e poi, quando Remo si ritrova coinvolto negli affari dell’amico con gruppo di terroristi far-right, li aiuta astenendosi da qualsiasi forma di giudizio etico o politico, solo perché vuole aiutare il suo amico e, per una volta, entrare in una connessione più profonda con lui, trovare nella sua mania complottista qualcosa di intimo e vero. Di certo, nella mania complottista di Franco non sente il ruggito di una nazione. In questo senso mi verrebbe da dire che Remo è meno nichilista di Pingu e Jem, perché al valore dell’amicizia ci crede, e per aiutare gli altri si infila in un casino dietro l’altro. Ma, nichilismo o meno, la loro sistematica autodistruzione si può considerare una sorta di rivolta, o è solo una resa?
Iannuzzi: Più che come una rivolta o una resa, io l’ho sempre interpretata come una sfida. Una serie di sfide, in realtà, lanciate di volta in volta al mondo per vedere fino a che punto questo è tanto addormentato da non reagire. È un gioco sulla linea: a loro non interessa provocare. A loro interessa vedere fino a che punto possono spingere il limite della loro libertà, senza che nessuno se ne accorga. Loro sono degli imboscati, alla fine. Non se li calcola nessuno. E a loro va bene così. La provocazione è più quella che avviene tra di loro e si lanciano l’uno con l’altro, una scusa per potersi muovere nella realtà, fare momento, crearsi dei ricordi insieme. Anche la droga è una scusa. Non è tanto l’effetto che mi immagino loro ricerchino, quanto l’esperienza che ci gira intorno. È un pretesto per portare avanti la loro “missione”, come se si sentissero i protagonisti di una storia di GTA, e stessero appunto costruendo la loro vita attorno ad un ricordo di sé percepito come estremamente necessario.
Non c’è tanto la politica nelle loro vene, quindi, ma soltanto il desiderio di essere lasciati in pace nella ricerca di una svolta del tutto personale. Anche Francoboy, che è a suo modo un attivista, non lo fa per vocazione, per ideale, ma per noia, per “darci un senso.” Come fanno i complottisti:
costruire un senso dove questo sembra non esserci, e dove spesso semplicemente non c’è. È qui che si innesta il tema del nichilismo, che io non credo di aver svolto, almeno non consapevolmente. A posteriori posso provare a dirlo: questi ragazzi stanno ricostruendo un senso,
dove questo è appunto – stando con Nietzsche – perduto insieme al sistema di valori che lo generava. Questi personaggi, percependo questa mancanza, seppur credo non soffrendola, sviluppano una sorta di amor fati, e costruiscono il proprio senso, ognuno a suo modo, come alla fine, semplificandola molto, era l’idea di Nietzsche. È quindi per il momento una rivolta personale quella che stanno vivendo, quasi più verso se stessi
che verso gli altri, per crepare la pietra in cui sono scolpiti e farne uscire una figura umana, viva. Nonostante poi non ci riescano mai, e siano ogni volta da capo: intrappolati nella spirale di quelle che, nate come eccezioni, si sono trasformate in abitudini, e sono quindi di nuovo da mettere in
discussione per poter essere liberi.
Nel libro ci sono moltissime immagini che risplendono, ci permettono per un attimo di distendere il respiro dall’esistenza opprimente dei protagonisti, come aprire una finestrella dopo un chiusino in una cucina piena di piatti sporchi e bottiglie di birra mezze evaporate.
Anche perché, passando attraverso lo sguardo allucinato di Remo, queste immagini non vengono presentate neanche come metafore ma inframmezzate alla narrazione realistica come se potesse tranquillamente accadere che, mentre una ragazza ti guarda, il tuo cuore salti
“fuori dalla bocca come un pesce rosso nell’erba in una scena in bianco e nero”. Ma il libro è anche fitto di un altro tipo di immagini, di una bellezza crudele – del resto diceva Rilke “il bello non è altro che l’inizio del terribile”. Infatti, durante l’ultima sera che i tre
passano insieme, Remo, Jem e Pingu alzano gli occhi al cielo e “al posto della luna, una coltre di frammenti esplosi. Nel buio della notte si riflette un bagliore e elettrico che solo noi vediamo. Piovono gocce argentate sulla città. Apriamo la mano per raccoglierle. Si sciolgono
prima di toccare la superficie”. La terribile bellezza della luna distrutta, insomma, un preludio alla tragedia finale, quando in macchina Remo si volta verso Jem che sta guidando con le palpebre cucite col filo dei punti. Pingu, intanto, dorme sul sedile posteriore e non si
rende conto di nulla, l’unico che guarda in faccia lo schianto è Remo e, forse, proprio per questa sua capacità di tenere gli occhi aperti nella rovina, è anche l’unico che potrebbe avere la possibilità di salvarsi da questa periferia mefitica, di scappare davvero come “un leprotto”
dalla simulazione. O, almeno, questo è quello che ci ho colto io. Ma, secondo te, ha senso in questo libro parlare di salvezza?
Iannuzzi: Non strettamente. Lo dice don Pamela: siamo già salvi. Il mondo è già salvo. Il suo è un discorso sul destino, quindi più astratto. Ma pure nella concretezza delle loro vite, questi personaggi non devono salvarsi proprio da niente: stanno semplicemente vivendo, sbagliando, correggendosi. Se dovessi pensare le loro vite in termini di salvezza/perdizione, allora dovrebbero salvarsi dalla vita stessa. Ma che senso avrebbe?
Forse è anche una questione di morale cattolica. Per quanto io ci sia stato il più lontano possibile da quegli ambienti, ne sono stato molto influenzato. E ho sempre percepito il tema della salvezza, religiosa o meno, come una forma di condizionamento, un ricatto di qualcuno che
presuntuosamente propone una ricetta contro il dolore e spesso è semplicemente in malafede, o sta facendo proseliti. Statemi lontani. Lasciate che la mia anima si curi da sola, non serve certo che venga salvata, a meno che non ci sia qualcuno che la tiene in ostaggio, ma quello è tutto un altro discorso. Una persona libera, da che cosa deve essere salvata? E poi, chi dovrebbe salvarla? Sono tutte domande che finché non avranno risposta, allora priveranno di senso il discorso sulla salvezza.
Riguardo all’uso del poetico, la citazione di Rilke è perfetta in questo caso. La funzione dell’elemento poetico, in tutto il libro ma soprattutto nell’ultimo capitolo, è di accompagnare il sentimento del collasso. È l’orchestra che continua a suonare mentre la nave affonda. Ci penso ora:
pure la fine del mondo, se mai ci sarà, avrà un estetica, e, se qualcuno sopravvivrà, pure di quella in qualche modo potrebbe farne bellezza. È un paradosso interessante, credo, che anche le cose più terribili possano pure esse vivere in una dimensione estetica, e contenere in sé della poesia.
Per concludere con una nota più tecnica: qual è stato il processo creativo di questo libro? C’è questa teoria che divide gli scrittori e gli scrittrici in “architetti” e “brancolatori”, dove i primi sono – come si evince dal nome – coloro che prima di passare all’effettiva scrittura
redaggono scalette, schede personaggio, mappe e schemi; mentre i secondi si lasciano guidare dalla scrittura stessa, senza avere troppa consapevolezza di dove andranno a parare. In quale categoria ti identifichi maggiormente? O senti di appartenere a qualcos’altro ancora? Hai qualche strano “tic letterario”, per citare Francesco Piccolo (Scrivere è un tic), qualche rito o modus operandi che ti accompagna nella scrittura?
Iannuzzi: Sono stato entrambi. E più spesso un misto dei due modelli. Costruisco schemi e scalette mano a mano, ma lì dentro quando scrivo mi muovo come un fantasma, o semplicemente mi capita di non seguirle per niente. White People Rape Dogs in particolare è stato scritto in modo molto disordinato. Ha passato una lunga serie di riscritture, fasi in cui è stato un’opera completamente diversa da quella che è diventata. È stato un processo molto vario, pieno di sterzate improvvise, di abbandono alla casualità. Il fatto che sia riuscito, credo sia più un colpo di fortuna che una questione tecnica. A forza di provare combinazioni, alla fine ho beccato quella giusta. È stato proprio un processo di brute force, try and error. Ma ci ho sempre creduto così tanto che niente mi avrebbe fatto desistere, anche quando ad un certo punto il computer si è fulminato e ho perso quasi tutto, e ho dovuto riscrivere da capo.
Rispetto ai tic letterari, non mi sono mai fermato a interrogarmi. Ma forse neanche mi interessa. A me le scritture perfette da writing school mi annoiano. Alla fine lo stile secondo me nasce da un uso coerente dell’errore, del tic appunto, della deviazione dalla regola, di modo che questo poi produca un effetto piacevole. Se ne fossi consapevole, credo rischierei di emendarli, per mania più che altro, e così anche di privarmi di quell’imperfezione, di quella ruvidezza che sento mia e vorrei sfruttare ancora per un po’. Per me vale la regola: se suona bene e contiene un briciolo di verità o di sentimento, allora ci siamo.