Nuova America, vecchia America

Una disamina su quello che è successo e potrebbe succedere negli USA dopo l’elezione di Donald Trump. Di Alberto Vigolungo.

Nonostante uno degli slogan “simbolo” della campagna Harris, l’America ha deciso di tornare indietro. E, a ben vedere, con una certa risolutezza. A Donald Trump sono andati tutti e 7 gli stati chiave, inclusi molti della cosiddetta “Rust Belt”, come Wisconsin, Michigan e Ohio. Mentre Fox News annuncia il nome del 47° Presidente USA (intorno alle otto del mattino qui in Italia), e mentre le telecamere di tutto il mondo indugiano sul palco del Convention Center di Palm Beach dove a minuti il tycoon apparirà per celebrare il suo trionfo, un certo senso del destino coglie lo spettatore non americano che di America ha letto, ascoltato, visto molto negli ultimi mesi. Un evento che marchia a fuoco l’ennesima conferma di una stagione populista giunta al suo apogeo.

A differenza di otto anni fa, questa volta l’esito è apparso quanto mai prevedibile, con la corsa di Kamala durata appena 3 mesi (iniziata nell’ultimo scorcio di un folle mese di luglio che aveva visto dapprima l’attentato a Trump in Pennsylvania, e poi la rinuncia di Joe Biden alla sua ricandidatura) e in parte “sabotata” dall’impopolarità del presidente uscente (di cui lei era stata vice), sebbene i sondaggi della vigilia fotografassero uno scenario di sostanziale equilibrio. La rielezione di Donald Trump apre tuttavia a scenari non meno ignoti del 2016, ma in un contesto internazionale decisamente stravolto. E racconta un paese logorato, ripiegato su sé stesso, preda di una nostalgia che ha preso il posto di qualsiasi slancio verso il futuro, accompagnata da una percezione del proprio declino forse mai così avvertita: un colossale rinvio di scelte, inseguendo i fantasmi di un passato che oggi sembra parlare da lontanissimo, rimanendo in un eterno presente “da intrattenimento”, come suggeriva già nel 2017 il titolo di un brano di Father John Misty.

Più che di aderire ad una visione, come si leggeva nei giorni scorsi in una story postata da Mario Calabresi sul proprio profilo Instagram, gli Stati Uniti hanno scelto  di “comprare” la promessa di Trump “di fermare immigrati, inflazione e guerra”, dimostrando ancora una volta la pura forza del marketing e della comunicazione nella creazione di uno storytelling in larga misura scollegato dai fatti (come rilevato da Colum McCann a proposito dell’immigrazione, per esempio, senza dimenticare la spregiudicata fake news lanciata in diretta tv sulle abitudini alimentari di un gruppo di immigrati di Springfield, Ohio) e immediatamente capace di sfruttare la contingenza per creare nuove mitologie (l’immagine più potente dell’intera campagna presidenziale: il pugno del tycoon levato nel cielo di un pomeriggio estivo, il volto rigato di sangue, circondato da agenti della sicurezza in occhiali scuri, negli istanti successivi all’attentato da lui subito a metà luglio). Dagli immigrati bollati come “spazzatura”  nella cornice di un comizio al Madison Square Garden, ad un’Europa che sarebbe “peggio della Cina”, ecco gli ingredienti di un nuovo cocktail comunicativo dagli effetti devastanti. In realtà, sempre lo stesso: compreso lo slogan, quel Make America Great Again che è la quintessenza del trumpismo, fondamentale punto di partenza per comprendere le ragioni del suo successo. La novità riguarda invece il fatto che questo passato, evocato e glorificato dal tycoon pure in occasione del discorso della vittoria, non si riferisce semplicemente alla precedente esperienza presidenziale e ai valori tradizionali che essa aveva incarnato, ma a qualcosa di più pregresso, che affonda le sue radici nel fondamentalismo religioso (in quest’ottica si legge l’entrata in scena di un personaggio come J.D. Vance), e di cui soltanto le distopie letterarie di Margaret Atwood avevano colto i sommovimenti.

Tuttavia, come ha sottolineato Antonio Di Bella nel suo ultimo libro, continuare a guardare al fenomeno trumpiano con i pregiudizi del 2016 – così come attribuire allo stesso i connotati della causa dei “mali” della società statunitense, piuttosto che degli effetti – costituisce un esercizio fuorviante, se non addirittura insensato; specie se non si considera il contributo decisivo offerto dalle classi dirigenti liberal e progressiste,  in una serie di lacune ed errori confermati, anche sul piano comunicativo, in questa campagna elettorale. Pur considerando questi errori, che nella prima età trumpiana Bret Easton Ellis aveva ricondotto innanzitutto ad un’”epidemia di superiorità morale”, la parabola della Sinistra americana pare essere legata a doppio filo con uno dei fenomeni culturali più problematici di questo tempo: la crisi dell’idea stessa di “impero”, baluardo ideologico che aveva guidato gran parte della storia degli Stati Uniti nel XX secolo, almeno fino al Vietnam. In essa si riflette il sentimento di un “antiamericanismo interno” assai diffuso nella società di questi anni ’20, in qualche modo connesso con quelle stesse paure abilmente cavalcate dal paradosso del miliardario-capo della rivolta del popolo contro l’élite. Certamente, contro questi processi profondi, da tempo in atto, la candidata del Partito democratico non poteva nulla. Entrata in corsa a fine luglio, Kamala Harris ha saputo volgere a proprio vantaggio l’effetto sorpresa, ponendo le basi di una rimonta a quell’altezza già ardua: a metà agosto, una delle convention dem più partecipate degli ultimi decenni aveva ufficialmente eletto la “gioiosa guerriera” a leader che, dopo aver rimosso il focus sull’età del candidato democratico, puntava decisa ad un’idea di discontinuità con il passato incarnato dal suo avversario, non mancando di far leva su un rinnovato slancio patriottico. Ma se a settembre la popolarità di Kamala toccava il suo apice, dopo la netta vittoria del confronto televisivo con il tycoon andato in onda sulla ABC, nei mesi successivi  i limiti di un programma che stentava a prendere forma sono inesorabilmente emersi, mentre la sua partecipazione all’amministrazione uscente si rivelava ormai un problema insuperabile.

E allora? Quale lezione ricavare dall’esito delle elezioni presidenziali USA 2024? Il futuro della più grande e antica democrazia del mondo è davvero destinato ad una deriva irreversibile? Le due “tribù” di cui parlava la scorsa estate Federico Rampini – in riferimento alla fortissima polarizzazione che contraddistingue l’attuale opinione pubblica statunitense – possono addirittura trasformarsi negli eserciti di una nuova guerra civile, messa in scena da Alex Garland in uno dei film (non a caso) più discussi dell’anno, materializzando così l’”incubo inconfessabile” di cui parla ancora Di Bella? Una possibile risposta può derivare soltanto continuando ad osservare lo sviluppo del trumpismo, che ha nel conflitto e nella rivolta i suoi fondamenti imprescindibili, e che meglio di qualunque altro fenomeno riesce a sfruttare quella che qualcuno ritiene “l’ideologia più forte del nostro tempo”: il complottismo. Da questo punto di vista, l’evidenza più grande – e preoccupante – del fenomeno Trump risiede nella sua capacità di messa in discussione del reale, con risvolti che mettono davvero a dura prova i fondamenti della nostra civiltà (e le cui  avvisaglie sono già state drammaticamente osservate nel recente passato). Insomma, al di là dei timori autoritari più o meno fondati riguardanti il suo comeback alla Casa Bianca,  per i suoi stessi presupposti, è impossibile negare l’eventualità che il conflitto latente di cui il trumpismo si nutre costantemente sfoci in una deriva violenta su ampia scala; una deriva che peraltro può rafforzarsi anche a causa di un sempre più stretto avvitamento sul tema dell’identità.

Ma soprattutto, un messaggio su tutti esce con chiarezza dal voto americano del 5 novembre: la regressione come risposta ai problemi della contemporaneità, una nostalgia cieca che guarda all’America come ad un grottesco feticcio, curiosamente preconizzata in un’immagine ricorrente nella cinematografia di questi anni: quella del parco divertimenti. In questo luogo si consuma infatti una delle scene più violente di Civil War, così come il climax finale dell’ultimo horror di Jordan Peele (Nope, 2022).

All’indomani della rielezione di Donald Trump (rispetto alla quale, a livello di analisi, balza immediatamente all’occhio il contributo dell’elettorato black e ispanico, oltre a quello dei giovani maschi bianchi under 30), solo questo può essere osservato: un sogno nostalgico e violento del passato. La realtà di un’America che ha scelto di tornare indietro, e molto più di quanto il motto MAGA potrebbe far pensare: perché, al di là del furore autocitazionista, il Trump-bis si preannuncia sotto molti aspetti reazionario, soprattutto in tema di diritti, come suggerito fin dai tempi della nomina di Vance. Con queste visioni, la nuova-vecchia America di Trump grida al mondo il suo ritiro, la sua voglia di rimanere soltanto spettatrice della propria, eterna commedia.

 

 

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[1] C. McCann, La malattia dell’America, intervista a cura di A. Cuzzocrea, “La Stampa”, 5 novembre 2024.

[2] A. Di Bella, L’impero in bilico. L’America al bivio tra crisi e riscossa, Solferino, Milano, 2024.