Scrittrice, musicista, accademica, Liz Moore si è rapidamente imposta tra i nomi di punta dell’attuale stagione dominata dalla narrativa femminile. Ripeschiamo il romanzo pubblicato nel 2020, emozionante racconto in bilico tra confessionale e denuncia sociale, intessuto nella solida trama di un poliziesco d’altri tempi: un’”americana” lirica e insieme politica, sullo sfondo di una Philadelphia specchio degli enormi divari della società americana di questi anni. Tra vite spezzate, degrado urbano e una speranza che affonda unicamente le sue radici nell’amore, l’opera traccia la parabola vivida di una disperata ricerca umana e spirituale. Di Alberto Vigolungo.
Se è vero che un valido scrittore si distingue dal modo in cui connota i personaggi, attribuendo loro un particolare carattere, storia, ossessione, magari avendo per unica scuola la strada, cioè catturando intimamente i discorsi della gente comune, i suoi comportamenti, le sue solitudini, e restituendone bagliori di verità, allora Liz Moore, classe 1983, rientra a pieno titolo in questa categoria. Fin dalle prime pagine de’ I cieli di Philadelphia, romanzo sospeso tra “saga familiare e detective story”, il lettore si trova immerso in un paesaggio urbano ed affettivo dal quale è immediatamente attratto, perché è con empatia, oltre che con dolore, che ne parla la sua protagonista.
Michaela Fitzpatrick, 32enne agente della polizia di Philadelphia in servizio presso il Ventiquattresimo distretto, pattuglia ogni giorno le strade di Kensington, una delle tante periferie dove si consumano i drammi silenziosi di un’umanità alla deriva, fatta di tossicodipendenti, prostitute e piccoli criminali, e che l’ha vista crescere. Di questa massa invisibile fa parte sua sorella Kacey, più giovane di quattro anni, con cui ha condiviso fin da piccola traumi che hanno segnato profondamente la sua storia familiare e i cui sviluppi hanno determinato il loro progressivo allontanamento. Pur non avendo contatti con lei da anni, constatando impotente la sua rovina, Michaela ha sempre cercato di vegliare su di lei, tenendosi aggrappata alla speranza di poter riannodare il filo del loro strettissimo legame, prima di perderne improvvisamente le tracce.
Tra lavoro (che per una poliziotta di periferia significa sostanzialmente rispondere a chiamate d’emergenza, intervenendo in episodi di violenza domestica, rissa, spaccio, rinvenimento di cadaveri in vicoli senza nome) e vita (un bambino di 5 anni, Thomas, dolce ed intelligente, che cresce da sola in un appartamento in affitto), la disperata ricerca di Micky si fonde presto con l’indagine su un serial killer che ha preso di mira le ragazze del quartiere. Attraverso fallimenti e dolorose scoperte, Mickey riuscirà a ritrovare il filo della sua storia familiare, e a risolvere il caso.
Romanzo intimista sulla dipendenza, la solitudine e la redenzione, I cieli diPhiladelphia colpisce subito il lettore con l’immediatezza del reportage, sgorgando da uno stile asciutto e conciso in grado di sfruttare appieno le potenzialità di una narrazione in prima persona. L’agente Fitzpatrick compone con la sua stessa voce una geografia urbana e umana dalle coordinate precise, popolata da solitudine e degrado, in cui i giovani sono votati allo spaccio e alla prostituzione, personaggi-fantasmi che si trascinano sui marciapiedi di una Spoon River suburbana che un tempo ospitava ordinate enclave operaie e impiegatizie; personaggi la cui condizione è cristallizzata in un’immagine raggelante, una delle tante: “Sciogliersi lentamente a terra”.
Non è un caso che il romanzo inizi con un elenco di nomi, tutti uniti dallo stesso destino, “gocce” nel mare di un problema sociale tanto grande quanto ignorato. Girando in macchina con Michaela per le strade di Kensington vediamo così l’America esclusa dal big picture, popolata da esistenze mute e spezzate, così potentemente al centro di molta narrativa di era trumpiana, di cui Ohio (2018) rappresenta probabilmente l’esito più compiuto: un distretto di periferia e il suopaesaggio di anime perse e dannate, riflesso di un Paese che ha smarrito sé stesso, rimasto a contemplare il suo Sogno sbiadito nelle tetre pozzanghere di un presente immobile, nello stesso modo in cui i tossicodipendenti, sorbendo l’effetto della loro dose, fissano le suppellettili dei loro rifugi, vecchie case sprangate con assi e pannelli di compensato. Questi luoghi, un tempo dignitose dimore della working e middle class suburbana, ora noti come abandos, sono il segno tangibile del fallimento di un’intera generazione e della sua promessa di riscatto.
I sobborghi di Philadelphia compongono così una sorta di “archeologia” del Sogno americano, la cruda testimonianza di una realtà segnata da un disagio sociale mai così percepito, che riporta alla mente gli scenari depressi della già citata opera di Stephen Markley, o, più direttamente, il degrado metropolitano del dramma in stile documentario di Failed State (2023), e che ha nelle sublimi fotografie di Jeffrey Stockbridge il suo perfetto equivalente per immagini.
L’angoscia di Mickey, terrorizzata dalla prospettiva di una vita senza la sorella con la quale ha condiviso dolori e promesse, è finemente cesellata nello spazio di un paragrafo:
La mia laurea senza Kacey. Il mio matrimonio. La nascita dei miei figli. La morte di Gee […]. Avevo perduto l’unica persona a parte me capace di sostenere tutto il peso che ci era toccato in sorte quand’eravamo nate. Il peso della morte dei nostri genitori. Il peso di Gee, alla cui occasionale dolcezza ci aggrappavamo con tutte le nostre forze, ma le cui crudeltà si ripetevano quotidianamente. Il peso della nostra povertà.
La dipendenza attraversa la storia familiare della protagonista come una crepa senza soluzione di continuità, gettandola in un baratro fatto di solitudine e sensi di colpa; un “cancro” in grado di manifestarsi in un’agghiacciante successione genealogica, portandosi via tutto: per prima la madre, la cui scomparsa spedisce Michaela e Kacey a trascorrere l’infanzia dalla nonna Gee, donna burbera e tenace, poi la stessa Kacey, che sperimenta la sua prima overdose a 16 anni, e infine il piccolo Thomas, figlio della sorella adottato dalla protagonista e da lei cresciuto con tutto l’amore possibile, e che sconta su di sé il peso di tanti errori “adulti”.
Ma se i vari “pezzi” del passato di Michaela Fitzpatrick affiorano lentamente, attraverso una narrazione fondata su un’esplicita alternanza di piani temporali (e offrendo colpi di scena non meno spiazzanti di quelli riguardanti l’indagine), ad un episodio in particolare, riguardante il ritrovamento della sorella esanime in uno dei tanti abandos che caratterizzano il paesaggio del loro quartiere, si lega una delle immagini più vivide e toccanti della dipendenza, che la protagonista vedrà riflessa innumerevoli volte nelle sua più che decennale esperienza sulla strada. Qui, la voce di Mickey è tanto intensa quanto obiettiva, riuscendo ad illuminare con la forza della testimonianza la sofferenza e le sue terribili verità:
… io salii dietro insieme a mia sorella e la guardai mentre le iniettavano il Narcan e la resuscitavano, violentemente, miracolosamente. La vidi in lacrime per il dolore, la nausea e la disperazione, la sentii implorarci di farla tornare indietro. Ecco il segreto che scoprii quel giorno: nessuno di loro vuole essere salvato. Vogliono tutti sprofondare nella terra, essere inghiottiti continuare a dormire. Quando vengono resuscitati, sul loro viso si dipinge l’odio. È un’espressione che ho visto decine di volte sul lavoro, alle spalle di un povero paramedico il cui compito è ripescarli dall’aldilà.
Oltre che per il toccante racconto di una realtà desolata, che ha in Kensington il suo baricentro, l’opera si distingue per la sua capacità di caratterizzare la protagonista, come opportunamente evidenziato dalla sua eccellente traduttrice, Ada Arduini. “Figura più complessa e coraggiosa del romanzo”, con il procedere della narrazione Michaela si staglia su un orizzonte via via sempre più controverso, sotto molteplici aspetti. Su tutti, la sua “sete” di redenzione, che instaura un’intrigante dialettica con il suo ruolo professionale, abbracciato all’età di 20 anni. La polizia è un’ancora di salvezza da un’esistenza povera e frustrata nei suoi talenti, alla quale la protagonista si aggrappa con convinzione fin da quando, adolescente, inizia a frequentare i doposcuola estivi da essa organizzati. Da quel mondo provengono i suoi due “mentori”: Simon Cleare, poi suo compagno, e Truman Dowes, suo collega di pattuglia per 10 anni. Con Truman, in particolare, condivide l’appartenenza a valori di rispetto e servizio nei confronti della comunità.
Tuttavia, è proprio in relazione a questi due personaggi maschili che la vicenda di Michaela si arricchisce di sfumature controverse. La relazione con Simon, iniziata quando lei è ancora minorenne e lui già padre separato con un bambino, si dissolve nella definitiva presa di coscienza dell’inganno perpetrato dall’uomo, la cui personalità manipolatoria finisce per travolgere la condizione già fragile di Kacey, cambiando per sempre la vita della protagonista. Si scopre così che anche quella di Michaela è la storia di una lotta contro la dipendenza, che ha la stessa matrice di quella che tormenta la sorella: il vuoto affettivo lasciato dalla mancanza di una famiglia. Così come Kacey si è resa dipendente dal consumo di droga, la “droga” di Mickey è la sua storia con Simon, una miscela di menzogne e autoinganni che per troppo tempo ha scelto di bere:
Cercavo in tutti i modi di ignorare il rumore di fondo che accompagnava le mie giornate, il rintocco di una campana simile a un avvertimento. Non le davo retta. Volevo che tutto restasse com’era. Avevo più paura della verità delle bugie. La verità avrebbe cambiato le circostanze della mia vita. Le bugie erano statiche. Le bugie mi davano pace. Le bugie mi rendevano felice.
L’apparente ”eccezione” della protagonista rispetto al mondo che la circonda (sotto il profilo etico, ma anche simbolico, per il ruolo sociale che la sua figura incarna) crolla così pezzo per pezzo, in un’autoanalisi lucida e amara:
Penso alle scelte che ha fatto mia madre e dolorosamente mi rendo conto che non sono poi così diversa da lei. È solo la natura delle nostre dipendenze a essere diversa: la sua era una dipendenza dalle droghe, una cosa chiara e definita. La mia è amorfa, ma non meno malsana. Ha qualcosa a che fare con il moralismo, la percezione di sé, l’orgoglio.
Insieme a quello con il padre e con Simon, il rapporto con Truman Dowes è il terzo e ultimo asse della dialettica della protagonista con il mondo maschile: contraltare di Simon, Truman è l’unica figura davvero positiva del romanzo, “maestro di vita” dai tratti paterni e modello ideale del poliziotto cui Michaela ha sempre aspirato. Tuttavia, pure su di lui la protagonista ripone in definitiva un’aspettativa sbagliata, arrivando ad accarezzare dapprima la possibilità di un amore impossibile, poi a sospettare di lui (come, peraltro, dell’ex compagno) come autore dei brutali femminicidi che hanno scosso il quartiere.
Gli errori di valutazione di Michaela – che porteranno anche alla sua sospensione dall’incarico – passano proprio per questi rapporti non risolti, che mettono in crisi anche la sua dedizione verso la professione, di pari passo con il sospetto, poi divenuto conferma, che l’assassino di Kensington si annidi tra le fila della polizia. Considerando la dialettica oscura e complessa della protagonista con il mondo maschile, l’unico rapporto del quale la protagonista riesce a venire davvero a capo è quello con il padre, il cui ritrovamento sblocca quasi simultaneamente i due misteri al centro del romanzo.
Dopo averlo ritenuto per anni defunto, anche in questo caso Michaela deve far ricorso a tutte le proprie doti investigative, non senza fare i conti con le reticenze di nonna Gee: in una fredda sera di dicembre, alla guida della sua auto privata, la donna raggiunge suo padre in una villetta familiare del Delaware, trovando la sorella, e con lei la soluzione del caso ormai finito sulle prime pagine delle cronache nazionali. Questo episodio, frutto del fondamentale confronto tra Michaela e Gee, configura lo snodo fondamentale delle due linee narrative che compongono il romanzo, rivelando altre (e sempre più spiazzanti) verità sulla vicenda dei Fitzpatrick.
Alla luce di questi rapporti, e della continua messa in gioco di valenze simboliche inevitabilmente connesse al ruolo della sua protagonista, il romanzo di Liz Moore assolve pienamente i requisiti del grande poliziesco; sfumando progressivamente i confini tra bene e male, l’opera sgretola poco alla volta pregiudizi e ipocrisie, lasciando unicamente emergere l’umanità di individui ai margini, persone con un proprio nome e una propria storia, rappresentate nella metafora che ispira il titolo originale dell’opera: così l’umanità di Kensington catturata nelle sublimi istantanee di Stockbridge si trasfigura in un “lungo fiume chiaro di anime scomparse”.
Per la sua capacità di approfondire personaggi e luoghi, e per il grado di realismo della prosa (alimentata da uno stile essenziale, che si distingue per il fraseggio breve e l’ampio uso della forma dialogica), I cieli di Philadelphia rappresenta un caso letterario di notevole rilievo nella letteratura statunitense di questi ultimi anni, instaurando un legame peculiare con la più autorevole tradizione del poliziesco: come nei romanzi di Raymond Chandler, l’opera di Moore è in grado di illuminare un dissidio morale forte, dandogli peso e profondità, e la cui evoluzione si dimostra pienamente in sintonia con le dinamiche di sviluppo della trama.
La suggestione che scaturisce dalle sue pagine ha poi un immediato richiamo con un immaginario ben noto, costantemente avvertito in scene costruite con un procedimento quasi cinematografico. In questo senso, ritornando allo stile che lo contraddistingue, I cieli di Philadelphia si presta benissimo all’adattamento: ed è proprio notizia di quest’anno la lavorazione di una miniserie televisiva prodotta da Peacock, con Amanda Seyfried nei panni di Michaela Fitzpatrick, che vede la collaborazione alla sceneggiatura di Nikki Toscano e della stessa Moore. Inutile dire che le aspettative sono decisamente alte.
Le immagini presenti nell’articolo (inclusa quella di copertina) fanno parte del reportage “Kensington Blues” di Jeffrey Stockbridge.