L’adattamento cinematografico del libro Eileen di Ottessa Moshfegh è uscito nelle sale italiane il 30 maggio 2024 (negli Stati Uniti il 1 dicembre 2023), ma non ha fatto particolare risonanza, complice forse anche la produzione indie del triunvirato Oldroyd (regista), Luke Goebel, (sceneggiatore), Moshfegh (sceneggiatice). Forse, se avesse osato di più, i risultati sarebbero stati differenti? Articolo a cura di Carolina Dema.
Eileen, pubblicato negli Stati Uniti da Penguin Press, e in Italia da Mondadori, fa la sua comparsa nel 2015, ponendo una volta per tutte Moshfegh sul podio delle scrittrici contemporanee più amate, dopo l’esordio con la novella McGlue – la storia concentrica di un pirata alcolizzato con un buco in testa. L’anno corrente è il 1964: la protagonista, Eileen appunto (Thomasin McKenzie), è una ventiquattrenne che vive in un minuscolo paesino del Massachusetts, dividendo il suo tempo fra il lavoro come segretaria in un carcere minorile maschile e la badanza del padre, ex-poliziotto alcolizzato; niente amici, niente amore, solo un profondo senso di ripugnanza verso se stessa e una pressoché totale mancanza di empatia verso gli altri (che comunque sono quasi tutti stolidi e ipocriti). Le cose cambiano quando la voluttuosa e sofisticata dottoressa Rebecca Saint John (Natalie Portman) fa il suo ingresso in carcere, in qualità di pedagogista (nel film diventa per semplicità una psichiatra).
Si metta ben in chiaro che il focus di questo articolo non vuole essere ibridarsi a quella specifica torma di lettori e lettrici che, a ogni trasposizione cinematografica, sa solo sbraitare “il libro era meglio”, “nel film hanno deturpato il personaggio x, il dettaglio y…”; ma, essendo Eileen uno dei rari casi in cui la scrittrice del romanzo ha preso parte al lavoro di adattamento, credo sia interessante analizzare alcune delle macro modifiche che sono state attuate al film, e tentare di indagarne le motivazioni.
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Ho individuato quattro arie tematiche che, a mio avviso, si sono discostate maggiormente dal romanzo:
Il fattore “ripugnanza” di Eileen
Il fattore “ripugnanza” dei co-protagonisti
Il rapporto tra Eileen e Rebecca
Il colpo di pistola
Il fattore ripugnanza di Eileen
In una videointervista rilasciata per Collider Interviews, Moshfegh dichiara che durante la stesura della sceneggiatura, le sfaccettature della protagonista si sono delineate maggiormente, proprio grazie alla possibilità di discuterne, a distanza di anni dalla scrittura del romanzo, con i colleghi cinematografi; nonostante ciò Eileen pare invece talvolta appiattirsi sullo schermo. Una delle peculiarità che più amo dei protagonisti di Moshfegh è la loro apatia, che li rende sudici (fisicamente e spiritualmente), grotteschi nel loro ritrovarsi a compiere il male per una egoistica ricerca del piacere, o per semplice disinteresse nei confronti degli altri.
Eileen, nel libro, spesso non si lava, ha i segni dell’acne, indossa i vestiti lanuginosi della sua defunta madre, di due taglie più grandi della sua, nasconde del Vermouth nell’armadietto in ufficio, ruba nei negozi, ha una coscienza da abnegante puritana, ma poi osserva un giovane carcerato in isolamento masturbarsi, stalkera la guardia carceraria per cui ha una cotta. Nel film, seppur alcune di queste caratteristiche vengano preservate per lo meno in certi dettagli (il padre che le dice che puzza; la neve nelle mutande per raffreddare i bollenti spiriti; il vestito nero per la serata al bar con Rebecca, indossato dalla madre di Eileen in occasione del funerale del suocero, che però all’attrice esalta il vitino da vespa…), la protagonista viene dipinta come una ragazza docile, ingenua, sì, di certo repressa, ma meno annichilita, quando invece, dicevamo prima, che proprio nell’annichilimento apatico vi è la genesi della sordidezza dei personaggi di Moshfegh.
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In un altro frangente, però, la scrittrice ha anche detto che dai lettori e dalle lettrici si è sovente sentita fraintesa: “Lei [Eileen] si sentiva disgustosa. Stava descrivendo sentimenti su se stessa, e tutti gli altri volevano in qualche modo concentrarsi solo su quanto fosse effettivamente sgradevole.” (Vanity Fair)
Parrebbe quindi che il film le abbia dato l’occasione di rettificare la situazione, spostando il focus sulla vulnerabilità del personaggio, dandole maggiore dignità. C’è anche da ricordarsi, però, che le trasposizioni cinematografiche spesso sono anche oggetti narrativi utili per ingraziarsi un tipo di pubblico più mainstream, e capita talvolta che sia necessario archetipizzare i personaggi, renderli più amabili e immedesimabili, andando a sacrificare un’ambiguità che è, in aggiunta, più complessa da esprimere attraverso il linguaggio filmico, comparandolo a una prima persona letteraria, la quale può permettersi di impegnare pagine e pagine con riflessioni, fantasticherie, flash back e flash forward.
Il fattore ripugnanza dei co-protagonisti
Anche gli altri personaggi sono stati un poco imbellettati, a partire dalle donne (le rognose segretarie di mezza età della prigione, la madre del giovane carcerato Lee Polk) che nel libro vengono descritte come brutte, cadenti, afflosciate, mentre nel film sono tutte belle, seppur marchiate dai segni dell’età. E qui si inciampa senza dubbio in una delle questioni a mio parere più problematiche dell’industria del cinema, quella statunitense in particolare, che professa lo spiritato ripudio della bruttezza, dimenticandosi che invece è uno tra i più potenti strumenti narrativi.
Credo che nel romanzo di Moshfegh la scelta di raccontare di personaggi femminili così deturpati dal tempo e dalle difficoltà della vita, oltre che intarsiarsi perfettamente in una scrittura realistica, fosse anche utile per creare maggiore contrasto con la figura di Rebecca, che quando arriva in città appare, in particolar modo a Eileen, come una dea salvifica, come se bastasse la mera bellezza e un pizzico di charme a classificare una persona come un’eroina. E invece…
Del resto, il romanzo lascia intravedere le idiosincrasie di Rebecca, che confessa a Eileen che “Se non ho una visita del medico, o di un gentiluomo, praticamente non mi lavo. Fa troppo freddo qui. Tienitelo per te.” (anche se c’è da chiedersi se più che una confessione non sia una delle prime forme di manipolazione che la donna mette in atto per ingraziarsi la protagonista e renderla sulla alleata per il misfatto finale), o ancora la bottiglia di vino di cui, non trovando il cavatappi, spacca il collo sul lavandino, servendo la bevanda con cocci di vetro.
Nel film, il vino lo apre con una strategia goliardica insegnatale da un filosofo di Harvard, e alcuni dettagli più sudici e ambigui vengono eliminati per evocare la figura di una donna libertina e anticonformista, che rivela la sua nevrosi solo nel finale.
Persino il padre, pazzo e alcolizzato, nonostante le turpi parole che rivolge spesso a Eileen, e il sospetto che viene instillato allo spettatore di un passato di molestie sulla sorella maggiore di Eileen, Jodie, nel film ha dei momenti di lucidità benevolente che ce lo fanno, almeno per un attimo, amare.
Questo meccanismo di ripulitura dei personaggi che, a mio parere, è principalmente uno strumento per ingraziarsi un pubblico più ampio, si riassume perfettamente nella scelta di modificare l’ultimo dialogo che Eileen ha con suo padre, prima di andarsene. Se nel libro la figlia cerca di sviare il padre da uno dei suoi deliri, dicendogli “qui non ci sono lupi, solo ratti”, dove i ratti sono tutti i personaggi che abbiamo visto affaccendarsi tra le pagine del romanzo (deboli, codardi, abituati a vivere nelle tenebre e nella sporcizia); nel film, svegliatosi annebbiato dall’alcol, il padre le domanda dove stia andando e, capendo che fuggire da quell’ingrato paesino è l’unica opportunità di Eileen per farsi una vita decente, le dà una sorta di benedizione
Il rapporto tra Eileen e Rebecca
Rebecca è di certo una femme fatale: attraverso fascino, intelligenza, e gentilezza si ingrazia Eileen abbastanza facilmente, del resto, la protagonista quasi non riesce a credere che una donna tanto perfetta, che ha studiato ad Harvard e vissuto a Cambridge abbia scelto proprio lei come amica, tanto più che Eileen, un’amica non la ha avuta mai. Nel libro viene sicuramente fuori che Eileen è in qualche modo infatuata di Rebecca, ma questo resta comunque un sentimento platonico, qualcosa di più vicino a quel particolare rapporto che si innesca talvolta nelle amicizie femminili, quando il confine tra ammirazione e amore si fa ambiguo, ma nella maggior parte dei casi nulla viene mai concretizzato. Nel film, invece, l’attrazione si concretizza eccome, tanto che Rebecca stampa un bacio in bocca a Eileen, ed Eileen, nel finale, le dice che la ama.
Ora, può essere che dal 2015 al 2023 ci sia stata un’impennata nella rappresentazione della comunità LGBTQ+ (e per fortuna!) e che quindi si volesse attualizzare la storia o può essere che semplicemente c’è una mercificazione da parte della pop culture verso la comunità LGBTQ+, o che per lo meno ci sia la consapevolezza che è diventato un tema piuttosto modaiolo.
Ciò che penso, al di là delle mode, è che in ogni caso anche qui si sia voluta limare l’ambiguità del rapporto, proponendo una soluzione semplice come quella dell’amore, perché l’amicizia è un sentimento ancora più complesso da indagare: vedere Eileen che si imbelletta e minaccia una donna con una pistola per una semplice amica è un concetto più difficile da elaborare, per uno spettatore o spettatrice abituato agli archetipi hollywoodiani che ci sommergono, rispetto alla certezza che l’abbia fatto per amore.
Il colpo di pistola
Senza spoilerare il finale – anche se poi una storia raccontata con maestria è godibilissima anche essendo già consapevoli del finale, la cultura dello spoiler ha preso piede con l’avvento delle serie commerciali che devono sempre tenere lo spettatore o la spettatrice col fiato sospeso, per convincerli a guardare un altro episodio (anche se se ne parlava già dai tempi di Hitchcock) – a un certo punto c’è un colpo di pistola. Mentre nel libro il colpo parte per sbaglio, quando Rebecca fa scivolare l’arma in un momento di tensione, nel film è stato deciso che dovesse essere Eileen a premere il grilletto.
Si è scelto di contrastare il fato avverso con una presa di responsabilità: la protagonista, che per tutta la durata della pellicola vediamo molto più controllata e repressa rispetto al romanzo, infine, come una pentola a pressione, esplode e prende finalmente una posizione che è solo sua, perché “I was upset”, arrabbiata di asservire il padre, di vivere da puritana, di essere invisibile sul posto di lavoro, e di essersi fatta irretire da una donna che non voleva da lei amicizia, o amore, ma solo una complice.
In definitiva, il film è senza dubbio carino, e trasmette un importante messaggio di emancipazione femminile, eppure l’inclinazione al fornire a spettatori e spettatrici delle chiavi di lettura più dirette, sacrificando l’ambiguità dei personaggi, ha trasformato un libro che mi auspico possa diventare un nuovo classico della letteratura in un film godibile, ma trascurabile. Nutro in ogni caso grandi speranze per l’adattamento cinematografico del romanzo più celebre di Moshfegh, Il mio anno di riposo e oblio, che verrà diretto da Yogor Lanthimos (autore di filmoni come Povere Creature!; Dogtooth; The Lobster; Kinds of Kindess), e a cui la scrittrice prenderà nuovamente parte in quanto co-sceneggiatrice.