Addio Matthew Perry, uno di noi

Un ricordo personale di un personaggio universale. Articolo a cura di Isabella Parodi.

Ogni generazione ha i suoi idoli. Più o meno comprensibili dalle generazioni precedenti o da quelle successive. Io sono una Millennial. Cresciuta con un piede nel ‘900 e l’altro del 2000, tra catodico e digitale, carta e internet, cd e mp3, con una struttura ingenua, nutrita da valori e fantasie romantiche novecentesche poi tradite da un mondo decisamente più complicato di quello in cui ero nata. E guardavo Friends.

Quasi ogni sitcom dagli anni ’60 in poi ha avuto il suo personaggio ironico, tipicamente uomo, che sfrutta il sarcasmo per celare le proprie insicurezze, crivellando il pubblico di battute seguite da quelle fragorose risate da comedy americana. Personaggi divertenti, ma forse anche poco sinceri, a tratti finti, un po’ macchiette. Non Chandler Bing. Non Matthew Perry.

Maestro – come gli altri cinque colleghi e amici Jennifer Aniston, Courtney Cox, Lisa Kudrow, David Schwimmer e Matt Le Blanc – della comicità fisica ed espressiva, il recente scomparso Matthew Perry era un idolo indiscusso. Era inevitabile empatizzare con lui e le irresistibili contraddizioni della sua disarmante “normalità”: immaturo ma affidabile, sarcastico ma affettuoso, irriverente ma profondo, un’anima della festa ingabbiata in un lavoro noioso (quale, poi? L’abbiamo forse capito? LOL), traumatizzato da un divorzio gestito malissimo dai genitori e sfortunato con le donne.

Era uno di noi. Forse è un po’ naive da parte mia associare in modo così netto un personaggio ad una persona reale. Eppure, come il trio Bright, Kauffman e Crane (ideatori e produttori di Friends) ha raccontato al mondo durante la reunion del 2021, nessun altro avrebbe potuto interpretarlo: Matthew era Chandler, Chandler era Matthew.

«Chissà quanto Perry si fosse reso conto dell’enorme aiuto dato al mondo anche “solo” attraverso Friends»

LOS ANGELES, CA – SEPTEMBER 23: Matthew Perry onstage at the Academy of Television Arts & Sciences 64th Primetime Emmy Awards at Nokia Theatre L.A. Live on September 23, 2012 in Los Angeles, California. (Photo by Phil McCarten/Invision for the Academy of Television Arts & Sciences/AP Images)

A volte, però, questo non basta. Quegli eroi così apparentemente intoccabili del cinema, della televisione, della musica, quegli Dei scesi in terra da noi idealizzati in modo del tutto irrazionale restano esseri umani. Chi è esterno allo show business spesso non si capacita che una persona ricca, bella e famosa possa non essere immune alla depressione e, nonostante il successo, a quella gelida, desolante cosa che è la solitudine, la mancanza di amore, il non sentirsi “abbastanza”. L’abbiamo visto accadere tante volte, dal tristemente noto club dei 27 alle baby star bruciate, dalle dive bellissime prosciugate dall’anoressia ai clown tristi come il compianto Robin Williams o Jim Carrey, che ha dichiarato di aver convissuto con la depressione per anni.

Matthew Perry apparteneva a quest’ultima categoria. Lo ha raccontato nella sua recente biografia bestseller Friends, Lovers, and the Big Terrible Thing: A Memoir (in italiano «Friends», amanti e la Cosa Terribile), dove in mezzo a tanti attimi felici e gossip gustosi ci ha anche voluto sbattere in faccia quel sottofondo marcio da lui vissuto durante i decenni di fama.

Una carriera florida, ma segnata dalla dipendenza da alcol, droghe e farmaci, oscillazioni continue di peso, ricoveri in rehab e reparti psichiatrici, che l’hanno portato a dimenticare completamente almeno tre anni di stagioni di Friends. Scrive nella sua biografia: “Devi diventare famoso per sapere che diventare famoso non è la risposta. Nessuno che non sia famoso ci crederà mai.”

Era sobrio da circa due anni quando aveva partecipato alla tanto attesa reunion dell’HBO. Forse provato dalla lunga battaglia contro la dipendenza, ma anche lucido e presente a sé stesso, tanto da confessare per la prima volta davanti alle cinque co-star di aver sofferto di attacchi di panico ogni volta che sul set di Friends – dove i produttori invitavano fisicamente le persone per “misurare” l’effetto comico della sceneggiatura – il pubblico non rideva alla sua performance, per colpa di quel perenne senso di insoddisfazione che è stato concausa dei suoi problemi. Ma Perry era davvero un grande attore, un perfezionista al limite dell’ossessione, grande improvvisatore particolarmente eccezionale (ma non solo) nei ruoli comici, che sapeva fare propri, decostruire e ricostruire, trasformando semplici battute in tormentoni assoluti grazie a geniali variazioni di intonazione, ma soprattutto donando anima a personaggi potenzialmente stereotipati, con acume e intelligenza, e trasformando freddure sarcastiche potenzialmente offensive in qualcosa di leggero, innocuo, persino affettuoso.

È qualcosa che oggi è difficile, se non impossibile fare. La comicità è spesso polarizzata: si ottiene in qualche modo la licenza di offendere e lo si fa fino in fondo, si buttano via i sentimenti e ci si abbandona ad un’irresistibile ironia spietata (penso a certi stand up comedian e serie animate per adulti) oppure si cammina sulle uova del moralismo. La nostra Miss Chanandler Bong oggi farebbe fatica, ad esempio… Si può essere o meno d’accordo. La mia è una considerazione decisamente generazionale e quindi decisamente soggettiva. Ma a prescindere dalle convinzioni e dall’età, in questi giorni stiamo dicendo addio a un amico. E la sua assenza, oggi, per me è la fine di un’era da tanti punti di vista.

Matthew Perry aveva dichiarato in una profetica recente intervista di temere di essere ricordato solo per Friends. Sapeva che al momento della sua morte tutto il mondo avrebbe parlato di Chandler Bing. Amava quel personaggio, ma una volta emerso da quell’interminabile lotta contro le dipendenze sperava davvero di essere ricordato innanzitutto per l’enorme lavoro che da tempo portava avanti per salvare altre persone arenate nella sua stessa condizione. Durante gli anni di riabilitazione Perry era stato portavoce della National Association of Drug Court Professionals e aveva ricevuto un premio dall’Office of National Drug Control Policy della Casa Bianca per aver fondato un centro di recupero a Malibu, in California. Nonostante se ne sia andato troppo presto, è rincuorante sapere che ci abbia lasciati da uomo libero, risolto, svuotato dei suoi mali e consapevole di sé stesso.

Chissà però quanto Perry si fosse reso conto dell’enorme aiuto dato al mondo anche “solo” attraverso Friends. Lo show dei record: 236 episodi, in onda in più di 220 paesi, la migliore commedia televisiva per 6 stagioni di fila, con una media di 25 milioni di telespettatori ogni settimana, guardata nel complesso più di 100 miliardi di volte. Un successo planetario, che ha trasformato la televisione, la commedia e le vite dei suoi addetti ai lavori. Ancora oggi il sestetto di New York rappresenta per i fan un’assoluta comfort zone: perché per quanto una giornata possa fare schifo, guardare un episodio di Friends riesce sempre a strappare un sorriso, far sentire l’essenza dell’amicizia, dare una sensazione di ristoro, di comprensione. Quanti nel mondo si sono sentiti a casa grazie a Friends?

Se solo Perry potesse sentire quanto i fan gli stanno rendendo omaggio in questi giorni. I milioni di post di ringraziamento sui social per aver cancellato tristezza, solitudine e inadeguatezza con le sue battute e le infinite citazioni, e tutti quei fiori e foto lasciati all’angolo tra Bedford Street e Grove Street nel Greenwich Village… Inutile dire che la sua morte lascia una voragine nel mondo audiovisivo, per i fan quanto per le sue co-star, indescrivibilmente scossi e ancora increduli di essere rimasti in cinque. Se potesse vederci, Perry spezzerebbe i piagnistei con un commento sarcastico, perciò tanto vale imitarlo e salutarlo con una carrellata dei momenti più epici della sua carriera (nel video qui sotto). Tanto ci si rivede al Central Perk, giusto?