Barbie non è un film “perfettamente perfetto”, come tutti noi

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Impressioni a caldo su Barbie, uno dei film più attesi dell’anno. A cura di Lorenzo Giannetti. 

Strategia di promozione e branding accattivante ed impeccabile: il Barbie Selfie Generation virale, le scorte di vernice rosa esaurite, i rollerblade e le tutine sgargianti paparazzate a Venice Beach. Un cast azzeccatissimo: in primis i protagonisti “Divi della porta accanto”, mezzo cast di Sex Education per le vibes queer, idoli outsiders come Michael Cera e Will Ferrell.

Una colonna sonora all’altezza con chicche come Lizzo, Charli XCX o le HAIM. Tutto molto bello, tutto molto giusto. A pochi giorni dall’uscita, l’attesissimo Barbie di Greta Gerwig è un successo al botteghino ma è destinato a diventare anche e soprattutto oggetto di discussione ben al di fuori della cerchia dei cinefili.

Fastidiosamente didascalico o intelligentemente pop? Innocua paraculata o arguta trollata? Product placement cammuffato dal filtro d’autore o sbrilluccicante Cavallo di Troia delle istanze anti-sessiste più genuine e radicali?

Probabilmente tutte queste cose messe insieme. Nel bene e nel male, Barbie sembra incarnare pregi e difetti di quella che taluni definiscono quarta ondata femminista e noi vorremmo definire eterna lotta alle disparità di genere. Per una discussione il più possibile non tossica e fuorviante su un film fin da subito così divisivo come Barbie forse occorre fare qualche premessa.

Barbie è un blockbuster pop dai toni surreali, non un documentario d’essai

La prima. Sebbene abbia senso individuare un orizzonte ed una prospettiva comuni, è difficile (se non addirittura inutile o dannoso) pensare che esista un’unica visione monolitica, trasversale e per così dire “esatta” nel modo di affrontare la questione femminista. Al cinema e altrove. Abbracciamo una pluralità di approcci, senza dettare tavole della legge.

Film dopo film, Greta Gerwig porta avanti una propria personale idea di cinema e di femminismo, che non per forza dev’essere presa e/o additata come una “linea di partito”, sia nella sua filter bubble che tra le fila degli haters. Barbie è il tassello rosa di un mosaico più ampio: prendiamolo come tale per favore.

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La seconda. Barbie non è un film di Xavier Dolan, un podcast di Tea Hacic, un documentario di Rai Play o un saggio di Nero Edizioni, è un blockbuster firmato Mattel che prova a giocare nello stesso campionato dei supereroi Marvel. Etichettarlo come una “commercialata” non è tanto una provocazione intellettuale quanto un dato di fatto.

Certamente il film servirà a rilanciare un brand un po’ datato che prova stare al passo coi tempi (e con le vendite), ma la regista prova a sfruttare lo spot ad altissimo budget per plasmare un messaggio in maniera coerente con la sua poetica. Insomma la Gerwig azzarda una sorta di “Mossa Kansas City”, per citare un altro film, Slevin – Patto Criminale: indica da una parte e poi va dall’altra, prova a portare tutti (ma proprio tutti) al cinema con determinate premesse generaliste  per poi piazzare degli “Easter eggs” interessanti e non proprio per tutti.

A volte il colpo va a segno, in alcuni punti la strategia fallisce goffamente: va da sé che il capitalismo è l’unico che se la gode sempre e comunque. La Mattel ha trovato finalmente il modo per vendere più Ken! Ognuno veda il bicchiere come preferisce. Barbie è una metafora dai toni grotteschi e volutamente iperbolici: prendiamolo come un gioco molto serio.

Barbie non è un film “perfettamente perfetto” come le giornate a Barbieland, è furbo e al contempo ingenuo, ma indubbiamente funziona: abbaglia per la messa in scena sontuosa e coloratissima, tiene incollati allo schermo per ritmo e verve, innesca come da copione il dibattito, regala intrattenimento di qualità e grasse risate (con cellulite!), poesia e meme, nonché alcuni momenti davvero epici e memorabili che sarebbe un peccato spoilerare. 

Il film convince quando gioca coi cliché in maniera sovversiva

Ogni tanto però Barbie si prende fin troppo sul serio, avvitandosi su stesso in maniera autoreferenziale: i problemi più evidenti del film affiorano proprio quando invece di portare avanti il registro della pungente satira surreale, l’approccio diventa didascalico e lo sfogo telefonato. Il monologo quasi militaresco infarcito di enfasi da prima serata sanremese risulta meno fresco e più macchinoso: vogliamo meno Fiorella Mannoia e più Emanuela Fanelli, più Fiona che Freeda. 

Il film sicuramente presta il fianco facilmente a chi tuonerà contro la visione stereotipata ai limiti del caricaturale dell’uomo, accessorio o nemico, uni(vo)ca emanazione del patriarcato e della mascolinità tossica, che sia brillo nella simil-confraternita universitaria del covo dei macho-Ken o il mobbing aziendale dei CEO della Mattel.

Not all men, ok, ma è giusto starci: la prendiamo come una ragionevole ripicca e contrappasso per anni di cliché femminili sul grande schermo. Purtroppo però questa scelta toglie tridimensionalità ai personaggi ed al racconto. E infatti diventa un autogol stucchevole anche la narrazione speculare del mondo femminile fatto solo di ideali virtuosi e sorellanza: ma quando mai? Da questo punto di vista, il film smorza sul nascere un discorso potenzialmente esplosivo, appiattendo la narrazione come i fondali scenografici di Barbieland.

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Ovviamente c’è un’altra grande assente in questa equazione ed è la sessualità, ma questo è un altro discorso. Piuttosto, il film strappa applausi oltre che risate, ottenendo la sua sintesi più riuscita, quando punta all’armonizzazione critica dei due poli “opposti”, anche attraverso la provocazione.

Ad esempio, con le donne che abituate a cariche istituzionali possono anche gioire nel “non dover prendere più decisioni di responsabilità”, rivendicando una leggerezza legittima; o gli uomini possono chiedere esplicitamente che sia una donna a “lottare per loro” corteggiandoli, come nella canzone esilarante e a suo modo illuminante “I’m just Ken”: un momento deliziosamente Zoolander, tra i meglio riusciti del lotto, anche perché emerge la fragilità ambigua e amara dietro al sorriso smagliante del personaggio.

Ancora meglio quando si allarga il discorso in direzione di una consapevolezza e quindi ad una lotta che diventi davvero trasversale, popolare, pop: un affaire che riguarda in ugual misura uomo e donna, Barbie e Ken, ma anche qualunque individualità o minoranza. Infinite facce della stessa medaglia.

E le sale cinematografiche gremite di outfit rigorosamente rosa possono paradossalmente ricordarci che l’obiettivo non è l’omologazione in serie ma il suo contrario: trovare il nostro colore e sentirci bene per quello che siamo. Poi continuiamo a raccontarlo sul grande schermo (e non solo) e discutiamone senza filtri, sconti e scorciatoie.

Come il personaggio di Morpheus nel più volte citato Matrix, Greta Gerwig può solo indicarci la porta, a modo suo: sta a noi attraversarla. E magari iniziare eliminando la suddivisione maschi/femmine dagli scaffali nei negozi di giocattoli.