La recensione di Tár, il film diretto da Todd Field e con Cate Blanchett, Mark Strong, Julian Glover, Nina Hoss e Sydney Lemmon.
_di Alberto Vigolungo
Una donna tormentata, divisa tra passione e disciplina. Un dubbio che si fa strada come un tarlo, preannunciando la caduta. La parabola artistica ed esistenziale di una direttrice d’orchestra all’apice della carriera offre una lettura impetuosa di questo nostro tempo rabbioso e superficiale. Cimentandosi nel ritratto di una donna di talento e carisma, ma consumata da demoni insuperabili, Todd Field offre una rilettura contemporanea di Quarto potere, con una Cate Blanchett intensa e vibrante: per questo ruolo, la diva australiana ha aggiunto alla sua collezione un Golden Globe, oltre alla prestigiosa Coppa Volpi.
Tár recensione
Nel contesto iper-competitivo della musica classica, Lydia Tár può vantare tutto ciò che una grande artista aspira ad ottenere: un curriculum di primissimo livello, arricchito da studi di perfezionamento nelle scuole più prestigiose e da esperienze ai quattro angoli del globo, la scrittura di opere ammirate, la direzione delle più importanti orchestre europee e statunitensi.
La composizione di quella che dovrebbe essere ricordata come la sua opera sinfonica più celebre assorbe quasi tutto il tempo che le avanza dall’insegnamento e dalle prove, senza decollare. La sua scalata apparentemente irrefrenabile, riflessa nell’adorazione di un mondo che l’ha eletta ad una delle sue più autorevoli esponenti (e con il quale intrattiene una dialettica ben sintetizzata nel suo rapporto con il collega Eliot Kaplan, in cui il confine tra stima e adulazione è sottilissimo), quindi nei numerosi impegni pubblici cui è chiamata a partecipare (e in cui si trova costantemente a confrontarsi con una figura, la sua, che è già mito, come si osserva nella lunga scena dell’intervista realizzata dal “New Yorker”), è interrotta dal sospetto di avere avuto una certa responsabilità nel suicidio di un’allieva, avvenuto qualche tempo prima, e dall’attrazione per una affascinante e talentuosa musicista russa.
Lydia, che ha sempre avuto il controllo (naturalmente esercitato nella pratica della propria arte, così come nel suo modo di rapportarsi con il mondo), lentamente lo perde: da sinfonia trionfale, la sua vita inizia a rallentare e ad incagliarsi in una serie di oscure idiosincrasie, collassando. Mentre la sua relazione con una violinista si sgretola, il dubbio personale prorompe in un’accusa esplicita nei suoi confronti, fomentando lo scandalo. Abbandonata dalla compagna e ripudiata da quel mondo che l’aveva adorata, dopo aver tentato un disperato e violento ritorno, Lydia Tár è costretta a ripartire da zero.
Dramma seducente e feroce sul potere della massa e sui “cortocircuiti” dell’immagine, Todd Field interpreta in Tár i temi centrali di Quarto potere, inscrivendo il suo contributo in un filone che raggruppa alcuni dei film più significativi di questi ultimi anni, declinati attraverso i generi e i registri più disparati (sul versante della satira sociale, si pensi al caso di Triangle of Sadness).
Rispetto a questi ultimi, il regista americano sceglie la via del dramma intimo, sulla quale dinamiche emblematiche della contemporaneità intervengono in maniera decisiva, determinandone la traiettoria finale; nondimeno, quanto più la scrittura di Field indaga la coscienza della protagonista e i rimandi ad un contesto preciso si fanno sempre più suggestivi, secondo uno stile davvero personale, tanto più si percepisce l’influenza del capolavoro del 1941.
Infatti, il legame con l’opera di Orson Welles non si distingue solamente per una certa affinità tematica, ma si rivela sotto diversi aspetti, dallo sviluppo narrativo allo stile (non è un caso che l’immagine “simbolo” del film, scelta per il poster ufficiale, corrisponda ad un piano ravvicinato della protagonista intenta a dirigere con angolazione dal basso, in puro stile wellesiano, che enfatizza la figura dandole una statura ambigua), passando ovviamente per la caratterizzazione della protagonista, che reca tutta la “prepotenza” di una figura carismatica, interpretata da una Cate Blanchett energica e sublime, capace di definire i contorni di un personaggio controverso e contradditorio.
Ma il fascino tenebroso di un film come Tár passa soprattutto attraverso l’ambiguità dei suoi rapporti. Le “direttrici” relazionali dell’opera sono a lungo due, cui si aggiunge una terza, “esplosiva”, e derivano tutte da una vita professionale da cui la protagonista sembra davvero non poter evadere, mai. La prima è quella che lega Lydia alla sua collega e compagna, con cui vive in un sontuoso appartamento nel centro di Berlino, insieme alla figlia di lei; la seconda riguarda il rapporto tra la musicista e la sua fidata collaboratrice, Francesca Lentini (cui è collegato quello con la ragazza suicida, Krista, e rispetto al quale si può intuire un legame che va ben oltre quello di natura professionale); la terza, collegata al turning point del film, è invece incentrata sul legame della protagonista con la giovane violoncellista Olga, la cui attrazione (fisica e intellettuale) porterà Lydia alla deriva.
Se, indiscutibilmente, è a questo punto che il ritratto dell’artista offre allo spettatore i suoi toni più “scuri”, facendo scivolare la donna in un cortocircuito di ossessioni a base di sesso (Olga) e morte (Krista), il rapporto con l’assistente personale è certamente il più interessante. Diligente, colta, mordace, la figura di Francesca Lentini incarna una duplice valenza: “copia”, forse un po’ meno talentuosa, dell’artista da giovane da un lato, “specchio” in cui si riflette il fantasma di Krista dall’altro. Nel tratto finale della parabola di Lydia, la decisione dell’assistente di allontanarsi da lei assume i contorni di una vera e propria vendetta, la dichiarazione di un odio a lungo celato, represso soltanto dall’ammirazione sconfinata per l’artista che lei stessa sogna di diventare. Sotto questo aspetto, la dissoluzione del potere si arricchisce di una patina oscura e irresistibile.
In maniera quasi paradossale, in un film in cui gli aspetti della vita intima non vengono praticamente mai mostrati e gran parte delle dinamiche è veicolata in un contesto ben definito, la natura di sentimenti tormentati e incerti emerge con una potenza sorprendente: ciò rende Tár un’opera davvero peculiare, in cui i movimenti della musica e quelli della psiche fanno tutt’uno. Lydia Tár è dissidio, profondo e agitato come i mari di Caspar David Friedrich: uno sturm und drang di immagini e suoni sensibilmente connessi, senza retoriche scontate.
Seguendo la parabola di una personalità dirompente (alla cui efficacia espressiva contribuisce decisamente la fisicità della diva Blanchett), segnata da un carisma con il quale sembra esercitare un controllo totale sulla realtà – dentro e fuori il perimetro della pedana – e dai contorni a tratti dispotici (come si osserva nell’episodio della “lezione” impartita ad uno studente gender che si rifiuta di suonare Bach), il film cristallizza i granelli che ne sgretolano il dominio; fino all’accusa che si abbatte come un ciclone sulla sua vita e sui suoi progetti, quando il dubbio che l’aveva già costretta in un serrato esame con la propria coscienza esplode in uno scandalo mediatico nutrito del peggiore giustizialismo, come in tante dinamiche del nostro tempo.
Rappresentazione delle derive del successo, dell’adulazione, del “lato oscuro” del carisma, in una sorta di Quarto potere del terzo millennio, il dramma di Tár abbraccia una dimensione politica forte, richiamando un clima da caccia alle streghe facilmente accostabile alle derive giustizialiste del movimento #metoo (“Se ti accusano, sei colpevole”) e le subdole trappole di un sistema che Field conosce fin troppo bene.
Un’opera che prende posizione, insomma, senza assolvere né colpevolizzare. Ma che invita a riconsiderare il concetto di politically correct e la sua influenza ormai incontrastata, nel discorso pubblico come nell’arte. Il tutto, attraverso un’esperienza cinematografica dall’alto valore immersivo, decisamente curata nella ricerca visiva e sonora e nell’indagine del contesto (sceneggiatura dello stesso Field, il cui talento di cineasta dovrebbe cimentarsi più spesso dietro la macchina da presa).