L’istrionico frontman di Il Teatro degli Orrori e One Dimensional Man torna a calcare i palchi italiani per una serie di date con il suo nuovo progetto dal nome “Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri” in concomitanza con l’uscita dell’omonimo disco di debutto sotto la Garrincha dischi. Ad affiancarlo in questa avventura roboante: Egle Sommacal (Massimo Volume), Fabrizio Baioni (Drunken Butterfly, LEDA) e Federico Aggio (Lucertolas). Intervista a cura di Francesco La Greca.
Tematiche e toni non sono cambiati: lotta di classe, denuncia sociale e suggestioni letterarie rimangono i temi nevralgici della poetica di Pierpaolo e le sonorità sono quelle a lui care del post-hardcore di Chicago degli anni 90. Tra le canzoni del nuovo disco trasuda l’urgenza comunicativa di chi, come Pierpaolo, non la manda di certo a dire.
Brani come “La Guerra del Golfo” o “Il Miserabile” ad esempio sono vividi spaccati sulla realtà
che ci circonda in cui guardare dall’altra parte è all’ordine del giorno.
In “Anita” i toni si addolciscono (solo dal punto di vista musicale) e se è vero che “personale è politico”
anche un fallimento coniugale può essere uno spunto di riflessione sul tipo di società in cui viviamo dove
la “gelosia è una forma d’amore” e il patriarcato dilaga imperante.
In “La città del sole” non manca poi una straziante dedica a Lorenzo Orsetti: il combattente
italiano morto tra le file dei Kurdi confederal-democratici del PKK mentre lottava contro l’ISIS.
In questo nuovo disco sembra che Pierpaolo abbia voluto ricercare l’essenziale sia dal punto di vista
lirico che musicale: tutto è ridotto all’osso, pochi orpelli a veicolare un messaggio che deve essere chiaro e
cristallino. L’effetto è senz’altro convincente, soprattutto in sede live.
A giugno il tour dei Cattivi Maestri ha toccato la città di Torino e l’Hiroshima Mon Amour: per l’occasione
Pierpaolo si è raccontato in una chiacchierata che è stata come un fiume in piena, al crocevia tra scrittori russi,
new wave inglese e i suoi rapporti con la capitale sabauda.
Ciao Pierpaolo, ci troviamo di fronte ad un lavoro ambizioso: copertina dell’artista romanì Vasco Hadzovic, testi al vetriolo e musiche decisamente nervose e tormentate. Mi viene da chiederti “come ti senti all’alba di questa nuova avventura?”
Ha già albeggiato in realtà, abbiamo suonato già una data al Freakout di Bologna dove abbiamo
rotto il ghiaccio. Mi sento rinascere, devo dire la verità. Da un lato mi sento in un momento molto
importante della mia carriera professionale, e dall’altro lato ricalcare il palcoscenico rock mi fa sentire
vivo.
Di palcoscenici ne faccio tanti: teatrali, meta teatrali, a volte cinematografici ma per me non c‘è teatro più
grande del concerto rock: non è un teatro qualsiasi, è un teatro di scena, un teatro della crudeltà; non un
teatro di prosa dove devi stare attento a quello che dici. È un teatro in cui finalmente torni alla vita.
Quando torni a casa a guardare le serie tv o in ufficio a far di conto, in fabbrica a menare bulloni o in
carcere a bestemmiare muori piano piano. Il palcoscenico per me è un momento di vita veramente
vissuta e io attendevo la vita ormai da un paio di anni.
Ti va di descrivermi il tuo approccio alla scrittura musicale e in che modo questo influenza
successivamente la creazione dei testi?
Con il Teatro degli Orrori avevo assunto una strategia che era quasi un protocollo: dicevo a me stesso
“musicalmente tu non scrivi più niente” perché i ragazzi dovevano avere un loro ruolo e sentirsi
pienamente partecipi. In questo caso ho scritto tutto io. Molte parti di chitarra le avevo fatte per invitare
qualcuno a suonare i pezzi ma invitarlo voleva dire “fai quello che vuoi, riscrivi tutto”. Molte cose a Egle
sono piaciute e le ha mantenute e questo mi inorgoglisce, ne sono molto felice. Egle è un poeta delle sei
corde.
Riguardo a Egle Sommacal: i vostri background musicali hanno di certo una matrice comune ma
i vostri percorsi artistici hanno preso “direzioni diverse”. È stato facile conciliare le vostre nature
musicali?
Io ed Egle abbiamo un percorso di cultura musicale molto simile. Egle ha due anni in più di me, abbiamo
ascoltato gli stessi dischi e abbiamo visto gli stessi concerti. Abbiamo visto assieme un concerto dei
Clock DVA ai tempi di “Advantage” che ho scoperto discorrendo con lui qualche settimana fa essere il
nostro disco preferito della new wave inglese e quando dico “disco preferito della new vawe inglese” vuol
dire che è il nostro disco preferito e basta. Quando hai in comune certe affezioni è chiaro che si riesca a
ragionare con una certa coerenza dal punto di vista performativo. Certo è che Egle è un personaggio
difficile, non giochi con Egle, “it’s a serious guy”. Io sono più fanfarone e attaccabrighe di lui, questo è
poco ma sicuro.
La seconda traccia del disco è anche una delle più violente e si intitola “La Guerra del Golfo”. In
questa canzone ti chiedi “Ma che mi frega a me della guerra del Golfo?”. Ti sei dato una risposta?
Ho scritta questa canzone cercando di descrivere la realtà che vedo intorno a me nel segno della
parresia, l’arte socratica di dire il vero di fronte al tiranno. Con la prima e seconda guerra del golfo non
sono morte un milione di persone e nemmeno due milioni, come racconto nella canzone, quello è il dato
ufficiale ma ne sono morte molte di più tra malattie e fame. Ce ne frega qualcosa? No! E allora lo dico e
così facendo dico cosa siamo diventati noi… E io stesso!
Basta girarci attorno, nella canzone popolare e in quella rock possiamo sbilanciarci. “Morte ai poveri” con cui si apre il disco è uno schiaffo ingiurioso, una calunnia al buon senso della gente ma è così che siamo diventati. Non nascondiamoci dietro un dito.
Quando facciamo morire i naufraghi nel canale di Sicilia (e sono decine di migliaia in tanti anni) in realtà
li abbiamo uccisi noi; non io e te ovviamente ma il nostro Stato, le politiche del nostro governo e
dell’Europa, li hanno uccisi le ideologie e la falsa coscienza del neofascismo e del leghismo italiano. Ma
ve li ricordato quando dicevano “affondiamole quelle navi”? Sono stati fatti discorsi inaccettabili ed è
arrivato il momento di dirlo “a piena voce” come direbbe Majakovskij.
A proposito di Majakovskij: nei tuoi testi non è difficile trovare riferimenti a lui o a Esenin. la tua
passione nei confronti della poesia non è un mistero e in passato hai anche affermato come per
te abbia una valenza maieutica. Che rapporto hai invece con il romanzo? Quali sono le tue
maggiori fascinazioni in merito?
Sono due territori narrativi diversi ma il romanzo è cruciale nella vita delle persone. Io sto leggendo “Vita
e Destino” di Vasilij Grossman in modo assolutamente coincidenziale, lo giuro. Mi è stato consigliato dal
mio amico Guglielmo Pagnozzi: un raffinatissimo saxofonista bolognese. Guglielmo mi disse “questo è il
romanzo dei romanzi non puoi non leggero”. Sono corso in libreria e me lo sono comprato. Ne lessi le
prime 50 pagine distrattamente in autobus o in treno, ad un certo punto mi sono accorto che mi stava
terremotando l’anima, che mi stava facendo capire la storia e il senso della guerra. Mi stava facendo
capire qualcosa che non avevo ancora capire inducendomi ad avvicinare il mio sguardo alla vita delle
persone.
Ecco perché Umberto Eco aveva ragione quado diceva che chi non legge romanzi vive una
sola vita: la sua. Fanculo tu e la tua vita! Chi legge i romanzi vive tante vite: le vite degli altri e così
riesce a comprendere il mondo. Il mondo in cui viviamo è la gente intorno a noi, il nostro consorzio
umano.
Nel tuo primo disco solista “Obtorto Collo” c’è una canzone intitolata “La luce delle stelle” dove
parli con un certo trasporto della città di Torino. Che rapporto hai con la nostra città?
“La luce delle stelle” ebbe una genesi molto particolare, stavo pensando ad una persona che non ho mai
conosciuto. Il padre di un mio amico. Un barbone, un clochard scomparso dalla famiglia per anni e poi
riapparso a Torino! Suo figlio si accorse della sua presenza nella stazione di Porta Nuova. Da allora gli
portava sempre qualcosa di caldo ogni sera ma lui non aveva nessuna intenzione di tornare alla vita di
prima. Per tanti essere clochard è una scelta ed è uno straordinario atto di accusa ne confronti di tutti
noi. La vita è un processo di emancipazione dalla schiavitù del sistema di cose in cui viviamo. Il clochard
se ne libera all’improvviso e basta. Poi questo uomo morirà di freddo. Il verso che più amo di quella
canzone è “la luce delle stelle non è che un’illusione” perché tante stelle che vediamo nella Via Lattea
non ci sono più, sono morte. È una canzone che vuole riflettere sull’eterno e sul divino: emerge il mio
retaggio cristiano.
Il mio rapporto con Torino è il rapporto con una grana città europea. Quando vengo a
Torino sento che la Francia e l’Europa sono vicine, c’è poco da fare. È una cosa che senti anche a
Milano, e che non sento da noi in Veneto, chiedo scusa ai miei conterranei ma non riesco ad amarvi: non
amo ogni forma di chiusura nei confronti degli altri, del diverso.
Grazie mille Pierpaolo, un’ultima domanda: cosa consigli a chi verrà a sentirti in concerto
quest’estate?
Di portarsi i tappi per le orecchie! Non portate i bambini, sarà un concerto solo per adulti (ride).