Vivian Maier in mostra a Torino: l’occhio dell’outsider

Si è appena conclusa a Torino la mostra Vivian Maier inedita, che da febbraio a giugno ha
celebrato, nelle sale di Palazzo Chiablese, l’opera di una delle più importanti maestre dello
sguardo contemporaneo, che ha fatto della propria ordinarietà una fonte di ispirazione
inesauribile. Scoperto dieci anni fa, il nome della fotografa americana spicca oggi accanto a
quello di talenti del calibro di Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Diane Arbus.

_di Alberto Vigolungo

Nata a New York nel 1926, Vivian Maier si avvicina alla fotografia da outsider. E gli outsider sono
i soggetti privilegiati dei suoi ritratti, testimonianze di un’umanità alienata, con i suoi enigmi e le
sue bizzarrie; un’umanità non certo abituata a rappresentarsi e a dialogare con la propria immagine,
se non davanti ad uno specchio, frettolosamente, magari prima di uscire la mattina presto
nell’inverno di New York o Chicago.

Per questa distinta donna americana, che dedica quasi interamente la propria vita all’attività di
bambinaia presso famiglie dell’alta borghesia metropolitana, la macchina fotografica rappresenta
innanzitutto il mezzo per soddisfare la propria curiosità del mondo ed esprimere la propria identità.
A noi che ammiriamo i suoi scatti oggi, grazie alla fortuita scoperta di un agente immobiliare
entrato quindici anni fa in possesso del materiale appartenuto alla donna (e suo primo fan), Vivian
Maier porge un notevole spaccato della società in cui ha vissuto: l’America degli anni Cinquanta e
Sessanta del XX secolo, il cui modello ha così profondamente influenzato l’assetto politico,
economico e sociale dell’Occidente. Un’America alla quale ritorna dopo aver trascorso buona parte
dell’infanzia in Francia, dove si era trasferita al seguito della madre dopo la separazione dei
genitori. Lo fa con una Rolleiflex, dal 1951 fedele compagna delle sue lunghe passeggiate e prima
fucina della sua creatività, e poi con una Leica 35 mm, con la quale amplia i confini del proprio
linguaggio sperimentando le potenzialità del formato rettangolare.

Individuato il mezzo, l’intento appare subito chiaro: testimoniare la realtà, afferrare lo spirito del
proprio tempo. Negli scatti di Vivian Maier si ritrova tutto un mondo pienamente depositatosi
nell’immaginario, fatto di impiegati diretti al lavoro, di signore della borghesia in cappello e
pelliccia colte dall’obiettivo in maniera inaspettata, di anziani fermi all’angolo di una strada del
centro. Confondendosi direttamente con l’oggetto della sua ricerca, la fotografa mostra l’altra
“faccia” del Sogno, raccontando soprattutto nei volti delle classi meno abbienti quel microcosmo di
esclusi dal “grande racconto americano”, di quella parte di Paese che non si vede alla televisione,
negli show del sabato sera. È l’occasione a fornire la materia prima dell’ispirazione maieriana. In
questo tipo di operazione, la fotografa si pone sempre sullo stesso piano dei suoi soggetti-
interlocutori, attentamente studiati nell’espressività e nelle movenze prima di essere immortalati. La
freschezza delle sue fotografie scaturisce proprio da questo approccio, da una ricerca di contatto
quasi “fisica” con il soggetto, attraverso un punto di vista sempre ravvicinato.
La mostra Vivian Maier inedita, la prima in Italia completamente dedicata all’opera della fotografa
statunitense, ha esposto un’ampia selezione di fotografie e filmati realizzati per lo più tra gli anni

’50 e ’70, in grado di illuminare una raffinata poetica dell’ordinario, sostenuta da un linguaggio
visivo coerente, a metà tra la “fotografia umanista” di matrice europea (francese in particolare,
quella del ramo materno della sua famiglia) e la street photography americana. Il percorso
espositivo inizia rendendo conto dei primi approcci di Vivian Maier, volti a comporre una
riflessione sull’identità: “tra giochi di specchi e ombre”, la fotografa si immortala in una serie di
autoritratti che giocano con la fisicità e con le deformazioni della propria immagine. In queste
immagini, risalenti ai primi anni Cinquanta, l’esplorazione si fissa sul proprio “io” e sulla relazione
con un determinato contesto.

Come accennato, la poetica dell’ordinario ha come luogo prediletto la strada. Qui la Maier esercita
al massimo la sua ispirazione realizzando ritratti in cui l’istantaneità meccanica del dispositivo è
ben percepibile, senza tuttavia mai compromettere la “freschezza” dell’immagine . L’obiettivo della
Rolleiflex, spesso collocata all’altezza della cintola, immortala così uomini intenti a sfogliare le
ultime notizie, scelti tra la folla metropolitana. Di ciascuno, la fotografa riprende l’unicità di gesti e
sguardi, traendo il riflesso umano “nascosto” dietro lo standard, il carattere singolare nel mare
magnum omogeneo della vita contemporanea. Questa indagine solitaria condotta nel turbinio della
folla urbana non deve però far pensare ad uno studio minimo (o inesistente) della composizione: il
momento del click avviene solo dopo una minuziosa osservazione del soggetto, spesso immortalato
senza posa. La ricerca sulla condizione di una società “a una dimensione” – come avrebbe scritto
Herbert Marcuse di lì a poco – spinge poi la fotografa ad esplorarne i simulacri, nel loro nudo darsi.
Anche in questo caso, il suo occhio riesce a tradurre oggetti di uso comune in immagini che ne
“bucano” la banalità, attribuendo loro un significato svincolato da quello dell’ovvia utilità che li
contraddistingue: e così scarpe, guanti abbandonati, pagine di giornale si offrono come frammenti
di una grande narrazione collettiva.

L’innata curiosità di questa outsider della fotografia trova poi espressione nella dimensione del
viaggio: un viaggio non più dettato dalle vicissitudini familiari che avevano segnato la sua infanzia,
ma una vera e propria vacanza in giro per il mondo che la porta in Asia, Africa ed Europa. È il
1959, un periodo di grande stabilità nella sua vita, segnato dal recente trasferimento in quella che
diventerà la sua città d’adozione, Chicago, e il lavoro presso la famiglia Gensburg, con cui rimane
per oltre un decennio. Imbarcatasi su una nave in partenza dal porto di Los Angeles, nell’estate di
quell’anno si trova in Italia, dove visita Genova e Torino: Vivian Maier documenta queste tappe in
alcuni interessanti ritratti di vita popolare, pur ripiegando in molti casi verso una più convenzionale
fotografia di paesaggio, a tratti “da cartolina”, come si osserva nella serie di scatti torinesi che
rappresentano una Piazza Castello deserta sotto il sole di luglio, o in una veduta del Duomo
incorniciato dalle rovine romane delle Porte Palatine.

Mentre le fotografie di questo viaggio riflettono perlopiù l’occhio del turista, è nel ritratto che il
talento unico di Vivian Maier si rivela in tutta la sua potenza.

L’interesse per il volto umano, predominante nella produzione della fotografa statunitense,
si declina anche nello studio dell’espressività infantile, a cui la mostra ha dedicato un’ampia sezione.
In questi documenti convergono l’esperienza pluridecennale della donna con il mondo dell’infanzia e un linguaggio
visivo coerente: come per le scene di strada catturate fin dai primi anni, Maier compone un
articolato catalogo di situazioni che hanno per protagonisti i bambini da lei accuditi o incontrati
nelle strade di periferia, in immagini talvolta non prive di un fascino misterioso.

 

La sezione finale della mostra ritorna poi sugli scenari urbani cui la Maier si dedica con rinnovato
interesse a partire dalla seconda metà degli anni ’60, dopo aver sperimentato il colore e soprattutto
il medium cinematografico, che costituisce per lei il naturale approdo della sua ricerca.

Nei filmati realizzati alla fine del decennio – e per gran parte di quello successivo – Vivian Maier utilizza le
potenzialità dell’immagine in movimento per riprodurre composizioni corali, nei quali lo spirito
della modernità si manifesta attraverso il flusso della massa, che domina inquadrature fisse.
L’opera di questa outsider della fotografia contemporanea coincide con un momento cruciale della
contemporaneità, un periodo storico di “transizione” in cui tecnologia e società cambiano alla
velocità della luce in un processo che connette direttamente il “secolo breve” al nostro tempo,
proseguendo in parallelo con un’esistenza solitaria e avviata ad un lento declino. L’ultimo tratto
della vita di Vivian Maier riserva però un “colpo di scena” degno di una sceneggiatura
hollywodiana: alla fine degli anni Novanta, i fratelli Gensburg ritrovano la loro ex tata in condizioni
di difficoltà economica, e si impegnano ad aiutarla. Tuttavia, soltanto dopo la sua morte (avvenuta
nel 2009), il nome di Vivian Maier viene sottratto al totale anonimato, e la sua opera destinata alla
giusta considerazione. Mentre la donna trova sostegno materiale nelle persone che aveva a lungo
accudito, il suo successo come fotografa è merito di John Maloof, il quale, dopo essere entrato in
possesso del materiale raccolto dalla donna in oltre quarant’anni ed esserne rimasto affascinato,
opera ricerche su di lei ed entra in contatto con i Gensburg, che ne ricostruiscono la storia.
L’impegno di Maloof è fondamentale nell’allestimento della prima personale dedicata alla fotografa
nella “sua” Chicago, pochi mesi dopo la sua scomparsa, e che riscuote un successo notevole; il
titolo, Finding Vivian Maier, sarà ripreso in un documentario del 2013 che ne consacrerà la fama in
tutto il mondo.
La mostra di Palazzo Chiablese ha contribuito a far conoscere l’opera di una donna che ha espresso
il proprio punto di vista sulla realtà in maniera originale e minuziosa, catturando l’umanità nascosta
tra le pieghe del Sogno americano, con un’attitudine e una sensibilità che accostano le sue
fotografie ai libri di John Steinbeck.