“Licorice Pizza”: l’adolescenza è come una corsa per le strade di Los Angeles

Al nono lungometraggio, Paul Thomas Anderson si cimenta con la sua “età dell’oro”, mettendo in scena un amore giovanile sullo sfondo di una Los Angeles post-Sessantotto. Tra iniziative strampalate ed incontri eclatanti, Alana e Gary si studiano, si inseguono, si prendono e si perdono, nel contesto di un’epoca in cui tutto sembra possibile: un microcosmo vivace e colorato sul quale si riverberano comunque gli echi delle tensioni di quegli anni, dal Vietnam alla crisi petrolifera.


_di Alberto Vigolungo

La California dei primi anni Settanta è un bel posto dove crescere: questo il leitmotiv di una moltitudine di film, serie tv e canzoni che hanno celebrato un mito che non sembra invecchiare, molto presente anche nell’immaginario collettivo di questi ultimi anni. Paul Thomas Anderson è partito evidentemente da qui, quando ha iniziato a scrivere la sceneggiatura di Licorice Pizza, commedia adolescenziale palpitante dello spirito dell’epoca: un mondo cui il cineasta americano non può che guardare con la lente del mito, perché allora troppo piccolo per ricordarlo (nasce nel 1970). La costruzione dell’atmosfera generale del film risente inevitabilmente di un approccio nostalgico-postmoderno, per il quale Anderson attinge a piene mani dalla “mitologia” degli anni ’70, concentrandosi in particolar modo su una delle colonne portanti di questa narrazione: la prepotente affermazione di una libertà nuova e inebriante, condivisa da un’intera generazione di giovani occidentali.


La sensazione di freschezza che coglie lo spettatore fin dalle prime immagini affonda le radici in un’idea ben precisa: lasciar emergere tutte le “vibrazioni” di un periodo storico che ha fortemente contrassegnato la cultura, il costume e la società contemporanea, il suo slancio inedito. A dargli corpo, oltre ad una messinscena sfavillante, certamente la musica, perfettamente sospesa tra i desideri febbrili (Peace Frog) e i sogni grandiosi (Life on Mars) dei personaggi. Tuttavia, se il film riproduce immediatamente un’atmosfera all’insegna di una leggerezza cui Anderson non intende mai rinunciare, le rocambolesche avventure di Alana Kane e Gary Valentine si intersecano con alcune grandi questioni del tempo: la storia di quegli anni fa capolino nelle ombre sempre più lunghe dell’amministrazione Nixon, nell’eco delle proteste contro la guerra in Vietnam, nei piccoli segni di una crisi interna che, a partire dallo “shock” petrolifero, inizia a delinearsi con effetti che coinvolgeranno l’intero Occidente e il suo stile di vita.

In Licorice Pizza i problemi della storia di questo periodo rimangono comunque accennati, anche se un paio di essi irrompe nella trama, aprendo talvolta a spunti narrativi brillanti (si pensi alle implicazioni dell’incontro con un Jon Peters furibondo per la scarsità di benzina con cui fare il pieno alla sua Ferrari Daytona) o incidendo sulla traiettoria dei personaggi, come nel caso di Alana, quando decide di impegnarsi in politica (passaggio che sancisce la distanza massima tra lei e Gary). Pezzi di immaginario e storia si susseguono così in sintonia con il ritmo della pellicola: dal già citato Jon Peters (all’epoca sulle prime pagine delle principali riviste patinate per la sua relazione con Barbra Streisand) si passa così al giovane Robert Wachs e alla sua campagna per le elezioni cittadine del 1973.

«Allegoria colorata di un tempo lontano vagheggiato più che vissuto, il senso di Licorice Pizza risulta indubbiamente collegato ad una componente nostalgica forte, ma non certo banale. Alla base di questo film non è la biografia, ma il sogno: in esso, il regista californiano riporta i sogni della sua adolescenza, componendo una riflessione sulla forza di quel mito che è stato (ed è?) il cinema, rendendo il suo tributo al patrimonio cinefilo di un’epoca»

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Il romance ambientato in questo contesto ribollente assume ben presto i contorni di una “sfida” tra i due per saggiare le rispettive personalità, alla ricerca della propria identità. L’incontro tra Gary e Alana si configura infatti come un confronto serrato di caratteri piuttosto forti, anche se l’orgoglio di lei (di alcuni anni più grande) influenza per gran parte del film le dinamiche del loro rapporto. Lui, nel suo narcisismo un po’ buffo, sa già di amare Alana; lei, pur restando affascinata dall’intraprendenza di Gary (che la coinvolge in numerosi progetti), prende tempo: in questa distanza, ora minima, ora più accentuata, risiede l’”anima” del racconto, e le sue suggestioni. Nel mezzo party, contest promozionali più o meno strampalati, incontri clamorosi, secondo le tipiche dinamiche narrative del teen movie.

Pur nelle loro differenze, entrambi i personaggi sono suscettibili al mito del successo, nelle forme che il Sogno americano assume in una città come Los Angeles: musica e cinema (molte sono le citazioni di film e divi, che contribuiscono a definire in maniera nitida l’immaginario nel quale Alana e Gary sono immersi, e a cui il regista intende rendere omaggio). Al seguito di Gary (che vanta alcune esperienze come attore in commedie per ragazzini e spot pubblicitari), Alana sperimenta il fascino dello stardom, attirando con la sua bellezza le attenzioni di cineasti più o meno quotati; un mondo vano, fatto di promesse che svaniscono con la stessa facilità con cui si beve un drink, dal quale la giovane prende le distanze per rivolgersi alla politica, prima di restare nuovamente delusa e di tornare da Gary.

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A quel mondo Paul Thomas Anderson rende il suo tributo, manifestando in esso un certo intento caricaturale: emblematica, in questo senso, la scena dominata da due vecchi leoni come Tom Waits e Sean Penn, perfettamente a loro agio nei panni di divi maledetti, forse già avviati al loro viale del tramonto. Qui la star matura, nella sua “follia” esibizionista, trascina Alana nell’improbabile remake di una scena di un suo film, sotto gli occhi degli avventori di un locale chic a due passi da Hollywood; una raffigurazione del divismo (e della sua crisi) che tocca poi gli estremi della parodia nel personaggio di Jon Peters, irresistibilmente interpretato da Bradley Cooper in alcune scene che rimandano direttamente all’affresco tarantiniano di C’era una volta a… Hollywood (2019).

Mantenendo un ritmo piuttosto serrato, nei dialoghi come nell’azione, il tempo di Licorice Pizza è un tempo squisitamente “emotivo”, del tutto aderente alle oscillazioni dei suoi due protagonisti, costantemente coinvolti in una sfida con se stessi e la propria immagine. L’adolescenza è infatti per Anderson una corsa alla conquista del sé, imprescindibile per imbastire il proprio rapporto con il mondo. L’autore californiano ne celebra l’innocenza, ma anche lo slancio verso il futuro, l’urgenza di manifestarsi. Le scene di corsa finiscono non a caso per diventare il vero “marchio” visivo del film: interessante notare come la rappresentazione della corsa si adegui alla traiettoria del legame che unisce Alana e Gary: se, nei primi momenti della loro frequentazione e oltre, i personaggi sono spesso immortalati insieme in sfrenate corse “parallele”, seguite da carrellate laterali o shot frontali, l’ultima sequenza del film mostra i due personaggi intenti in una corsa solitaria, nell’oscurità notturna, mettendo in scena un ricongiungimento costruito attraverso il più classico dei montaggi alternati. L’evoluzione del rapporto tra i due viene rimarcata da questa “rottura” nella rappresentazione, che certifica il passaggio da una fase ingenua e spensierata ad una più consapevole, cui i ragazzi approdano dopo un periodo di separazione. Lo schema narrativo del boy-meets-girl trova così pieno compimento, in una parabola che si concretizza, in questa suggestiva sintesi visiva, nel suo passare da corsa “insieme” a corsa “incontro”.

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Dunque, come “leggere” il nuovo film di P.T. Anderson? Quale posto riservargli nella cinematografia di uno degli autori più ammirati nell’attuale panorama internazionale?
Allegoria colorata di un tempo lontano vagheggiato più che vissuto, il senso di Licorice Pizza risulta indubbiamente collegato ad una componente nostalgica forte, ma non certo banale. Come già evidenziato, alla base di questo film non è la biografia, ma il sogno: in esso, il regista californiano riporta i sogni della sua adolescenza, componendo una riflessione sulla forza di quel mito che è stato (ed è?) il cinema, rendendo il suo tributo al patrimonio cinefilo di un’epoca. Il valore di Licorice Pizza risiede dunque nel suo configurarsi come sentito omaggio all’immaginario creato dal cinema, alle sue storie, le stesse che condividono i suoi giovani protagonisti; un omaggio che si estende anche a livello di struttura, secondo uno degli schemi narrativi di maggior successo nella storia della commedia classica hollywoodiana.

Sotto questo aspetto, l’operazione di Paul Thomas Anderson pare accostarsi a quella intentata da Quentin Tarantino nel suo ultimo film (del personaggio di Bradley Cooper si è già detto), anche se il lavoro del regista californiano non sconfina mai nel territorio della parodia, lasciando prevalere maggiormente una vena nostalgica. Soffermandosi ancora su questo parallelo, risulta interessante notare come, in linea con Tarantino, anche l’Anderson di Licorice Pizza non si interessa ad un’idea “forte” di trama, rinunciando tuttavia a quella moltiplicazione delle linee narrative che caratterizza i film del cineasta di Knoxville. Anderson preferisce lavorare attorno ad un unico nucleo, che prende forma a partire dalla sua personale riserva di immagini e suggestioni. Un sogno sull’adolescenza, un po’ folle, un po’ innocuo: come una pizza alla liquirizia.