4 album di metal tedesco da riscoprire in attesa del nuovo disco degli Helloween

È sempre il momento giusto per rispolverare delle pietre miliari di musica estrema Made in Germany. A cura di Paolo Carrone. 

Il metal tedesco ha regalato al pubblico album importanti per l’evoluzione del genere; alcuni di questi sono universalmente riconosciuti come pietre miliari, da Breaker degli Accept a Pleasure to Kill dei Kreator, passando da Imaginations from the Other Side dei Blind Guardian e Livin’ in Histerya degli Heavens Gate. Keeper of the Seven Keys I&II sono, da molti, considerati i due capolavori degli Helloween.

Il rientro del cantante Michael Kiske e del chitarrista/cantante Kai Hansen, creando un’insolita formazione a sette, ha dato come risultato un album che uscirà il 18 giugno 2021.

In attesa di questo album-evento, andiamo a rispolverare quattro album generalmente ritenuti secondari all’interno delle relative discografie delle band, cercando di portare alla luce le particolarità di ognuno di essi.

Edguy – Tinnitus Sanctus (2008)

Il precedente Rocket Ride (2006) segnò una svolta nel sound degli Edguy, portandoli ad approdare sulle sponde sonore dell’hard rock e ad optare per testi più introspettivi rispetto a ciò che si poteva trovare in lavori come Theater of Salvation o Hellfire Club. Tinnitus Sanctus si allontana ancora di più dal metal europeo a cui gli Edguy avevano abituato i propri fan, ma non in una maniera netta e costellata di topoi stilistici; la capacità della band di trovare soluzioni originali giustapposte a schemi e canoni classici rimane intatta. Il primo esempio si ha già con l’opener Ministry of Saints: un riff rock con tanto di organo che segue, ma suonato con accordatura drop, totalmente estranea alla tipologia di riff.

L’alternanza tra brani prettamente metal e brani hard rock è regolare lungo tutto l’album e la sensazione che si stia assistendo ad una reale evoluzione stilistica della band diventa evidente con il brano Wake Up Dreaming Black: melodie che ricordano i vecchi dischi del quintetto tedesco sono seguite da strofe dove le chitarre sono pressoché assenti, lasciando spazio a voce, basso e batteria, con quest’ultima impegnata nell’eseguire ritmi uptempo tipici del glam rock americano. Ma sono sempre gli Edguy e questo viene ribadito con l’ironia del brano The Pride of Creation – il tema sono gli animali più strani che siano derivati dalla creazione – e con l’epicità di Speedhoven. Se si aggiunge anche il dettaglio degli amplificatori di stampo british utilizzati per la registrazione, ci si trova di fronte ad un album che all’apparenza sembra immediato, ma che nasconde svariati dettagli che presentano gli Edguy sotto una nuova luce, forse leggermente più cupa, ma che di sicuro instilla curiosità…

Helloween – Rabbit Don’t Come Easy (2003)

L’album dei tre batteristi: Mark Cross, Mikky Dee e Stefan Schwarzman. L ’album del nuovo chitarrista: Sascha Gerstner al posto di Roland Grapow. L’album dopo The Dark Ride. Rabbit Don’t Come Easy è al contempo un album di grandi cambiamenti e di ritorno al passato. Se The Dark Ride risultava quasi sperimentale sia nel sound che nella composizione dei brani, questo album sembra voler tornare alla gloria del coro “happy happy Helloween” e sin dalle prime battute di Just a Little Sign, questo intento è evidente: allegro, aperto, veloce e facilmente memorizzabile, insomma un brano da concerto – che stranamente non viene quasi mai proposto. Il suono è compresso, gli strumenti schiacciati al punto che sembra di essere tornati alla loudness war degli anni ’90, ma il tocco del produttore Charlie Bauerfeind rende l’ascolto più easy e meno estremo, riuscendo ad amalgamare o a separare gli strumenti in base alle necessità di ogni brano.

Al nuovo entrato Gerstner viene lasciato subito spazio compositivo: è infatti sua opera uno dei riff più accattivanti dell’intero disco, ovvero quello di Open Your Life. L’album mantiene un ritmo elevato per tutta la sua durata e anche l’inserimento centrale di Don’t Stop Being Crazy non rallenta il ritmo.
Una curiosità che non è mai stata chiarita riguarda Never Be A Star: il tema iniziale richiama fortemente Perfect Gentleman (Master of the Rings, 1994), ma nonostante sia stato domandato alla band se le due canzoni fossero collegate, nessuno ha mai svelato l’arcano che per i più romantici rimarrà un easter egg. La saga del perfetto gentiluomo sarà ripresa ufficialmente nel 2010 con Who Is Mr. Madman (7 Sinners). Nonostante i cambi di formazione e l’intenzione di riprendere vecchie sonorità, quest’album è tutto meno che banale e vale la pena rispolverarlo.
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Kreator – Hordes of Chaos (2009)

2009 o 1986? I brani hanno lo stile di composizione del 2009, ma il sound e le tecniche utilizzate per ottenerlo urlano 1986 a gran voce. Registrazione in presa diretta – con pochissime sovraincisioni – su nastro analogico non venivano utilizzate dai Kreator, appunto, dal 1986 per l’album Pleasure to Kill. Ma la formazione non è più la stessa; ormai da 9 anni il ruolo di chitarrista solista è stato affidato al finlandese Sami Ylo-Sirniö che, sin da Violent Revolution (2001) ha portato all’interno dei Kreator una vena melodica che ha rivoluzionato il loro sound. Hordes of Chaos si può posizionare a metà tra Violent Revolution e Pleasure to Kill dato che non abbandona le armonie del primo, ma va a riprendere la brutalità del secondo, accentuata ulteriormente da quei metodi di registrazione essenziali. Il fatto che non sia un album di revival stilistico è evidente sin dalla title-track Hordes of Chaos che propone un riff in una tonalità maggiore, impensabile per i Kreator degli anni ’80. I brani scorrono con la solita furia a cui la band ci ha abituati, alternando canzoni veloci e cadenzate; Escalation e Destroy What Destroys You, up-tempo e mid-tempo, chiariscono che il revival è solo sonoro, non compositivo.

Il brano forse più interessante di tutti è To the Afterborn: per i primi 3 minuti circa ha una struttura classica arricchita da un’armonia atipica per i Kreator – tra il bridge e il ritornello si trova un insolito cambio di tonalità una quinta sotto – che dà un respiro inaspettato al brano; l’ultimo minuto e mezzo è, invece, all’insegna del thrash con, di nuovo, delle particolarità non indifferenti come, per esempio, il fatto che in questi 90 secondi ci siano sei sezioni differenti di cui solo una viene ripetuta.
In totale il brano vanta dodici sezioni, mostrando, così, il lato più progressivo (non progressive) della band tedesca. Questo ritorno alle origini sonore parallelo all’evoluzione continua della composizione fanno di Hordes of Chaos un album che più di un motivo per essere ascoltato e riascoltato anche per poter comprendere a fondo il decennio di svolta che i Kreator hanno vissuto.

Rage – Welcome to the Other Side (2001)

Con la conclusione della trilogia orchestrale composta da Lingua Mortis, XIII e Ghosts si chiude un capitolo della carriera dei Rage. La band ritorna, dopo 8 anni, ad una formazione a tre con il nuovo entrato Mike Terrana alla batteria e Victor Smolski alla chitarra, già ospite, produttore ed ingegnere del suono su Ghosts (1999). Le variazioni di lineup sono state una caratteristica costante nella storia della band, ma questo non ha mai influito sulla qualità del materiale proposto e Welcome to the Other Side conferma il trend. Per la prima volta i Rage possono annoverare tra le loro fila un virtuoso della chitarra: Victor Smolski è figlio di Dmitry Smolski, celebre compositore bielorusso, ed iniziò lo studio della musica all’età di 6 anni seguendo una formazione classica e dedicandosi, successivamente al metal.

L’impatto dei due nuovi membri è subito evidente: l’intro Trauma e la successiva Paint The Devil on the Wall mettono subito in mostra le abilità compositive ed esecutive dei due musicisti, senza però snaturare l’anima dei Rage che da sempre è ricca di melodie dolci e raffinate, proprie dello stile di Peavy Wagner – i ritornelli di The Mirror in Your Eyes e Deep in the Night rimandano, rispettivamente, ai tempi
di Trapped! (1992) ed End of All Days (1996).
Le 4 parti che compongono Tribute to Dishonour (R.I.P, One More Time, Requiem e I’m Crucified) mettono in luce l’apporto classico di Smolski e sembrano essere la naturale prosecuzione delle trilogia orchestrale sopracitata, con la differenza che ricoprono un ruolo più piccolo all’interno dell’album. Il sound è molto particolare: ogni strumento ha il suo spazio e non ci sono momenti di confusione, ma sembra che tutto l’insieme sia stato spinto indietro lasciando solo la voce davanti. Il risultato è a tratti spiazzante ed è comprensibile che possa non essere apprezzato da tutti. Indubbiamente però l’inizio dell’era Wagner-Smolski-Terrana – forse la migliore epoca Rage in assoluto – è segnata da questo album lungo, ricco, complesso e da ascoltare più volte in modo da poter cogliere tutti i dettagli che lo caratterizzano.

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