In “Morte e rinascita. Oltre la paura”, edito da Edizioni Mediterranee, Lama Ole Nydahl ripercorre, con perizia di particolari e compassione, “l’arte del morire”, per accogliere la consapevolezza e promuovere la felicità di tutti gli esseri.
_di Roberta Scalise
Sappiamo che inevitabilmente si verificherà, ma mai nessuno ci ha spiegato come prepararci spiritualmente al suo sopraggiungere. La morte, ossia l’evento più prevedibile e, al contempo, maggiormente temuto della nostra esistenza, atterrisce ciascuno di noi. Ma sussiste un modo per accoglierla con relativa serenità e predisporvisi al meglio?
Secondo Lama Ole Nydahl, sì. Il maestro buddhista danese – uno dei pochi occidentali qualificati come “Lama” (“insegnante”, in tibetano) e tra i massimi esperti del processo del morire – ne esplica, infatti, i metodi in “Morte e rinascita. Oltre la paura – Saggezza buddhista sull’arte del morire”, edito dai tipi di Edizioni Mediterranee con la traduzione di Marzia Salini.
Punto di partenza della riflessione presa in esame è il seguente: «Ciò che abbiamo passa, e ciò che siamo – il principio che sperimenta tutte le cose – continua a vivere, al di là di spazio e tempo. La morte, come la vita, è solo un passaggio verso un altro stato di coscienza». Ne consegue, quindi, che un modo ottimale per interiorizzare tale consapevolezza consista nel dedicarsi alla meditazione fin da quando ne riconosciamo l’importanza, dal momento che grazie a essa è possibile «riconoscere la propria mente», affrancarsi dalle «emozioni disturbanti» e sperimentare «le qualità atemporali della mente stessa».
Precisa, appunto, Lama Ole che «la mente è per propria natura uno specchio radioso, tuttavia questa sua luminosità risulta offuscata da veli derivanti da esperienze precedenti e dal background culturale più o meno umano in cui si è nati grazie al proprio karma». Mediante la pratica della meditazione, quindi, l’individuo si apre alle intuizioni del «qui e ora» e comprende «l’impermanenza di tutte le cose», con il loro sorgere e passare perpetui, e le dinamiche della «legge di causa ed effetto», per cui nulla accade per caso ma, al contrario, è determinato da azioni e attitudini precedenti.
Crediti: Michela Bacchione
Un percorso spirituale che punta alla liberazione (quando cessa l’illusione di un ego separato da tutto il resto) e all’illuminazione, quando raggiungiamo lo stato di gioia insurclassabile, al di là della sofferenza (tipica del ciclo delle reincarnazioni). Oltre a consentirci di vivere un’esistenza improntata alla compassione e alla saggezza, tuttavia, tale cammino può garantire anche una «giusta predisposizione» sia nel processo della morte, sia dopo di essa. A questo proposito, perciò, interviene il “phowa”, ossia la pratica tibetana finalizzata al morire in maniera consapevole.
Ripercorrendo minuziosamente le fasi che ci allontanano dal nostro corpo e i metodi con cui accompagnare noi stessi e gli altri alla «chiara luce dello stato di verità», dunque, l’autore tratteggia la strada che ci condurrà alla conoscenza delle nostre intime potenzialità, consentendoci, inoltre, di abbracciare i benefici dell’esperienza meditativa consigliata – «unica nel suo genere per velocità, applicabilità e forza» – non solo nel momento del trapasso, ma anche nella nostra quotidianità.
Il volume, arricchito da racconti della morte di alcuni maestri “realizzati”, schemi di sintesi, meditazioni e un glossario finale, offre, così, a ciascuno di noi la preziosa opportunità di liberarci da ogni genere di attaccamento materiale – compreso quello al nostro corpo e alla nostra vita – e di divenire sempre più consapevoli che «esiste qualcosa che non è un oggetto, al di là del tempo, e che per sua natura è massima gioia e vive ogni cosa interiormente ed esteriormente: la nostra mente, appunto».
Ne abbiamo parlato con la traduttrice ufficiale di Lama Ole in Italia Marzia Salini, che ci ha svelato curiosità e risvolti del testo e della pratica buddhista.

Partiamo dal processo di traduzione: come ti sei preparata e quali sono state le sue fasi principali?
È avvenuto come sempre: meditando. Ho un rapporto molto stretto con Lama Ole: ho avuto la fortuna di incontrarlo molto tempo fa, appena ventenne, e per più di metà di questa mia vita sono stata sua studentessa, sua traduttrice e su sua richiesta, negli anni successivi, anche insegnante di Dharma.
Conoscevo già, quindi, gli insegnamenti contenuti nel libro, e avevo avuto la possibilità di praticarli molte volte e tradurli oralmente durante numerosi corsi. Naturalmente, però, bisogna sempre pensare che ciò che si impara dal proprio maestro si abbina a ciò che si assimila dalle esperienze personali. Pertanto, mi sono preparata al processo di traduzione cercando di creare le condizioni per avere il tempo, la tranquillità e la possibilità di lavorare sul libro, mettendomi, poi, nella predisposizione mentale di chi riceve un enorme regalo.
Mi sono lasciata andare agli insegnamenti ricevuti, alla nuova stesura e a Lama Ole seduto nel mio cuore, che mi manteneva “vibrante”.
Come e quando hai incontrato Lama Ole?
Quando ho conosciuto Lama Ole avevo venti anni: molto tempo fa! A quei tempi, ero in una sorta di “interregno”: mi ero appena diplomata, ma mi ero presa un po’ di tempo per viaggiare prima di andare a Bologna a studiare al DAMS.
Dopo essere stata a Londra e in Danimarca, ho conosciuto Lama Ole nel corso di una conferenza a Brescia, presso il suo primo centro in Italia. All’epoca, avevo il desiderio di approfondire meglio il buddhismo, ma ero spaventata da tutte queste letture così profonde e intellettuali: io volevo un’esperienza, qualcosa che non fosse ostacolato, bensì diretto, coinvolgente, entusiasmante. Non volevo più leggere.
Quando ho incontrato Lama Ole, il suo aspetto e il suo modo di parlare e di comportarsi con sua moglie Hannah mi sono apparsi estremamente affascinanti: così, c’è stata una scintilla grande come un fulmine!
Il tutto, però, grazie a tuo padre.
Sì, è stato lui a suggerirmi di andare a questo incontro. In quei giorni ero in visita dai miei genitori e lui, che conosceva il mio interesse per il buddhismo, dopo aver letto un annuncio sul giornale – in epoca pre-Internet! – mi ha riferito la data della conferenza e mi ha suggerito di andarci. E io mi sono detta: perché no?
È andata così. Probabilmente perché avevo maturato un anelito di apertura, conoscenza ed esperienza tale da essere pronta. Lama Ole, essendo un uomo laico, sposato e “yogi”, ha fatto subito presa su di me, che provenivo da anni selvaggi e irrequieti. Di qui, c’è stato un grande riconoscimento e lui ha immediatamente chiesto che traducessi per lui: io ero un po’ incredula, ma tutto è iniziato in questo modo.
Come ha compreso che tu fossi la persona giusta per tradurre le sue parole?
Credo dal mio modo di essere molto “trasparente”: durante la conferenza, eravamo in una stanza e c’era già una persona che stava traducendo, ma io devo aver fatto qualche sguardo strano, perché lui se n’è accorto e mi ha, poi, chiesto come avrei tradotto io quel passo.
In questi anni al suo fianco, ho imparato come, sebbene ci siano sempre migliaia di persone ai suoi incontri, Lama Ole sia molto attento alle reazioni di tutti i presenti. Quel giorno eravamo una quarantina, e, dopo essersi accorto della mia titubanza, ha espresso la volontà di sentire in italiano come avrei reso quella frase.
E così si è creato un rapporto professionale e umano.
Assolutamente sì. Ma più umano e spirituale che professionale, perché tutte le persone coinvolte nei suoi centri operano su base volontaria. Lama Ole mi conosce meglio di me stessa, lo sento molto presente nella mia vita ed è consapevole di me, dei miei progressi e dei miei stati mentali. Non lo sento mai separato da me: il nostro rapporto è come quello tra un francobollo e una lettera!
Qual è l’insegnamento più importante che ti ha tramandato?
Mi ha insegnato la possibilità di essere veramente libera. Libera, al di là delle percezioni abitudinarie della mente e nel comportamento quotidiano. Mi ha insegnato a mettere davanti gli altri, sempre e comunque, che non c’è verità più alta della gioia e che tutto è un sogno, quindi tutto è possibile.
Crediti: Michela Bacchione
Quello di Lama Ole è un approccio laico. In che cosa consiste questo modo di vivere il buddhismo?
Lama Ole appartiene a una stirpe molto particolare, quella degli “yogi”, tipica della pratica tantrica e dei livelli superiori del buddhismo, ossia di quelli che fanno riferimento a una condizione della mente definita “Grande Sigillo” o Mahamudra. Questi ultimi sono gli insegnamenti più alti, perché partono da un principio incredibilmente semplice: l’identificazione stessa con il principio buddhico che è inerente a ognuno di noi.
Ci sono persone che preferiscono percorrere un itinerario graduale – partendo da causa-effetto, saggezza e compassione –, quindi costruiscono la casa a partire dalle fondamenta. Coloro che arrivano alla pratica del Vajrayana, invece, sanno già di essere dei Buddha, ma sanno che devono ripulirsi per ritrovare quella natura di sé. Il suo approccio, quindi, è stato sempre laico perché sa che siamo persone “normali”, istruite, progredite a livello tecnico-scientifico e che – per noi – i rituali lasciano il tempo che trovano.
Gli insegnamenti impartiti si adeguano, perciò, a persone normali che hanno una famiglia, figli, un lavoro, una vita mondana. È il cambio di visione che conta: è vedere che le cose vanno bene così come sono, e che siamo noi che dovremmo riconoscerlo. Ciò che è importante è individuare che in ogni essere senziente c’è un principio di consapevolezza che ha le caratteristiche della gioia pura, dell’amore, dell’impavidità e della compassione attiva, e che ogni persona possiede un potenziale che può essere sviluppato.
Dunque l’approccio laico, libero dai rituali e dai precetti culturali, è più veloce, e non ti porta a dover fare delle rinunce, che spesso non saremmo comunque in grado di fare, perché abbiamo una vita e dobbiamo portare il nostro contributo al mondo. E se una persona non è felice non può essere d’aiuto.
Ha incontrato delle critiche?
Molte, soprattutto nei primi anni della sua attività in Occidente. Il suo modo non è sempre stato gradito, ma, piano piano, grazie al duro lavoro che lo distingue e all’impegno costante, ha ottenuto consenso tra i suoi migliaia di allievi – e non solo.
Tornando al lavoro di traduzione: quali sono state le difficoltà maggiori del processo e quali, invece, le sorprese inaspettate?
Fin dal primo momento in cui Lama Ole mi ha affidato la traduzione dei suoi insegnamenti, mi ha spiegato come fosse suo profondo desiderio che io fossi in grado di sviluppare, o comunque utilizzare, una terminologia “specifica”, che non utilizzasse termini propri di altre religioni, dal momento che i significati, pur essendo le parole identiche, sono diversi.
In questo senso, ho avuto molto tempo e molti libri per prepararmi e svolgere il lavoro richiesto dal Lama. E, soprattutto, il nostro lavoro è condividere gli insegnamenti in modo che le persone possano capirlo, senza tecnicismi e difficoltà eccessive. È per questo che Lama Ole desidera un linguaggio buono, alto, ma che possa offrire la possibilità ai lettori di comprendere da quale porta possano entrare in questi insegnamenti.
Qualche termine, in particolare, che ha creato un po’ più di criticità?
Nella traduzione dal tedesco – come in questo caso –, direi di no. In inglese, invece, ci sono alcuni termini “ostici”. Il primo è “bliss”, che, in italiano, non può essere tradotto con “beatitudine”, perché rimanderebbe inevitabilmente ad altri significati. Per questo motivo, Lama Ole ha deciso di tradurlo con “gioia”.
Un’altra parola complessa è “blessing”, “benedizione”: quel momento in cui ti senti assolutamente accolto, quella sensazione di caldo e di “casa”. Che, però, non si può tradurre in nessun altro modo.
Un altro termine particolare è, poi, “impavidità”, che non indica un semplice “senza paura”, ma il concetto di “aver superato tutte le paure”. Ed è questo che, parlando con Lama Ole, ci è sembrata la scelta più consona: un sostantivo che ha in sé non solo il coraggio, ma anche quel principio di consapevolezza proprio di chi ha già superato esperienze complesse, ma è pronto per fare un salto di fiducia.
Parliamo, invece, del tema portante di “Morte e rinascita”: il “phowa”. Che cos’è?
La meditazione del morire consapevolmente fa parte di un gruppo di sei insegnamenti molto particolari, chiamati “I sei yoga di Naropa”. Si tratta di una pratica molto specifica e avanzata e non viene insegnata spesso. È necessario che si riuniscano tutta una serie di condizioni perché venga trasmessa e comunque solo un insegnante che l’ha realizzata può passarla al praticante. Sono stati i grandi detentori del lignaggio Karma Kagyü stessi a chiedere a Lama Ole di renderla maggiormente accessibile, anche alle persone che non avessero ancora avuto modo di raggiungere un livello di pratica che definiremmo elevato. Lui ha puntualmente fatto come richiesto dai suoi stessi insegnanti e per circa venticinque anni ha trasmesso il phowa facendo corsi in tutto il mondo.
È difficile calcolare il numero esatto di persone che hanno potuto imparare questa pratica grazie alla sua generosità – a occhio e croce siamo sulle 150.000 persone circa. Sul livello quotidiano potremmo tranquillamente dire che facendo il phowa la paura più grande di tutte scompare, e impari a vivere la tua vita al meglio. In gergo si dice che c’è una vita prima e una dopo il phowa.
Che cosa consigliare, quindi, a chi vorrebbe avvicinarsi a tale insegnamento?
In primis, di leggere il libro, e di farlo più di una volta: al suo interno, infatti, vi è un linguaggio diretto, semplice, comprensibile e, soprattutto, molto compassionevole, perché la morte è una cosa che riguarda tutti, ed è nostro diritto arrivarci preparati. È questa la gioia che offre il testo: insegnare al lettore che si può arrivare a essa pronti, lasciandosi alle spalle un bagaglio di negatività e atteggiamenti non buoni. E raggiungendo, così, la liberazione.
Ciò che posso consigliare alle persone interessate è, quindi, di maturare dentro di sé l’auspicio di incontrare il maestro adatto a loro – che possa trasmettere questa pratica – e, non appena ripartiranno, di seguire i centri di Diamante in tutta Italia (in appendice al libro, si trovano gli indirizzi e i riferimenti necessari, ndr).
In questo ultimo anno, poi, la morte è stata particolarmente presente.
Esatto. Questo è il momento giusto per orientare la mente su quello che ha veramente un valore, in cui abbiamo la possibilità di dedicare del tempo a noi stessi, farci un regalo e scoprire che cos’è quel principio di consapevolezza che si trova al di là dell’andare e venire, delle malattie e della pandemia. Dobbiamo concentrare la nostra attenzione e utilizzare tutto ciò che abbiamo per divenire più consapevoli.
Com’è cambiato il tuo rapporto con la morte, dopo il “phowa”?
Fin da piccola, ho sempre posto molte domande sulla morte, che ovviamente non trovavano risposta (o erano, ogni volta: “Dio ha voluto così” e affini). E sebbene fossi soprano nel coro della chiesa e amassi molto cantare, ho smesso di frequentarla a 11 anni, perché le mie domande non andavano mai bene.
Non mi sono stupita, quindi, che, dopo un’adolescenza trascorsa alla ricerca di significati profondi e verità, il mio insegnante fosse Lama Ole, in qualità di detentore di questi insegnamenti. Più volte, nella vita, ho, infatti, avuto modo di vedere come questi insegnamenti lavorano sulle persone e sul loro livello di consapevolezza. Sono, quindi, molto contenta che il mio maestro fosse Lama Ole, perché ho avuto subito ciò che volevo. Ed ero giovanissima: il “phowa” l’ho ricevuto a 21 anni.
Ciò che Lama Ole mi ha dato in tutti questi anni è impareggiabile: il maestro funge da specchio alla tua stessa consapevolezza, ti mostra le tue qualità, ti ispira a far meglio e chiarifica determinati concetti, facendo scomparire i veli.
Ci sono stati dei momenti in cui hai avuto delle titubanze?
Mai, mai.
Obiezioni? Ne hai mai ricevute?
In passato, sì, in particolare relative alla traduzione di alcuni termini. Ma non mi hanno mai spaventato, solo intristito, semmai, perché ero sicura che stessi facendo del mio meglio e, soprattutto, che stessi facendo quello che desiderava Lama Ole. Né più, né meno.
Lama Ole parla moltissime lingue: come mai ha deciso di scrivere in tedesco?
Perché la maggior parte dei suoi studenti, a livello numerico, risiede nell’Europa centrale, e la Germania, soprattutto all’inizio, è stata un elemento trainante della sua attività, con studenti profondamente motivati e incredibilmente generosi. In particolare, la lingua tedesca è molto duttile e adatta a questi insegnamenti, perché offre un’incredibile possibilità di cogliere una serie di dettagli e sfumature che l’inglese, per esempio, per sua natura non è capace di carpire o, forse sarebbe meglio dire, restituire nella loro complessità.
È per questo motivo che i libri di Lama Ole escono prima in tedesco: per la possibilità di profondità che esso possiede. Ed è per questo che l’italiano, avendo la medesima radice linguistica, riesce a cogliere lo stesso tipo di sfumatura.
E tu, a che punto sei del tuo cammino spirituale?
Da un lato, sento di possedere ciò che è giusto per me e che mi serve, dall’altro, invece, mi sento sempre più principiante. La pratica regala tanta freschezza, ed è come se, ogni giorno, io riuscissi a dire un “Wow” in più rispetto a quello precedente. L’idea di avere ancora molto da imparare, se all’inizio mi spaventava, ora mi incoraggia molto. Vorrei essere come il mio maestro, come il Sole che risplende su ogni cosa e riscalda tutti indistintamente, e li tiene svegli con la risata tipica di uno yogi, un realizzatore: libero!