You’ll never walk alone, DMX

Un saluto-omaggio ad un rapper che ha segnato una generazione. A cura di Filippo Santin. 

La vita di DMX, per certi versi, sembra un’opera scritta da Dostoevskij. O almeno, questo è quello che traspariva dalla sua musica.

In tante canzoni si raccontava quasi come il Raskol’nikov di “Delitto e Castigo”, in continua lotta con i propri dilemmi spirituali: le dichiarazioni di forza e grandezza – come nella maggior parte della musica rap – si alternavano a quelle sulle sue fragilità umane, ai sensi di colpa, e all’incessante ricerca di una salvezza.

Prima di essere DMX, uno dei rapper di più successo degli ultimi venticinque anni, era Earl Simmons.

Nato nel 1970 a Mount Vernon, dalle parti di New York, figlio di due genitori nemmeno ventenni, viene presto abbandonato dal padre. Fin da piccolissimo soffre di asma, motivo per il quale è costretto ad essere ricoverato frequentemente in ospedale. La sua infanzia, quindi, non è per nulla facile. Ai problemi di salute si aggiungono quelli vissuti in famiglia, dove la madre e i suoi ricorrenti fidanzati lo maltrattano spesso. Earl, allora, comincia presto a vagare per le strade di Yonkers, pur di tenersi lontano da quello che doveva vivere in casa. Ed è, appunto, in queste strade buie e sporche che ama accompagnarsi ai cani randagi, come unici amici – i cani, tra l’altro, diventeranno figure ossessive in gran parte dei suoi testi.

Già da ragazzino Earl si avvicina al crimine. Rapina spesso i suoi coetanei e, come racconterà in seguito, per farsi consegnare ciò che voleva gli bastava incutere paura con lo sguardo. Comincia allora a fare il giro di molte case-famiglia. Ma è qui che, confrontandosi con altri ragazzi come lui, ha modo di condividere il suo amore per l’hip-hop. Rappa spesso per loro, e certe reazioni entusiaste lo spingono a dedicarsi anima e cuore alla musica. 

Scrivere diventa subito un’auto-terapia, per liberarsi dei propri demoni. È così che Earl diventa DMX – nome ispirato da una drum machine con lo stesso nome, ma che sottintende anche “Dark Man X”.

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Tra un ingresso e l’altro in carcere, cerca di farsi conoscere vendendo i suoi mixtapes per le strade di New York, com’è sempre stata prassi per quanto riguarda i rapper nella Grande Mela – almeno fino a prima dell’era YouTube, dov’è certo più comodo caricare i propri pezzi online.

Nel ’91 il suo nome viene segnalato sulle pagine di “The Source”, bibbia dell’hip-hop americano. Ma il successo tarda ad arrivare. DMX è un rapper troppo “ruvido”, senza alcun tipo di orpello e onesto fin quasi all’eccesso.

Soprattutto in un periodo storico per il rap, quello immediatamente successivo alle scomparse di 2Pac e Notorious B.I.G., che preferiva dimenticare certa violenza con pezzi più spensierati, dediti soprattutto alla celebrazione della bella vita – Puff Daddy e soci, infatti, dominavano le charts.

Ci troviamo appena dopo la metà dei Novanta. DMX si sta quasi avvicinando alla soglia dei trent’anni, ed il rap è sempre stato un genere associato a ideali di giovinezza – per dire, in quello stesso periodo si preparava ad esordire anche Jay-Z, che voleva lasciarsi alle spalle una vita da spacciatore, ma le etichette lo rifiutavano considerandolo già troppo vecchio a soli 26 anni.

DMX, però, non si arrende. Malgrado nessuno creda che uno così possa ottenere il minimo successo commerciale, Irv Gotti – producer che a inizio anni Zero otterrà un successo incredibile collaborando con Ja Rule – crede in lui. E seppure a fatica, riesce a convincere la storica Def Jam a metterlo sotto contratto – leggendario il provino dove DMX rapperà con dei cavi d’acciaio in bocca, applicati in ospedale dopo che durante una rissa gli era stata fratturata la mascella.

Irv Gotti promette che venderà milioni di album, mentre tutti i discografici ridono.  DMX allora si isola dalle male voci, e comincia a lavorare al suo disco di debutto. Nel frattempo collabora con nomi come LL Cool J, Mase. Ma finalmente, nel febbraio ’98, esce il suo primo singolo sotto Def Jam: “Get at Me Dog”.


Il video, in bianco e nero, estremamente minimale, vede DMX dentro ad un club claustrofobico, a petto nudo, fisico scolpito, del tutto sudato, che rappa per una piccola platea di gente infervorata, e si muove con una tale aggressività da dare più l’idea di un pugile sul ring che di un cantante su un palco.

Già dall’inizio della canzone mette in chiaro qual è il suo obiettivo, urlando: “Let’s take it back to the streets, motherfucker!” L’odore acre dei sobborghi newyorchesi si prepara a cospargere il rap da classifica, quello pieno di lustrini.

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Il video, così crudo, non ottiene praticamente nessun passaggio su MTV. Ciò nonostante, il nome di DMX comincia a girare con il passaparola – soprattutto tra i fan dell’hip-hop che rivolevano estetica e sonorità più grezze. Tant’è che il singolo finirà addirittura per conquistare il disco d’oro. Il primo album ufficiale di DMX, “It’s Dark and Hell Is Hot”, è pronto quindi per uscire nei negozi, e attendere la “prova del nove”. 

Viene caratterizzato da un singolo che diventerà, negli anni, un classico del rap: “Ruff Ryders’ Anthem”. Prodotto da uno Swizz Beatz alle prime armi – prima di diventare uno dei beatmaker più richiesti dall’hip-hop, e collaboratore di fiducia di DMX – suona in maniera molto asciutta, quasi come una marcia militare. E DMX, malgrado all’inizio non fosse per nulla convinto, alla fine si decide a rapparci sopra – ci metterà solo 15 minuti per scrivere l’intero pezzo – dando vita a una vera e propria hit. Il video, casomai la canzone non fosse abbastanza, mette ancora in chiaro qual è l’obiettivo del rapper: aggredire le classifiche con un immaginario di strada, duro e puro.


Circondati dai palazzoni, si vedono pitbull prendere a morsi copertoni lasciati qua e là, orde di motociclisti sfrecciare senza regole per le strade di New York, thugs massicci sollevare pesi. DMX intanto si dimena rappando, ma mescolandosi ai suoi sodali, agitati quanto lui. Assume quasi l’aura di “leader del popolo”, a petto nudo al pari di tutti gli altri, come per mostrare che sono uguali, che lui combatte per un collettivo. Ma d’altronde, come disse Irv Gotti a un Jay-Z che gli chiedeva confronti di giudizio con DMX: “Nel ghetto ci sono più tipi come lui che come te…”

“It’s Dark and Hell is Hot” schizza inaspettatamente al primo posto delle charts. Eppure non si tratta per nulla di un disco accessibile al grande pubblico. Non contiene momenti granché pop, anzi. Già dalla copertina oscura e dal titolo si intuisce la sua intima cupezza.

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Lungo tutta la durata DMX passa dal ringhiare, come i suoi adorati cani, mettendo in chiaro che con lui non si scherza; per poi, appena dopo, raccontare le sue vulnerabilità umane, o le sofferenze vissute, tramite un uso ricorrente di citazioni religiose – DMX, nelle sue canzoni, si rivolge spesso a Dio, chiedendogli aiuto o di essere perdonato per i i propri peccati. Le liriche, inoltre, sono talvolta suggestionate da un immaginario horror, crudo, che difficilmente aveva mai conquistato un gran bacino di ascoltatori.

Ma è l’urgenza di onestà che si respira in tutto l’album a renderlo particolare, soprattutto rispetto a gran parte del rap mainstream di quegli anni. DMX si descriveva come un uomo in perenne ricerca di chiarezza, di un’illuminazione che potesse fargli capire, una volta per tutte, cos’era il bene e cosa il male. E per raggiungerle bisogna scavare a fondo, bisogna essere sinceri – fino a perdere anche le proprie difese, forse. Un’attitudine questa che, seppure con toni molto meno tragici, condizionerà anche rapper iconici di oggi, come Kendrick Lamar.

Per cavalcare l’onda di questo inaspettato successo, non molti mesi dopo viene fatto uscire un altro album “Flesh of My Flesh, Blood of My Blood”. Sulla copertina vediamo sempre DMX a petto nudo, ricoperto però da quello che dovrebbe essere sangue. Anche questo è un album parecchio violento, tormentato, che tuttavia riesce ad eguagliare le vendite del precedente. 

DMX piazza quindi due album usciti nello stesso anno, il ’98, al primo posto della classifica. Un risultato unico.

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L’anno successivo partecipa a quella che doveva essere una nuova edizione di Woodstock, dopo quella leggendaria del ’69, e poi del ’94. Quella del ’99, però, verrà ricordata più che altro per tutti gli atti violenti che si consumarono lì – in totale contrasto con gli ideali di pace e amore dell’originale. Al di là di questo, DMX si esibirà in una performance spettacolare, davanti ad un oceano di gente. Gente che, perlopiù, era composta da adolescenti bianchi, non certo simili a lui. Ma che comunque sapevano tutte le sue canzoni a memoria. DMX, quindi, dopo una gavetta lunghissima, era riuscito nel giro di un anno dal suo debutto con la Def Jam a raggiungere uno status di icona popolare. 


La fama aumenta grazie anche alla sua carriera parallela di attore. Recita in film d’azione come “Romeo deve morire”, al fianco di Jet Li, o “Ferite Mortali”. Sempre nel ’99, inoltre, esce un altro album di successo, “…And Then There Was X”, che contiene la hit “Party Up”.

Ma per un uomo così pieno di dubbi e ferite nell’anima, fama e ricchezza possono non bastare a calmarlo. DMX, infatti, si rifugiava nelle droghe fin da ragazzino, e queste dipendenze non spariranno dopo il successo, anzi.

Seguiranno altri dischi con ottime vendite, come “Grand Champ” del 2003, al cui interno è contenuta “Where The Hood At?”, ideale seguito di “Ruff Ryders’ Anthem”. Ma questa dantesca “discesa agli inferi”, cominciata da DMX con il suo primo album, non sembra mai poterlo poi condurre verso il paradiso.

Negli anni entrerà ed uscirà dal carcere senza sosta, venendo accusato di vari reati. Anche la carriera musicale, ovviamente, ne risentirà. E DMX si concentrerà sempre di più sullo studio della Bibbia, puntando a diventare pastore. Ma la lotta contro la dipendenza dalle droghe, quasi come contro la sua parte oscura, alla fine lo vedrà sconfitto, malgrado numerosi tentativi di disintossicarsi – anche documentati in un reality show.

Il 2 aprile 2021 viene trovato senza sensi, a causa di un’overdose.  Ricoverato in ospedale, dopo aver subito un attacco di cuore, il 9 aprile ne viene dichiarato il decesso.  Aveva 50 anni.

DMX è stato una figura fondamentale per il rap.

Ha saputo portare al grande pubblico il lato più sporco, più autentico delle strade, preparando il terreno per rapper come 50 Cent; e ha anche sdoganato le liriche talvolta “estreme”, che hanno emancipato un po’ di più colleghi del calibro di Eminem.

Il suo modo di aggredire il microfono, con tutta l’onestà che gli nasceva dal profondo, oggi è stato ripreso da migliaia di altri rapper giovanissimi – pure se, nel caso di DMX, questa aggressività serviva a “difendere un cuore fragile”, come da lui dichiarato. Quando si parla di musicisti scomparsi troppo presto, in modo drammatico, si rischia spesso di sfociare nella retorica. O nell’agiografia, una vita da santi che DMX non ha sfiorato.

Però sta proprio qui il suo valore: nella sua umanità, nel suo cammino caratterizzato dagli sbagli – anche altrui – che ciò nonostante ha avuto il coraggio di raccontare, senza troppe protezioni.

Un po’ come il protagonista di un romanzo di Dostoevskij, che in fondo cerca soltanto la sua liberazione personale.

Come la maggior parte di noi.

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