Nella sua “epopea africana”, edita dalla casa editrice 66thand2nd, Jennifer Nansubuga Makumbi ripercorre i fili di una maledizione che pervade la dinastia del governatore ugandese Kintu e rende imprescindibili la conoscenza e l’accettazione dei drammi del passato.
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_di Roberta Scalise
«“Li vedi questi piedi?” disse indicandoli. “Io andrò a vedere come sta mio figlio. Se è vivo, lo riporterò a casa e mi scuserò. Ma se non lo trovo – per te, per la tua famiglia e per la tua discendenza – la vita sarà dolore. Patirete tanto da desiderare di non esser mai nati”. Con voce tremante Ntwire aggiunse: “E a te, Kintu, nemmeno la morte recherà sollievo”».
Kampala, 2004. Un uomo viene prelevato con forza dalla sua dimora, sita nel quartiere di Bwaise. Con le mani legate dietro la schiena, Kamu Kintu – questo il suo nome – è condotto dai sequestratori nel brulichio della folla, e, ben presto, «la parola “ladro” prese a rimbalzare da una parte all’altra, prima come dubbio, poi come certezza, ripetuta all’infinito come un’eco». La rabbia cieca della moltitudine che lo attornia, intrisa di livore atavico e insofferente, istiga i consiglieri ad arrestarlo. Questi ultimi, tuttavia, non ne avranno il tempo: Kamu diviene, infatti, preda delle percosse della massa indistinta e, poco dopo, cede se stesso alla morte.
Qual è la sua colpa? E da dove deriva? Ne delinea origine, conseguenze e percorsi Jennifer Nansubuga Makumbi, l’autrice della saga familiare “Kintu”, opera vincitrice, nel 2013, del Kwani? Manuscript Project ed edita recentemente dalla casa editrice 66thand2nd. Il primo romanzo della scrittrice ugandese – nato come tesi di dottorato – si staglia, infatti, alla stregua di una densa epopea africana, le cui radici affondano nelle torbide vicende che interessarono l’antico regno del Buganda e, in particolare, la figura di Kintu Kidda.
Proprio quest’ultimo, in qualità di “Ppookino” – “governatore” – della provincia di Buddu, intraprese, nel 1750, un viaggio insidioso attraverso il deserto di o Lowera, al fine di rendere omaggio al nuovo sovrano usurpatore, «sua follia reale Kyabaggu», e presentargli Kalema: il primogenito dello straniero Ntwire, adottato da Kintu e dalle mogli gemelle Nnakato e Babirye – madre di otto gemelli – e reso anch’esso “gemello” di Baale, l’unico figlio della prima, la più amata e, per tale motivo, invidiata dalla seconda. Non tutto, però, procederà come previsto: una maledizione incombe, infatti, sul gruppo in cammino, e manifesterà la sua presenza provocando, per mano dello stesso Kintu, la morte di Kalema.
Il cui spirito, dunque, «seppellito accanto a un cespuglio spinoso, come si faceva per i cani» e rivendicato dal padre “biologico” Ntwire, causerà un lascito di follia e morte, determinando, negli anni successivi alla disgrazia, la tragica dipartita di Baale, la sparizione di Kintu, il suicidio di Nnakato e la pazzia insaziabile di Babirye. Al pari del “miasma” delle tragedie greche, perciò, tutta la discendenza di Kintu sarà macchiata, nel corso dei secoli, di tale “impurità”, rendendo indelebile il retaggio del capostipite.
Un’eredità che, scorrendo nei diversi e molteplici rami del clan, assumerà, così, forme cangianti e sempre imprevedibili, presentandosi come malattia mentale, allucinazioni, morte prematura, depressione, premonizioni o scollamento dalla realtà. Vividi spaccati di esistenze e malesseri che la Makumbi restituisce in un alternarsi continuo, ma calibrato, di voci e riflessioni, attraverso una scrittura che, proprio come una lama tagliente, affonda ripetutamente nelle viscere emotive dei personaggi coinvolti e ne delinea le tenebre e i drammi provenienti dai dolori di un tempo remoto.
L’utilizzo di termini ugandesi, inoltre, rende la narrazione maggiormente pervasiva e aderente all’atavismo e ai retaggi della tradizione, e immerge il lettore in scene di vita quotidiana in cui il presente, tuttavia, non rinuncia a legarsi indissolubilmente a ciò che lo ha preceduto, tra folklore, sfumature sovrannaturali e i ricordi di un’infanzia che, nel suo raccontarsi, assume spesso i contorni di un’esperienza collettiva.
Intinti in questo passato vischioso vi sono, dunque: Suubi Nnakintu, perseguitata e logorata, fisicamente e mentalmente, dalla presenza della gemella scomparsa Ssanyu; il Risvegliato Kanani Kintu, che ha trovato una fervida consolazione in Gesù e assiste al rapporto morboso tra i gemelli Ruth e Job e il nipote Paulo; il vedovo Isaac Newton Kintu, figlio di una violenza e affiancato, negli anni della sua infanzia, dalla compagnia di un «interlocutore invisibile» ma multiforme; e, infine, l’anziano Miisi Kintu, protetto dall’egida dell’intellettualità – affinata a Cambridge – e padre di Kamu.
I fili di una famiglia spezzata che saranno, però, riannodati mediante un catartico ritorno alle origini, il quale condurrà ciascun membro del clan a fronteggiare i propri demoni – anche letteralmente -, le proprie angosce e i propri disagi esistenziali e farà confluire questi ultimi in un rituale che offrirà pace non solo a Kalema, Kintu e Nnakato, ma anche a tutti i discendenti che saranno in grado di accogliere le contraddizioni e le insensatezze dei legami parentali.
Le medesime che punteggiano tutto il testo, il quale risulta, infatti, pervaso da una serie di dicotomie – rese anche mediante la ricorsività delle coppie di gemelli e del loro percepirsi come «un’anima sola» –, che, nel loro dispiegarsi, troveranno una riconciliazione nella contrapposizione conclusiva tra razionalità e illogicità, intellettualismo e spiritualità, nozioni e credenze. E il cui risultato è, dunque, un coacervo indistinto di realtà e immaginazione, intelligenza razionale ed emotiva, che, in un continuo gioco di “transfer”, renderà ineluttabile la necessità di accogliere in sé i drammi del passato e i loro intimi significati.
Senza tentare di affrancarsene, ma, al contrario, provando a riconciliarsi con essi, al fine di volgere lo sguardo verso un futuro scevro di gioghi e aporie non indagate. Perché solo se sarà compreso e accettato, il passato potrà, finalmente, cessare il suo tormento.