Continua il lavoro di ripubblicazione svolto da Fandango Libri e dedito alle opere di James Baldwin: il celebre scrittore afroamericano di cui è stato edito, recentemente, il breve, ma denso, elaborato contenente una disamina attenta della “questione nera” e delle sue maggiori criticità.
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_di Roberta Scalise
«Quanto a me, voglio con tutto il cuore che i neri americani ottengano la libertà qui negli Stati Uniti; ma altrettanto vivamente mi interessano la loro dignità e la salute delle loro anime, e perciò sento il dovere di oppormi a qualsiasi tentativo da parte dei neri di fare agli altri ciò che è stato fatto a loro.»
Afroamericano, pacifista, omosessuale, intellettuale, estraneo a ogni violenza e appassionato promotore della dignità umana, a prescindere dal colore della pelle: nessuno ha saputo convogliare e far coesistere in sé le più rivoluzionarie destrutturazioni sociali dell’America bianca come lo scrittore James Baldwin.
Tra le voci di maggiore rilievo per quanto concerne l’annosa “questione nera”, l’autore originario di Harlem ha, infatti, sostenuto, per l’intero corso della sua esistenza, una visione antitetica rispetto alle posizioni più accreditate, perseguendo l’ideale di un “amore universale” che fosse in grado di abbracciare la popolazione mondiale e di condurre quest’ultima alla piena accettazione di sé.
Un intento che emerge con lucidità cristallina tra le pagine de “La prossima volta il fuoco”, l’opera – apparsa per la prima volta nel 1963 e recentemente ripubblicata, in Italia, da Fandango Libri – che, più di qualsiasi altra, viviseziona le criticità e le ambizioni della condizione nera e offre una disamina approfondita dell’odio razziale e dei percorsi atti al suo superamento.
A pulsare con insistenza è l’idea in base alla quale «noi non saremo liberi fino a quando gli altri non lo saranno», come rivela Baldwin nella lettera introduttiva rivolta al nipote quindicenne, James, in occasione del centenario dell’emancipazione. A puntellarne la riflessione vi è, infatti, un quesito cardine: è possibile ambire all’indipendenza e alla libertà se immersi in un contesto nel quale sono proprio i bianchi, per primi, a non accogliere e amare il loro essere?
Una risposta adeguata può essere rintracciata nella successiva “Ai piedi della croce. Lettera da una regione della mia coscienza”, in cui lo scrittore precisa che «i bianchi di questo paese hanno da faticare un bel po’ per imparare ad accettarsi e ad amarsi tra di loro; e quando ci saranno riusciti – il che non sarà né domani né, forse, mai – allora il problema razziale non sussisterà più, perché non sarà più recepito come tale».
L’unico modo per eradicare pregiudizi e conflittualità razziali è, dunque, secondo Baldwin, il percorso che condurrà “l’uomo bianco” a riappropriarsi della propria coscienza, cessando di «proiettare sul negro le proprie intime paure e aspirazioni» e consentendosi, di conseguenza, di «diventare negro egli stesso, di diventare parte di quella nazione martoriata e danzante che guarda invidioso dall’alto del suo solitario potere». Perché è il potere, con le sue contraddizioni e la sua caduca ciclicità, a intorpidire gli spiriti dei bianchi usurpatori, accecandone senso civico e fratellanza.
Come abbattere, quindi, questi muri di odio e di mancata introspezione? A fornirci la risposta è, ancora una volta, Baldwin, affermando che «[…] noi, bianchi e neri, abbiamo bisogno gli uni degli altri se davvero vogliamo diventare una nazione: vale a dire, se davvero vogliamo conquistare la nostra identità e la nostra maturità, come uomini e donne». Dignità e autonomia, infatti, possono esistere e svilupparsi solo nell’unità che accomuna i corpi e i loro sentimenti, solo nell’amore universale che incita questi ultimi a incontrarsi, a rischiare e a evolversi, valicando quella “linea del colore” – teorizzata da Du Bois – che rende impossibile creare una comunità scevra di pregiudizi e fittizie differenze.
Le strade di Harlem, i suoi ghetti, il fervore religioso, le crisi morali, la rivoluzione e l’affrancamento dai “diavoli bianchi” sostenuti dalla Nation of Islam – e, in particolare, dalla figura dell’attivista e Ministro islamico Elijah Muhammad – divengono, quindi, le lenti attraverso le quali Baldwin offre testimonianza di un percorso “spirituale” e umano che non ha ancora il coraggio di compiersi, e che affonda le proprie radici tanto nella diffidenza e nell’astio sanguinoso dei “bianchi”, quanto nella difficoltà del “negro americano” di «accettare il proprio passato, la propria storia, […] imparando a trarne profitto».
È in queste considerazioni filosofiche e sociologiche che risiede, allora, lo strenuo pacifismo dell’autore, declinato in uno scritto che assume talvolta i contorni di un pamphlet, talvolta quelli di un denso mémoire, e che, pur nella sua brevità, riunisce in sé i numerosi secoli di dolore, isolamento e barbarie che hanno soggiogato il popolo afroamericano.
Le cui brutalità subite rivivono, qui, mediante una scrittura corposa e sapiente, tale sia per l’intensità del vissuto e del percepito, che tracima da ogni riga, sia per la magistrale capacità di restituirlo per mezzo di parole rabbiose ma calibrate, mai esarcebate nel loro livore ma sempre lucide, direzionate e consapevoli. Affinché «il passato del nero, un passato di catene, fuoco, torture, castrazioni, infanticidi e violenze carnali, un passato di morte e umiliazione», non venga dimenticato ma possa trovare, al contrario, la forza di rivendicare se stesso, non attraverso la violenza, bensì mediante lo spirito di comunità che solo la lotta e la “bellezza della sofferenza” possono garantire.
«Se noi – e intendo noi bianchi e noi neri relativamente consapevoli, ai quali, come gli amanti, tocca risvegliare o creare la consapevolezza anche negli altri – non veniamo meno al nostro dovere adesso, saremo in grado, noi manipolo di uomini, di porre fine all’incubo razziale, di conquistare il nostro paese e di cambiare la storia del mondo. Se invece non osiamo tutt’ora, si adempirà quella profezia biblica che è divenuta poi un canto di schiavi:
Dio mandò a Noè il segno dell’arcobaleno,
Non più acqua: la prossima volta, il fuoco!».