Richard Jewell: Eastwood riflette sul rapporto tra verità e giustizia nella società dell’iper-informazione

L’attentato al Centennial Park di Atlanta durante un evento a margine delle celebrazioni per i Giochi Olimpici, l’atto eroico di un addetto alla sicurezza, le indagini che non decollano, la caccia al perfetto capro espiatorio. E la rinascita, dopo un’esperienza assurda e brutale. Traendo spunto da un celebre caso di cronaca, Eastwood compone una potente riflessione sul rapporto tra verità e giustizia ai tempi della società dell’iper-informazione. Al centro, la lotta di un uomo qualunque per affermare la propria innocenza.


_di Alberto Vigolungo

Clint Eastwood è, prima di tutto, un inossidabile narratore di storie. I suoi film, basati su trame solide e su attente caratterizzazioni, hanno sempre evidenziato la capacità di questo regista di avere il controllo totale della propria opera, tanto nei tempi quanto nello sviluppo narrativo. Il risultato è quello di un cinema lineare, pulito, chiaro negli intenti. Negli ultimi anni, l’autore americano ha  posato spesso e volentieri il suo bisturi analitico sul vasto “corpus” della cronaca, per trarne frammenti dei tempi che corrono: ad eccezione dell’ultimo The Mule (2018), che ha segnato un ritorno al confronto con la scrittura di finzione, la vena creativa di Eastwood si è esercitata sull’attentato di matrice islamista sventato su un treno da tre soldati americani in licenza in Europa (15.17 – Attacco al treno, 2018), o sul gesto eroico di un capitano di volo che, per evitare un grave incidente, tentò l’ammaraggio del suo Boeing sulle acque del fiume Hudson (Sully, 2016). Con l’ultimo, incalzante Richard Jewell, spinge la sua riflessione sulla natura dell’eroismo fino alle sue estreme implicazioni, quando quest’ultimo viene manipolato e addirittura trasformato in un’arma di distruzione mediatica e giudiziaria.

Una bomba esplosa durante un concerto al Centennial Park, cuore dei festeggiamenti delle Olimpiadi di Atlanta 1996, la notizia che uno dei vigilanti aveva notato e segnalato pochi minuti prima la presenza dello zaino “sospetto” ai bordi del parco, nonché provveduto a mettere in sicurezza quante più persone possibile evitando la strage, la corsa di stampa e tv per assicurarsi un’intervista con l’eroe, la proposta di un libro che racconti la sua vita, e poi i sospetti dell’FBI che brancola nel buio, quindi la fuga di notizie che rivela il coinvolgimento dell’uomo nell’inchiesta e che lo indica come l’unico indagato. Nel giro di poche ore la vita di Richard Jewell, ragazzo della classe media che ha sempre nutrito un vera e propria passione per l’autorità – coltivando il sogno di divenirne parte – cambia per sempre.

Sarà un avvocato arenato nelle secche della carriera, conosciuto dieci anni prima su un altro luogo di lavoro, a difendere Richard dall’accusa, facendosi carico delle sue sofferenze e trovando così un punto di svolta anche per la propria esistenza. Accanto al protagonista, oltre a Watson Bryant, la madre Barbara, donna dolce ma al tempo stesso tenace (come dimostrerà nel suo sofferto intervento davanti alla stampa), con la quale Richard divide una villetta monofamiliare in un quartiere residenziale della città. Che, nei giorni successivi alla pubblicazione dell’articolo di Kathy Scruggs, reporter senza scrupoli del locale Atlanta Journal entrata per prima in possesso del nome di Jewell, diventa, nella sua anonima rispettabilità, nella sua somiglianza con una casa qualunque, emblema dell’ultimo “incubo americano”. Un incubo destinato a durare 88 giorni, quando l’inchiesta a carico di Jewell si conclude definitivamente. Senza aver individuato il vero responsabile dell’attentato, che confesserà nel 2001.

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Basato sull’articolo firmato da Marie Brenner Incubo americano: la ballata di Richard Jewell, il film apre uno squarcio sul ruolo e sulle dinamiche dell’informazione nella società contemporanea, in un’epoca ancora lontana da social media e affini.

Il “caso Jewell” non è affatto la storia di un errore clamoroso, ma di una persecuzione spietata ai danni di un uomo come tanti il quale, agendo in nome di valori in cui crede fermamente, si ritrova contro “due delle forze più potenti del mondo: il governo degli Stati Uniti e i media”, come afferma l’avvocato Bryant davanti a telecamere e taccuini. La mancanza di elementi in mano agli investigatori, le pressioni di stampa e televisione contribuiscono così all’edificazione del perfetto capro espiatorio. Da sacrificare sull’altare dell’opinione pubblica non solo nazionale, ma mondiale, poiché in quei giorni Atlanta ospita le Olimpiadi. Un’immagine destinata a rimanere nel tempo, capace di resistere alla verità giudiziaria, quindi alla storia. Immagine che il regista ha tentato di demolire definitivamente, riconoscendo in  questa operazione il motivo principale che l’ha spinto a girare il film.

Le persone non collegano il fatto che il vero attentatore sei anni dopo ha confessato di essere il responsabile, ed è stato arrestato. Spero che il pubblico, grazie a questo film, ora lo sappia e che si renda conto che, come società, possiamo fare di meglio. Se questa è una lezione che Richard può darci, penso che sia una gran cosa. Perché lui è un eroe. – Eastwood, intervista su “Storie”, gennaio-febbraio 2020

Nell’opera, la chiusura del cerchio si esprime nel primo piano del protagonista che si abbandona ad un’espressione di sollievo e di stupore al tempo stesso, suscitata dalle poche parole con le quali l’avvocato Bryant gli comunica l’ultimo sviluppo della storia. Notizia che per Richard segna il momento della sua rinascita, l’uscita definitiva da un inferno che non era cessato neanche dopo che i riflettori su di lui si erano spenti, in assenza di un colpevole.

Tuttavia, quella di Richard Jewell è anche la storia di un’amicizia che nasce tra due uomini in un momento di difficoltà e di sofferenza (Paul Walter Hauser e Sam Rockwell riescono a tessere le fila di questo rapporto in maniera del tutto convincente). Occupandosi del caso, Watson Bryant capisce che il successo della strategia difensiva dipende dalla sua capacità di comprendere in profondità il proprio cliente, di entrare nel mondo di Richard, di confrontarsi con la sua emotività, di penetrare i suoi ideali e le sue debolezze: con franchezza, non esita a sfidare la fiducia quasi cieca che il protagonista ripone nelle autorità. Perché questo “è” Richard:

Era una persona comune, un uomo normale […] Era un ragazzo ossessionato dal voler essere un ufficiale di polizia; far applicare la legge era il suo sogno. – Eastwood, intervista su “Storie”

 Il comportamento di Richard, apparentemente accomodante, risponde in realtà alla sua ferma convinzione di essere in grado di tirarsi fuori dall’occhio del ciclone. In questo rapporto, che non può escludere ciò che il protagonista è ed è sempre stato (così come l’unico affetto rimastogli, la madre), l’avvocato scopre la grande forza interiore del ragazzo, abbandonando i pregiudizi che l’hanno accompagnato fin da quando lo aveva conosciuto. Del resto, era stata proprio l’umanità di Richard, che l’aveva contattato prima ancora che scoppiasse il caso, per seguire la stipula del contratto che un editore newyorchese gli aveva offerto nei giorni successivi alla bomba di Centennial Park, a colpirlo e ad assumere l’incarico, spinto anche dalla segretaria (e futura moglie), che intuisce la svolta. Affrontando insieme paure e reticenze, i due stringono un’amicizia destinata a tenere legato Bryant alla famiglia Jewell anche dopo la scomparsa del ragazzo, avvenuta nel 2007: anche Bryant uscirà “rinato” da questa esperienza, come uomo e come professionista.

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Il timore delle autorità di non riuscire a identificare il colpevole in tempi utili (la città di Atlanta è in quei giorni al centro della scena internazionale) costituisce l’elemento scatenante della macchina persecutoria nei confronti di Richard Jewell che, come in un gioco, viene improvvisamente investito di ruolo diverso, quello del “lupo solitario” (“Un uomo bianco frustrato, aspirante poliziotto che vorrebbe diventare un eroe”, secondo l’interpretazione degli investigatori). Lo stretto legame tra l’accusa del tutto infondata nei confronti del vigilante e il contesto olimpico è sottolineato da una sequenza in montaggio alternato che mostra le verifiche effettuate da Bryant e dalla sua segretaria relative alla fattibilità che Jewell abbia potuto spostarsi in tempi ragionevoli dal telefono pubblico con il quale l’attentatore aveva annunciato alla polizia la presenza dell’ordigno, al luogo dell’attentato, e le immagini televisive delle imprese di Michael Johnson nell’atletica leggera. Così come il filmato attesta la superiorità del campione USA, Watson Bryant diventa certo, cronometro alla mano, dell’innocenza del suo assistito.

Pur affermando l’intenzione primaria di narrare una storia “umana” e di “rendere onore” ad un eroe dimenticato, Eastwood rievoca con il suo nuovo film le ansie di un’epoca, quella della presidenza Clinton, caratterizzata dal riacutizzarsi di tensioni che ispirarono attentati sanguinosi (come quello che colpì Oklahoma City nel 1995), in parte rimossi, nella coscienza collettiva, dall’”apocalisse” dell’Undici settembre. Di quello scenario di isterie latenti che contrassegnano la vita americana di fine millennio, la vicenda di Richard Jewell rappresenta davvero un caso emblematico.

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