The Irishman: un gangster movie per raccontare cambiamenti e cicatrici dell’America

Un uomo e un mondo oscuro fatto di violenza e fedeltà, potere e solitudine, che segna la sua vita fino a renderlo l’unico superstite di un’epopea del sangue lunga quattro decenni. Martin Scorsese ritorna al gangster movie con tutta la sua esperienza di autore e cinefilo, insieme ad alcuni dei volti più rappresentativi della sua generazione. Un team di lavoro rodato a cui si affianca la capacità dei nuovi colossi che avanzano, come Netflix, con i contrasti che ne derivano in termini di distribuzione. 

_di Alberto Vigolungo

Le voci intorno al nuovo film di Scorsese si erano infittite come quelle che precedono l’opera di ogni grande maestro. Non potrebbe essere altrimenti, visti i nomi in questione, ma ciò che si può dire subito dopo l’uscita dalla sala è che The Irishman merita davvero il clamore che ha provocato, confermando, ancora una volta,  lo stato di salute della creatività di un autore che del cinema ha scritto pagine gloriose e che su di esso è costantemente chiamato a esprimersi, talvolta non senza suscitare polemiche (l’ultima risale a qualche giorno fa).

Sin dalle prime inquadrature, The Irishman sgombera il campo da equivoci e preconcetti: ripiego nostalgico, necessità di girare (di cui si nutre un film come Toro scatenato, ad esempio)… Niente di tutto ciò: un piano sequenza costruito su un lungo movimento di macchina conduce al protagonista Frank Sheeran, dopo aver attraversato il corridoio e gli ambienti di una casa di riposo. Fino a fissare il primo piano del personaggio, che inizia a raccontare la sua storia. In queste poche immagini, che introducono una narrazione articolata principalmente su tre piani temporali, si condensano la bellezza di uno stile e la chiarezza di un linguaggio che non possono che affascinare.

Perciò, anche a dispetto di un passaggio in sala che in un primo tempo si voleva davvero troppo breve – di qui, la disputa contro Netflix – l’ultimo titolo di Scorsese, con i “leoni” del suo cinema (Robert De Niro, qui anche alla produzione, Joe Pesci, Harvey Keitel) ma non solo (Al Pacino), vale più di qualche considerazione. A cominciare dalle sue tre ore e mezza, che non comportano cali narrativi significativi, sostenute da un ritmo coinvolgente e da una scrittura capace di muoversi agilmente tra registri diversi: quest’ultima manifesta la sua efficacia soprattutto nei dialoghi, in una gamma che accoglie lo humor macabro (scolpito nella frase riportata a chiare lettere nell’incipit e che risuona come una sorta di biglietto da visita del protagonista, “I Heard You Paint Houses”), il comico, perfino il grottesco. Un dinamismo che il regista suggerisce ben oltre l’elemento filmico, e che trova cittadinanza anche nella scrittura.

Per molti versi, la vicenda dell’”irlandese” ricalca la parabola di ogni Sogno americano criminal che si rispetti, lo stesso che animava, seppure con i dovuti distinguo in termini di caratterizzazione del personaggio (il Frank di De Niro è certamente più risoluto nello sfruttare le occasioni che gli capitano), l’ingenuo milieu di provincia protagonista di una delle pietre miliari del genere, Little Caesar (M. LeRoy, 1931). E cioè la scalata ai vertici di una rete criminale a partire dal basso anzi, nel caso di Sheeran, da una condizione di estraneità a quel mondo: da semplice trasportatore della tratta East Coast-Midwest negli anni Cinquanta, con alle spalle l’esperienza della guerra sul fronte italiano, diventa killer professionista e poi uomo di potere all’interno di un circolo i cui equilibri sono spesso sul punto di rompersi. Un’ascesa dai risvolti quasi esclusivamente economici, perché Frank non terrà mai davvero in mano i fili del giocattolo, rimanendo costantemente invischiato nelle trame di un potere controllato da altri, come il suo primo protettore, il boss Russell Bufalino (“Tutte le strade portavano a Russ” racconta, rievocando i primi passi della sua carriera), al quale resta sempre fedele, anche quando si tratta di eliminare il potente capo di un sindacato Jimmy Hoffa, di cui per anni era stato uomo di fiducia, nonché testimone del suo inesorabile declino. E proprio sulla chiusura di questo cerchio è incentrato il secondo piano temporale del racconto, che vede il viaggio a Detroit di Frank e Russell con le rispettive mogli.

Nelle sospensioni, in un senso di alienazione che si manifesta nella distanza emotiva tra uomini e donne – suggerita a sua volta anche dalle differenze cromatiche del loro abbigliamento e dai patetici battibecchi di Russell sul fumo di sigaretta – e che caratterizza l’intero viaggio, il peso di una missione che Sheeran dovrà compiere da solo. Sullo sfondo, un pezzo di storia americana  che si intreccia con la narrazione, come avviene con l’elezione di John Kennedy, che diventa motivo di divisione negli ambienti frequentati dal protagonista, con l’episodio della Baia dei Porci (che manda in frantumi i progetti di coloro che ancora credevano di rimettere le mani su Cuba, dopo essere stati cacciati dalla rivoluzione di Castro) e con l’assassinio di Kennedy, rispetto al quale Hoffa, da sempre oppositore del presidente, nel clima di generale cordoglio che segue l’accaduto, rimarca il suo dissenso preoccupandosi di persona che la bandiera nazionale che svetta sul tetto del palazzo del sindacato non venga abbassata a mezz’asta. Il richiamo alla storia tornerà in occasione dell’intervento americano in Kosovo, ma a quel punto la vicenda di Frank Sheeran non ha più nulla a che fare con esso. 

«The Irishman non è solo l’ultimo frutto di un genere che ha sempre goduto di buona salute nella produzione dell’industria cinematografica a stelle e strisce, ma anche il tentativo di offrire uno sguardo storico sui cambiamenti di un Paese e sul riemergere ciclico di antiche ansie e divisioni»

Il lavoro del maestro italo-americano, sempre più ospite fisso presso gli eventi organizzati nel nostro Paese (accolto un anno fa al Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, in occasione del restauro di Toro scatenato, e nell’ottobre di quest’anno alla Festa del Cinema di Roma, dove è stata presentata l’anteprima nazionale del film), adattamento del saggio di Charles Brandt dedicato alla figura storica di Frank Sheeran, esprime, accanto al consueto rigore nella costruzione dell’immagine, la capacità di giocare con il tempo della narrazione, che si riflette in soluzioni anche ardite, come quella che vede associare l’immagine dell’asfalto che scorre sotto l’auto del protagonista alla frase “So che imbianchi case”, composta in brevi momenti successivi attraverso un montaggio alternato, secondo un procedimento vicino al linguaggio pubblicitario. 

Nella definizione caratteriale del protagonista Scorsese e De Niro si mantengono invece più saldi alla tradizione, recuperando e fondendo in un personaggio più maturo e calcolatore alcuni tratti dei personaggi “divisi” che hanno illuminato la carriera dell’attore hollywodiano, da Mean Streets (1973) in poi: il rapporto difficile con la figlia Peggy, che non gli perdonerà mai l’assassinio di Jimmy Hoffa, da lei riconosciuto come uno zio, ma più in generale una condizione che appare costantemente senza via d’uscita, fino alla decisione finale, che rimetterà la sua vita su binari stabili, a costo di altro sangue e altre bugie. 

In un inevitabile sguardo al passato Scorsese non resiste all’autocitazione, disseminando nel film  piccoli riferimenti in omaggio ai cinefili più accaniti, come si osserva nella sequenza che inizia con un carrellata laterale della macchina di Frank in movimento che, non fosse per il colore della stessa e per la grigia luce diurna, potrebbe essere benissimo il taxi newyorchese che si aggira nelle notti nebbiose di Taxi Driver, e, certamente in maniera più indiretta, nell’episodio in cui il protagonista nota per la prima volta quella che diventerà la sua seconda moglie: qui Joe Pesci risponde alle domande di un “interessato” De Niro, in un déjà-vu cinefilo che riporta al già citato Raging Bull (1980). 

Nella rilettura del film di gangster proposta da Scorsese non si ravvisano sostanziali elementi di novità, puntando su una struttura tradizionale e su un cast di assoluto richiamo (Al Pacino offre una prova di livello, infondendo nel suo personaggio il carisma e  l’orgoglio di un vecchio businessman che non ne vuole sapere di lasciare il proprio regno). The Irishman tuttavia non è solo l’ultimo frutto di un genere che ha sempre goduto di buona salute nella produzione dell’industria cinematografica a stelle e strisce, ma anche il tentativo di offrire uno sguardo storico sui cambiamenti di un Paese e sul riemergere ciclico di antiche ansie e divisioni. Paure che i gangster di Scorsese provano a scacciare anche attraverso semplici abitudini, come quella di lasciare un poco aperta la porta, prima di dormire. E’ questa l’ultima richiesta che Frank Sheeran, stanco e incapace di chiudere con il proprio passato, fa al confessore, prima che quest’ultimo lasci la sua camera. Volontà di un ego che vuole rimarcare la propria esistenza? Metafora di una liberazione sulla quale l’ex killer comunque si interroga, anche attraverso la preghiera? Forse entrambi. Un segno d’apertura che potrebbe simboleggiare anche la soddisfazione del regista per gli esiti del suo ricorso alla tecnologia, cruciale nella definizione dei volti degli “anziani” De Niro, Pacino, Pesci, come dichiarato in un’intervista rilasciata alla BBC. Ok, il film sarà disponibile sulla piattaforma streaming di Netflix dal 27 novembre, ma intanto il consiglio è di andare al cinema.