[INTERVISTA] Buzzy Lao e l’importanza di saper rallentare

L’atipico bluesman/cantautore torinese sta per tornare con un nuovo album in uscita nel 2020, che arriva dopo un soggiorno di quasi sei mesi in Sicilia, nel quale Buzzy Lao si è concentrato su un processo creativo meno affidato all’istinto e più legato al processo creativo a 360° – come ci racconta in una chiacchierata via mail. 


_di Mattia Nesto

Partiamo, innanzi tutto, da una provocazione: ma nel 2019 ha ancora senso fare blues?

Dipende da cosa intendi per blues. Per me il blues è uno stato d’animo e un’attitudine. E’ in tutta quella musica che non deve essere per forza intrattenimento usa e getta ma che nasce da una spinta più profonda. Per me esprime un sentimento scuro, di tristezza o di rabbia che però può sfociare in diverse direzioni, nella speranza e nella rivalsa. C’è il blues nei testi di Rodrigo Gallardo o nella chitarra scordata di Bon Iver, ma anche nell’hip pop. E’ ovunque, ha sempre senso.

Abbiamo letto che hai registrato il tuo nuovo disco da INDIGO PALERMO da Fabio Rizzo.Siamo davvero curiosi di chiederti come è andata e cosa abbia voluto dire lavorare proprio lì.

È il secondo disco che produco con Fabio, la scelta di tornare in studio con lui per questo nuovo disco è stata davvero naturale. Siamo nel mezzo di un discorso creativo e di ricerca sonora che è partito con il primo disco HULA e che molto probabilmente non si è ancora concluso dopo questo secondo capitolo. Rispetto però al lavoro precedente abbiamo avuto un approccio molto diverso, meno istintivo, meno ‘roots’ e anzi da un certo punto di vista ce ne siamo quasi distaccati completamente. Rimane sempre il percorso aperto verso un certo tipo di sound con una matrice black con una scrittura in italiano ma con questo lavoro abbiamo visto questo connubio da un punto di vista completamente opposto.
Invece di registrare alla ‘vecchia maniera’ con un mixer analogico e ripresa del suono in diretta abbiamo siamo partiti dal mio laptop dove ho incominciato a buttare giù le mie idee nel corso degli ultimi 2/3 anni. Potremmo dire che abbiamo accolto il mondo digitale in quello analogico che è sempre presente ma non è più predominante. Non è stato facile entrare in una nuova attitudine e non lo è stato per entrambi, è stata una vera sfida, non volevamo accontentarci di fare un disco ‘comodo’. In questo senso aver lavorato li ha voluto dire molto, conoscevo già il posto e le persone coinvolte e forse questo è fondamentale per lasciarsi andare a nuove direzioni, o almeno in questo caso lo è stato per davvero.

Abbiamo anche visto il nuovo video, molto evocativo, de “Tempesta”, il tuo nuovo singolo. Diciamo che abbiamo ravvisato una lenta ma costante maturazione nella tua carriera. Ti andrebbe di dirci, secondo te, cosa si è modificato nel corso degli anni dai tuoi esordi ad oggi? 

Ti ringrazio. Non saprei davvero con precisione cosa si è modificato, forse potrei dire il bisogno di andare sempre meglio a fondo in quello che con gli anni ho capito sia essere importante, a livello tematico e a livello sonoro. Lasciare per strada alcuni dettagli per dare invece più luce ad altri. All’inizio avevo quasi un’urgenza di far sentire la mia voce, di essere appunto più istintivo nell’approccio creativo e soprattutto live, mentre forse ora sto cercando di capire come rallentare e riuscire meglio a guardare diverse sfaccettature della scrittura e in toto dell’essere cantautore.


Quando hai iniziato quali erano i tuoi ascolti cardine? E oggi? Sono sempre gli stessi o si sono modificati?

Quando ho iniziato a suonare la chitarra ero molto piccolo e gli unici ascolti che mi attraevano erano Jimi Hendrix, Pino Daniele e tutti i classici gruppi rock come AC/DC, Guns ‘n’ Roses o anche i Metallica. Si modificano in continuazione ma se c’è stata almeno per una volta una forte attrattiva per me tornano sempre, magari quando meno te lo aspetti. Ho ascolti davvero molto vari, dal reggae di Sebastian Sturm al folk contemporaneo di Josè Gonzalez passando dall’elettronica di Nicola Cruz. Va molto a periodi. Credo però che questa schizofrenia di ascolti si rifletta molto anche nei generi che affronto nelle mie canzoni.

Ci parleresti, per tornare alla domanda precedente, al concept del videoclip de “Tempesta”?

Io e il regista, Federico Toraldo, siamo partiti dall’idea che nei videoclip delle canzoni di questo mio nuovo disco io non debba essere il protagonista. Fa parte anche del concept del disco in cui si affronta molto il discorso di quanto sia cruciale oggigiorno l’apparire o il non apparire. Il protagonista quindi è come se prendesse il mio posto e non rubasse la scena alla canzone. In particolare in ‘Tempesta’ l’attore è un amico che ringrazio molto per essersi calato perfettamente in questa parte, Sergio Muniz. Nel video interpreta la parte di un uomo in lotta con se stesso e torturato dal dubbio di non essere stato in grado di promettere le cose di cui parla il testo della canzone.

Domanda secca: un palco dove ti piacerebbe suonare?

Il Folk Club di Torino, è un posto davvero magico. Un piccolo palco che ha ospitato dei veri giganti della musica.


E invece uno sul quale hai suonato agli esordi e che, a ripensarci, ti viene ancora da sorridere?

Barfly di Camden, con un altro progetto quando avevo circa 20 anni a Londra. Mi viene ancora da sorridere perché sullo stesso palco si dice che tra i tanti divenuti poi famosi abbiano suonato anche i ‘Pink Floyd’ quando ancora non si chiamavano così.