[INTERVISTA] “Non più sfighe, ma opportunità”: la stand up comedy di Davide Marini

Noto sul web per i video incentrati sui “Gatti veterani”, “Mirko”, “Mario” e altri curiosi animali, il comico romano è stato ospite del collettivo Torino Comedy Lounge per una serata all’insegna della risata “che libera e migliora l’umore”.


_di Roberta Scalise

Il suo entusiasmo è sconcertante, la passione viva e pulsante, la voglia di far ridere coinvolgente. Quando parla della comicità, delle sue forme e della sua forza propulsiva, i suoi occhi si illuminano e le mani iniziano ad articolare nell’aria le fasi di un discorso che, se fosse per lui, non giungerebbe mai a conclusione.

Classe 1988, parlantina romana e sorriso contagioso, Davide Marini – particolarmente noto sul web per i video virali “Gatti veterani”, “Mirko”, “Mario” e non solo – è stato ospite, pochi giorni fa, del collettivo Torino Comedy Lounge, grazie al quale ha raccontato ironicamente di sé e delle sue sventure quotidiane nel corso del suo spettacolo “Ho fatto bingo”, regalando risate sincere e catartiche a un pubblico attento e adorante riunitosi negli spazi di Off Topic.

Abbiamo chiacchierato con lui a proposito dell’importanza del riso, del ruolo della stand up comedy e delle sue sfumature, alla presenza – a volte un po’ scostante, causa vino, cibo e videogame – di due dei tre membri del Torino Comedy Lounge, Antonio Piazza e Pippo Ricciardi.

 

Iniziamo con la serata che hai da poco svolto a Off Topic, ospitato dal collettivo Torino Comedy Lounge: com’è andata e quale accoglienza hai ricevuto da parte del pubblico torinese?

La serata è stata magnifica, una delle migliori. Ed è stata una sorpresa: ero nel backstage e non volevo vedere quante persone fossero già presenti in sala, ma, una volta salito sul palco, sono rimasto colpito, perché il pubblico era davvero folto, tra ragazzi seduti, in piedi e mezzi sdraiati. Questo genere di ambiente lo adoro, perché in tali contesti è possibile interagire, osservare le facce degli astanti e mettersi in mezzo agli stessi. Di solito, invece, vi è molta distanza, e questa può essere controproducente, soprattutto per me, che amo fare domande e creare un rapporto dinamico con i presenti.

Per quanto riguarda, invece, la tua popolarità sul web: come sono nati i video concernenti i “Gatti veterani”, “Mirko”, “Mario” e tutti i protagonisti delle tue serie? E come è sorta l’idea?

Sono nati tutti per caso circa due anni fa, senza un progetto definito: semplicemente, mi piaceva, e mi piace tuttora, realizzare video doppiati. All’inizio, poi, era più semplice: il primo video che ho creato con Mirko, infatti, durava solo 10 secondi. Per curiosità ho, quindi, deciso di caricare online i primi filmati e, piano piano, oltre al crescente apprezzamento da parte dei conoscenti, ho notato che vi fossero “Mi piace” e condivisioni derivanti da persone che non erano mie amiche su Facebook, insieme a numerosi messaggi di stima e consenso.
E dal momento che i video divertivano in primo luogo me e, con il passare del tempo, anche amici e sconosciuti, ha iniziato a “prendermi bene” e a realizzarne altri.

Quale credi sia il segreto del loro successo?

Penso che i video funzionino per due motivi: sia perché la loro creazione è mossa da un’autentica passione per la risata, sia perché credo che molte persone si rivedano nei personaggi delineati. Questi, infatti, sono tutti, in qualche modo, aspetti di me: dalle problematiche relazionali alle fisse, da determinati comportamenti – che riecheggiano anche quelli di alcuni parenti o amici – a certe situazioni tipiche.
Per quanto riguarda “Gatti veterani”, invece, di me vi è il grande amore per i documentari storici, relativi soprattutto alla Seconda Guerra Mondiale e alla Guerra del Vietnam: spunto per un vero e proprio storytelling al quale, ogni tanto, guardo ancora con incredulità, chiedendomi: “Ma come ho fatto a creare tutto questo?!”.

E, infatti: quali sono le fasi della loro creazione? Quanto lavoro vi è dietro? E, in definitiva, come nasce un tuo video?

Inizialmente era molto semplice: i video scovati in rete erano corti e il lavoro consisteva semplicemente nel doppiarli.
Con il tempo, però, la lavorazione è divenuta molto più complessa ed elaborata: il processo di ricerca è particolarmente lungo, e consiste nella cernita di scene, spezzoni e frame che combacino perfettamente con quanto ideato. Passo ore a cercarli: divento matto! E poi sono un perfezionista: il risultato deve sembrare fluido.

Considerato il seguito ingente, non hai paura, però, di restare “ghettizzato” nella dimensione virtuale?

Certamente, anche perché io ho cominciato a fare il comico dal vivo, perciò sto cercando di far capire ai fan che la mia comicità è rappresentata pure dalla stand up comedy.

Tuoi video di stand up comedy, però, non sono presenti sul web. Perché?

Per un duplice motivo: sia perché, come accennato, sono un perfezionista, quindi non sono mai soddisfatto delle mie performance – anche se le serate vanno bene –, sia perché – anche nel caso in cui si trattassero di soli cinque minuti – non voglio “bruciarmi” i monologhi. Vorrei, infatti, che il mio pubblico li scoprisse direttamente live, senza anticipazioni, in modo tale da garantire l’effetto sorpresa.
Tuttavia, succederà: più avanti, anche in seguito allo spettacolo nuovo, sicuramente caricherò alcuni video delle esibizioni precedenti.

La tua creatività è multiforme: qual è, però, la tua formazione? E come e quando è sorta la passione per questa disciplina?

Fin da piccolo, la comicità ha esercitato, su di me, particolare fascinazione: guardavo Benigni, Proietti, Totò – con mio nonno che lo imitava! – e ho sempre trovato ammaliante il saper fare ridere le altre persone: ridere è troppo bello, genera benessere e migliora l’umore.
Sono, quindi, cresciuto con questi riferimenti, ma non avrei mai pensato di svolgere il mestiere del comico, anzi: spesso mi chiedevo proprio come facessero a non avere paura, sul palco.

Un giorno, però, ho scoperto Satiriasi e sono rimasto particolarmente colpito dalla libertà con cui gli stand up comedian trattavano di certi argomenti: era proprio un altro mondo. Di qui, ho iniziato ad approfondire e, mosso da un “impeto improvviso”, ho iniziato a frequentare l’Accademia del Comico dei Morinibros… Aspetta che ci sono delle persone, fuori dal vetro, che mi guardano come se fossi un animale.

… Dicevo, ho iniziato a frequentare la scuola e, per un po’ di tempo, il mio lavoro di architetto e le esibizioni di stand up comedy proseguivano in parallelo: una volta uscito dall’ufficio, infatti, mi recavo al locale poco distante e, mentre camminavo – proprio come Batman! – mi cambiavo e mi “trasformavo”.
Quel lavoro, poi, l’ho abbandonato, perché, piano piano, ho iniziato a percepire che la stand up comedy fosse quello che “dovevo” fare: non volevo nutrire il rimpianto di non averci mai provato. Ho sempre sentito, infatti, che essa fosse la mia forma di espressione, il mio “elemento”, e questa sensazione si è acuita notevolmente quando ho frequentato l’anno di Accademia: un luogo in cui, da subito, mi sono sentito compreso, circondato da persone che parlavano il mio stesso linguaggio e che, come me, condividevano la medesima urgenza di salire sul palco e parlare liberamente.

A proposito del palco: come lo affronti?

Prima di salire, l’ansia è pazzesca: per mezz’ora, devo chiudermi in me stesso, implodo e sto proprio male. Emozioni forti, che mi fanno sentire vivo.
Una volta sul palco, poi, la paura scende ed è come se si parlasse tra amici.

Immagino, però, vi siano anche momenti in cui il pubblico non risponda nel modo in cui ti aspetti: quali escamotage hai elaborato per fronteggiarli?

Sono solo tre anni che mi dedico alla stand up comedy, per cui non ho ancora delle modalità specifiche. In generale, però, cerco di coinvolgere il pubblico – sebbene l’esperienza necessaria affinché questo riesca sia molta – e di creare dinamicità. In ogni caso, non succede nulla, non si muore, ma in quei momenti si perde semplicemente un po’ di divertimento.

E, invece, i vuoti di memoria?

‘Orca miseria! [ride]. Quelli succedevano più spesso agli inizi, quando provavo i pezzi nuovi. Nel corso degli anni ho, però, elaborato il cosiddetto “palazzo della memoria”: suddivido il mio monologo in paragrafi, a ciascuno dei quali affido un’immagine significativa – un treno, un mostro, un’azione suggestiva. In questo modo, creo, poi, dei collegamenti ed elaboro una storia grottesca costellata di agganci che mi introducono alle differenti fasi del pezzo.
Il problema è quando si viene interrotti, perché spesso si perde il filo e recuperare il discorso può risultare complesso.
Daniele Fabbri consiglia, in questi casi, di guardare il comico in silenzio e non applaudire per sdrammatizzare i vuoti di memoria [ride].

C’è, quindi, spazio per l’improvvisazione?

Certamente! Dal mio punto di vista, essa consiste nel coinvolgere gli astanti: parlare con loro regala sempre molte perle!

[“Ragazzi, io vado a ballare la cumbia!”, interviene Pippo Ricciardi].

E dopo aver lodato la sua meravigliosa camicia…

Ora, una domanda che mi rende sempre molto curiosa: quali sono, se esistono, i limiti della stand up comedy, dal tuo punto di vista? E quali sono i tuoi?

Secondo me, non vi sono. Io, per esempio, parlo di ciò che mi succede nella vita, ma, potenzialmente, si può parlare di tutto. Non ho limiti definiti, ma questo è semplicemente il mio modo di scrivere e muta per ciascuno. Al momento, essendo anche il mio primo spettacolo, parlo di alcuni eventi della mia quotidianità: mi libero di alcuni “pesi” e, in questo modo, se io mi prendo già in giro da solo, ciò che il pubblico mi dice in seguito non mi tocca particolarmente.

Ma quali sono i confini tra “fuori e sopra” il palco? Se qualcuno scherza circa qualcosa che tu hai affrontato sul palco, ma in un contesto differente dall’esibizione, come reagisci?

Non me ne po’ frega’ de’ meno [ride]!
A parte gli scherzi, naturalmente dipende da come le battute vengano fatte, ma, fondamentalmente, la mia reazione è disinteressata, perché scherzare su determinate cose cambia la prospettiva di vita.

La tua realtà, quindi, è cambiata, da quando fai il comico?

Sì, molto: ora vedo opportunità, non più sfighe. Ogni cosa negativa o assurda può diventare, potenzialmente, un monologo divertente. Se questi momenti vengono affrontati così, la vita si alleggerisce.

Per quanto concerne, invece, i social: quale pensi sia il modo migliore per diffondere la stand up in questo contenitore?

I social sono ormai un amplificatore di tutto ciò che si svolge quotidianamente. Io, come già accennato, ho deciso di non caricare ancora video, e ho scelto di utilizzarli per diffondere il più possibile, nel mio bacino di utenza, le segnalazioni delle mie serate. Ognuno, però, è libero di usufruirne come predilige, e, nel complesso, credo che la loro presenza sia senza dubbio positiva per la crescita della stand up comedy.

A proposito dei tuoi riferimenti del genere, invece: a chi ti ispiri?

Tra gli stranieri, citerei: Dave Chappelle, Louis C.K., Brian Regan, Bill Burr, Chris Rock. Vario molto, sia a livello di tematiche, sia a livello di approccio.
Per quanto riguarda la scena italiana, invece, stimo particolarmente: Saverio Raimondo – il cui workshop ha cambiato il mio modo di scrivere –; Daniele Fabbri – un grande: se ho un dubbio, mi rivolgo sempre a lui! –; e, in generale, il gruppo Satiriasi, che ho assunto come punto di riferimento.

E i “veterani”, come ti hanno accolto?

Tendenzialmente, chi ho incontrato si è sempre dimostrato gentile nei miei confronti. Il vero giudice, in questo settore, è il pubblico: se non funzioni, è lui che, presto, te lo fa capire.

A questo riguardo: qual è la cosa più assurda – o più bella – che ti è successa, durante o dopo i spettacoli?

Nei locali che ospitano la stand up comedy, spesso il pubblico beve ed è un po’ alticcio, per cui può succedere che qualcuno dica qualcosa ad alta voce interrompendoti, che rida in ritardo, svenga (!) o – come è successo a un collega, in Toscana – che uno spettatore possa intervenire e rispondere malamente a ciò di cui si sta parlando sul palco. Non ho, quindi, un episodio di riferimento: quando si verificano “deviazioni”, queste diventano, nella maggior parte dei casi, occasioni di risata.

Quanto agli avvenimenti belli o emozionanti, succede spesso – anche a proposito dei video – che qualcuno mi dica di star attraversando un brutto periodo e che, grazie alla mia comicità, la sofferenza sia un po’ alleviata, perché i miei monologhi o le mie risate ne alleggeriscono un po’ l’umore: se ti ho fatto ridere e tornerai, per me è “mission complete”.

Quindi, qual è, per te, il valore della comicità?

Per me, il suo valore principale è la risata che genera, a volte anche fine a se stessa: se so che ci sono riuscito, ho raggiunto ciò che volevo fare.
E la stand up comedy, in questo senso, è un mezzo: coniuga la volontà di far ridere all’urgenza che nutro di dire determinate cose.

Secondo te, la stand up comedy può possedere, in qualche modo, una responsabilità sociale?

Non in maniera definita. A tal proposito, sono d’accordo con ciò che dice Saverio Raimondo, ossia: io ti parlo di una determinata cosa, e se poi tu, in essa, vi scorgi un messaggio profondo per te, tanto meglio. I miei monologhi, però, non sono indirizzati a veicolare contenuti o responsabilità specifici.
La responsabilità che mi sento addosso, al momento attuale, è, infatti, esclusivamente quella di far trascorrere una serata leggera e ricolma di risate.

Che cosa consiglieresti, invece, a chi sentisse la voglia di avvicinarsi alla disciplina?

Se si “sente” un desiderio e un’urgenza viscerali, consiglierei di provarci, e di farlo fino in fondo. Se poi il tentativo non trova la sua foce, almeno è stato fatto.
Se, invece, ci si vuole approcciare al palco perché ora “va di moda”, allora suggerirei di non iniziare neanche: prima o poi, passerà sia la moda, sia la voglia di farlo.

Quanto c’è il rischio che la stand up sia, effettivamente, di moda?

La stand up comedy sta crescendo molto e io, in effetti, ho un po’ paura che possa realmente essere una bolla: presto o tardi, potrebbe scoppiare e finire. Io, naturalmente, spero di no, perché sono convinto che vi sia spazio per tutti e che, se quest’arte crescesse, farebbe bene a ciascun comico. Se, poi, dovesse davvero scoppiare, vorrà dire che rimarranno i più bravi.
Ne riparliamo tra altri tre anni!

C’è una domanda che non ti ho fatto e che vorresti, invece, ricevere?

[“Aspetta, gliela faccio io…”, interviene Antonio Piazza].

Hai mai paura di non riuscire a vivere di questo mestiere per tutta la vita?

Certamente, avoja! Si tratta di un lavoro creativo e, come tale, questo implica che io debba restare sempre attivo, pensare cose che non esistono, inventare e rielaborare.

A questo riguardo: quali sono le fasi di gestazione di un monologo?

Sono molto perfezionista. Solitamente mi focalizzo sull’argomento di cui voglio trattare e ricollego a esso tutto ciò che vi è attiguo. In seguito, creo tanti paragrafi tematici, limo, rileggo, provo e correggo di conseguenza. Fondamentali, in questo senso, sono gli open mic, dove si ha l’opportunità di provare i pezzi e percepire le prime reazioni.

Infine, hai mai avuto ripensamenti?

Prima di salire sul palco, sempre, e mi chiedo: ma chi me l’ha fatto fare?! In quella mezz’ora metto in dubbio tutte le scelte di vita che ho fatto.
Ma poi, una volta in scena, passa tutto.