Lo scrittore, che ha da poco pubblicato “Il viaggio delle verità svelate” – il suo secondo romanzo – ci ha introdotto nel suo mondo letterario e immaginifico con grazie e gentilezza.
_ di Roberta Scalise
Francis Scott Fitzgerald affermava che «questa è tra le cose più belle della letteratura: scopri che i tuoi desideri sono universali, che non sei solo, che non sei isolato da nessuno. Sei parte di». E sembra saperlo perfettamente Ernesto Chiabotto, lo scrittore torinese autore di romanzi e racconti che ha conseguito il consenso di pubblico e critica attraverso la pubblicazione dei suoi due ultimi lavori editoriali, pubblicati entrambi da Neos Edizioni: “Il custode”, tensivo itinerario tra Torino e l’Egitto alla scoperta di misteri e aneddoti archeologici, e “Il viaggio delle verità svelate”, storia di profonda amicizia e promesse in sospeso, tra immersioni nel passato e misteri da dirimere.
Ne abbiamo parlato con lo scrittore, che ci ha introdotto nel suo mondo caratterizzato da viva curiosità, amore sincero per la letteratura e autentica professionalità.
Partiamo dagli albori: come ti sei avvicinato al mondo della scrittura e qual è stata l’urgenza che ti ha condotto a redigere romanzi e racconti?
Non ricordo una data precisa. So, tuttavia, che, fin da quando frequentavo il liceo, ogni tanto scrivevo racconti, qualche canzone – strimpellavo la chitarra – e le immancabili poesie dedicate alle compagne di scuola di cui mi innamoravo. Poi, con il tempo, scrivere è divenuto un modo per trascrivere idee, impressioni e decisioni, affidate, queste ultime, ai personaggi da me inventati. Scrivere, dunque, si è tramutato in un veicolo per dichiarare qualcosa che mi preme, raccontando ciò che si trova dentro di me, ma desidera fuoriuscire.
E per i romanzi è lo stesso, sebbene il processo sia solo un po’ più complesso e difficile.
Quali sono, solitamente, le fasi principali del processo creativo e quali le fonti d’ispirazione che offrono l’abbrivio alla stesura di un testo?
Inizierò dalla seconda domanda: varie. Per i racconti, a volte, devo seguire un tema, soprattutto se essi sono su commissione o indirizzati a un concorso. In questi casi, vi sono limiti, suggerimenti, dimensioni obbligate e temi, e tutto stimola la mia creatività a trovare idee sensate da poter riporre su carta. In generale, però, e soprattutto per i romanzi, vi è un episodio di partenza che offre l’idea. Per “Il Custode”, per esempio, l’abbrivio è stato dato dal racconto di una storia sentimentale, mentre per “Il viaggio delle verità svelate” lo spunto è stato, appunto, un viaggio in Iran e, al contempo, una condizione di necessità derivata dalla richiesta del testo stesso.
A partire dal nucleo, poi, sviluppo l’idea semplice e la elaboro. E dal momento che apprezzo particolarmente i gialli, da tale idea iniziale devio, perché è opportuno succeda qualcosa che stravolga la normalità e costituisca il motivo per cui l’intreccio si ampli. Il primissimo tempo, dunque, lo impiego per pensare, immaginare e aggiustare la trama, cercando di fornire un volto ai personaggi – il tutto senza scrivere una riga. In seguito, invece, quando questo malloppo di suggestioni inizia a divenire troppo pesante da mantenere in testa, comincio a buttare giù appunti e una bozza di trama.
Una volta, inoltre, ero solito scrivere a mano, ora al computer, ma siccome conservo tutto, è davvero buffo rileggere la prima bozza, la prima trama, a lavoro finito: è completamente diversa dal risultato finale! Il motivo credo derivi dal fatto che mi annoia leggere storie troppo lineari. Per cui, quando scrivo, le deviazioni e i cambiamenti devono esserci, altrimenti mi annoierei da solo: e guai a essere annoiati quando si legge. In conclusione, dunque, sia per i racconti che per i romanzi, quando sembra di essere giunti alla fine, inizia il lavoro di taglio e limatura. Questo significa – per me, almeno – asciugare, modificare, cancellare: così, su dieci pagine ne rimangono otto o nove.
Che cosa distingue, perciò, la creazione di un romanzo da quella di un racconto? Come si articolano le due gestazioni?
La differenza è sostanziale. Come affermato precedentemente, per i racconti spesso sussistono limiti precisi – di cartelle e battute –, pertanto la storia è necessariamente più semplice e lo svolgimento più veloce. Mi è capitato, per esempio, di redigere racconti di una sola pagina: in questi casi, non si ha molto spazio per il superfluo, ed è opportuno essere estremamente sintetici. Direi che è un ottimo esercizio.
Per i romanzi, invece, lo spazio è maggiore, quindi l’intreccio può essere più articolato e i caratteri dei personaggi ben definiti e approfonditi. Questo, tuttavia, non significa che si possa “allungare il brodo”, anzi: ritengo che la necessità della sintesi sia, infatti, sempre una linea guida, ma, nel caso dei romanzi, è possibile concedersi approfondimenti e variazioni che non esisterebbero nel racconto. Per il romanzo, inoltre, è fondamentale anche un’accurata revisione, perché nelle storie complesse il pericolo maggiore consiste nel cadere in incongruenze ed errori.
Quali sono, poi, i messaggi che intendi veicolare attraverso i tuoi volumi?
Non credo di dover proporre messaggi, o, perlomeno, non scrivo per questo motivo. Le storie, infatti, sono così dissimili che, per farlo, dovrei avere una saggezza universale che non possiedo. Certo, alcuni punti fermi vi sono, valori che emergono dalle pagine o dalle parole dei personaggi, ma che non rappresentano idee che necessariamente condivido. In futuro, per esempio, ho intenzione di redigere un noir dal punto di vista di un assassino: in questo caso, non potrò essere d’accordo con i suoi pensieri e, soprattutto, con le sue azioni.
Il romanzo o il racconto, quindi, non hanno la medesima funzione di un saggio, che espone una tesi, una proposta. Oltretutto, ciascun lettore elabora quel che legge e lo fa proprio, a modo suo. Da questo punto di vista, mi è capitato di incontrare lettori che hanno trovato, nelle mie pagine, cose che io non avevo inserito, perlomeno non in maniera consapevole. Ed è buffo sapere che qualcuno abbia letto il contrario di ciò che pensavi di aver scritto, ma è così e si deve accettare. Se volessi, dunque, veicolare un messaggio, dovrei, così, accettare che venga accolto anche il suo opposto. Ma io invento storie, non voglio fare proseliti.
Per quanto concerne le tue fonti d’ispirazione: quali sono i tuoi riferimenti letterari, della scena passata e attuale?
Per i “classici” vi è un autore che, per me, è insuperabile e amo totalmente: Victor Hugo. Tra gli italiani, invece, quello che più mi ha fatto venire voglia di provare a scrivere è stato Cesare Pavese, di cui ho letto tutto. Poi ho proseguito, senza un ordine preciso, ma gli autori che mi sono piaciuti molto e mi hanno offerto spunti sono stati senz’altro: Heirich Böll, Michail Bulgakov e gli americani, quali Kerouak, Bukowsky, Salinger, Wright, ecc.
E anche tra gli scrittori attuali vi sono molti professionisti che stimolano. Tra gli italiani, citerei: Marco Buticchi, Donato Carrisi, Gianrico Carofiglio e il Camilleri di Montalbano. Da ognuno di questi ho cercato di imparare qualcosa, riferito soprattutto al modo di costruire la trama o i dialoghi.
Tra gli stranieri, invece, segnalerei senz’altro: Michael Crichton, Wilbur Smith, Dan Brown, Jo Nesbo, Tom Rob Smith. E, poi, la Rowling: come non amare Harry Potter?
Ultimamente, dunque, ho virato maggiormente verso racconti che sono o mirano al “giallo”, o, quantomeno, tengono il lettore incatenato alle pagine. E sto cercando di imparare, perché questa condizione è fondamentale. Ormai viviamo in un modo che corre a tale velocità che, se non si stimola a dovere la curiosità, si perde l’attenzione ed è un guaio.
Infine, una curiosità: il libro che hai appena finito di leggere, quello che stai leggendo e ciò che leggerai, nel corso della pausa estiva.
Il libro che ho appena finito di leggere si intitola “Lo squalo delle rotaie”, redatto da Riccardo Marchina, un “compagno di scuderia” bravissimo.
Quelli che, invece, sto leggendo – a seconda dei momenti e delle situazioni – sono “Don Chisciotte”, un classicissimo, “Lettere da Yerevan”, di Giorgio Macor, e, ancora, “Il grande Gatsby”, che ho ultimamente ripreso – dopo averlo quasi concluso e lasciato sul comodino.
In futuro, sceglierò, poi, dalla pila alta mezzo metro, costituita da libri che ho comprato e che sono ancora lì, ad attendere il loro turno.