Silvio Raffo tratteggia, con uno stile tanto elegante quanto tensivo, una storia torbida di legami, verità inesplicabili e forze ineffabili.
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_di Roberta Scalise
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«Se io non avessi avvertito, ieri per la prima volta, la vipera insinuarsi nelle crepe del muro, lei non sarebbe potuta arrivare fin qui. Non sono forse stato io a scrivere, su questo quaderno, che in “certi punti il muro è quasi ansioso di crollare”? Come ho potuto scrivere una cosa simile? La risposta è semplice e terrificante: la voce della pietra, come sempre, mi aveva dettato il messaggio, e io l’ho trascritto».
Un mistero sopito da strati di roccia e assordante silenzio congiunge Verena e Jakob, incrociando e sovrapponendo due solitudini inermi e spaventate in un intreccio mosso da incomprensioni e velleità di onnipotenza che sfuggono alla ragione e alla benevolenza. E che, con maestria ed eleganza, Silvio Raffo delinea nel suo romanzo, “La voce della pietra”, recentemente ripubblicato da Elliot Edizioni e fonte d’ispirazione della pellicola omonima, diretta da Eric D. Howell e interpretata da Emilia Clarke.
Ad animare la trama vi è, infatti, un’entità dichiaratamente ineffabile e arcana, artefice dell’incontro tra Jakob, giovane ragazzo traumatizzato dall’aver assistito alla morte della madre, la “Colomba”, cui era morbosamente e indissolubilmente legato, e Verena, ortofonista e psicologa particolarmente votata al trattamento di soggetti ritardati e angustiati. Una “vocazione” che, in seguito alla lettura di un annuncio giornalistico, conduce, dunque, quest’ultima presso la – geograficamente imprecisata – “Villa La Rocciosa”, dimora lugubre e contornata di statue minacciose in cui risiedono l’adolescente, Pamela, la zia e “Guardiana”, e Alessio, il domestico.
Gli unici testimoni di un incedere quotidiano lento e insapore, contraddistinto da un’atmosfera di sospensione e vacuità causata dallo stesso Jakob, immolatosi al deliberato inutilizzo della parola e all’ossessionato ascolto della lapide di marmo in cui giacciono i fugaci resti della sua sola fonte di benessere, Malvina – la madre –, e consegnatosi, così, alle conseguenze subitanee e dolorose della sua terribile dipartita. Conseguenze cui Verena cercherà, quindi, di porre rimedio, tentando di instaurare un rapporto che, ben presto, rivela, però, i suoi contorni ambigui, inscindibili e funerei.
Entrambi i protagonisti, infatti – cui Raffo offre espressione, stilisticamente e narrativamente, in tempi e modalità dissimili e disgiunti –, paiono incarnare e veicolare i desideri di una forza occulta e a loro superiore, manifestatasi attraverso il sussurro della pietra, a Jakob, e mediante il verificarsi di coincidenze, premonizioni e sogni rivelatori, a Verena, dando luogo, così, a un reticolato di malvagità, verità celate e sintomi di affezione che avviluppano il lettore in una vischiosa sensazione di angoscia e anelito di scoperta e delucidazione.
Acuita dalle tinte gotiche e metaforiche di cui il testo è intriso, e che tramutano le sue pagine non solo in un romanzo dalla tensione prepotente e incessante, ma anche in una trattazione che si staglia alla stregua di un trasversale “saggio sulla parola”, reso sia dalle frequenti diramazioni riflessive che vertono intorno al potere e alla realtà riecheggiati dalle lettere, sia attraverso la scelta di uno stile raffinato, sapiente e pienamente evocativo.
Il quale, perciò, consente al lettore, con il suo ritmo ovattato e incalzante, di adagiarsi sull’alveo di suspense che esso genera e di lasciarsi travolgere dal volteggio inesausto e abbacinante di spaesamento e colpi di scena, emblemi di un intreccio che elide qualsiasi ancoraggio allo scibile e materializza il dolore sordo della perdita in personaggi e pensieri difformi, perpetuandone, così, il ricordo e le sensazioni.