La temporanea allestita al Centro Italiano per la Fotografia di Torino attraversa quarant’anni di storia italiana grazie agli scatti della celebre “Publifoto Milano”, che ha saputo raccontare le trasformazioni sociali, i grandi eventi, i drammi entrati nell’immaginario collettivo del nostro Paese. Dalla fine del regime fascista alle vicissitudini della “prima” Repubblica, passando per la ricostruzione e il “miracolo” economico. Proponendo una parte dell’immenso materiale dell’archivio dell’agenzia – rilevato dal gruppo Intesa-Sanpaolo nel 2015 – le sette sale ospitano alcune delle immagini più iconiche del panorama mediatico dell’epoca.
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_di Alberto Vigolungo
Il corridoio che accompagna il visitatore nel cuore della mostra è segnato da una lunga linea del tempo: a un estremo data la nascita dell’agenzia di fotografia “Publifoto”, all’altro la morte del suo fondatore, nel 1981. In mezzo, la grande Storia, con i suoi conflitti, le principali innovazioni tecniche e scientifiche, le rivoluzioni del costume, catturati in milioni di scatti, nell’attimo che delimita i confini di questa tecnica di comunicazione figlia del XIX secolo ma così decisiva nella storia del successivo.
Nata a Milano nel 1937 con il nome di “Keystone” su iniziativa del fotografo campano Vincenzo Carrese, l’agenzia Publifoto diventa ben presto una delle più importanti “fucine” dell’immagine della nostra società, arrivando a contribuire in modo significativo all’evoluzione del linguaggio giornalistico che, a partire dagli anni ‘50, si rivelerà sempre più attratto da forme di narrazione più immediate: di fatto, l’attività dell’agenzia è alla base dello sviluppo del fotogiornalismo in Italia, inaugurando uno stile che farà la fortuna di periodici quali “Epoca” e “L’Espresso”. Tuttavia, il “modello” Publifoto consiste non solo in una certa visione innovativa del modo di fare informazione, ma anche nella meticolosa organizzazione del materiale raccolto: non a caso, la mostra pone l’accento proprio su quest’ultimo aspetto. E’ l’archivio a fare dell’agenzia la prima alleata di un giornalismo che, uscito dal tunnel del regime mussoliniano, cerca in quegli anni di risollevare la testa.
La prima delle sette sale emblematicamente suddivise nelle sezioni di un quotidiano celebra così la macchina organizzativa della Publifoto, introducendo il modus operandi di fotografi come Fedele Toscani, per anni collaboratore dell’agenzia milanese: buste titolate, registri e schedari accuratamente compilati fanno da riferimento ad un patrimonio di immagini che, fino agli anni Ottanta, raccoglierà circa sette milioni di esemplari; intorno, una ricostruzione parziale degli ambienti di lavoro, dalla scrivania con il telefono ai classificatori in metallo. Cimeli della professione che fu. E viene da pensare ad una certa “età dell’oro” in cui costruire un giornale richiedeva tempo, sì, ma ciò non comportava affatto un minor numero di pubblicazioni. Le testate erano molte di più, senza contare il volume delle tirature. Il tutto in un’epoca in cui una delle poche reti davvero indispensabili era quella sul territorio: la sede dell’agenzia si trovava in via Solferino, non lontano dalla redazione del “Corriere”.
Il percorso di mostra porta alla prima delle tre sale dedicata alla cronaca, che ospita una selezione dei lavori raccolti e catalogati dalla neonata agenzia. Siamo alla fine degli anni Trenta, la Seconda guerra mondiale è alle porte e il regime mostra i muscoli: in quel periodo, fare cronaca significa soprattutto celebrare l’Impero, corroborare i messaggi di propaganda. Si documentano i comizi, le monumentali parate, le sfilate in bicicletta dei GUF, i saggi ginnici delle giovani fasciste. Ma l’occhio che scruta “nel mirino” si rivela anche capace di cogliere frammenti della storia, di invitare all’approfondimento, smarcandosi dalla contingenza del fatto che è materia prima della cronaca. In questo senso, gli anni della Resistenza immortalati dai fotografi della “Publifoto” rappresentano uno degli esempi più limpidi di una certa “vocazione” storica: ed ecco, nella seconda sala, le immagini di un fervente Sandro Pertini impegnato in un comizio pubblico e dei cadaveri dell’ex duce e dell’amante Claretta Petacci a Piazzale Loreto. Certamente, l’operazione non si sottrae completamente alle derive della propaganda: non mancano scatti basati su pose ricostruite, come il celebre ritratto di un gruppo di partigiane per le strade di Milano (entrato nei manuali scolastici di generazioni di studenti), fino ai “falsi” più smaccati, come si osserva nelle fotografie di un servizio realizzato per “L’Unità”, che rappresentano alcuni combattenti per la liberazione appostati sui tetti della città. Sfondo comune a questo nutrito corpus di immagini è Milano, dove tutto è cominciato e finito.
I primissimi anni Cinquanta vedono riemergere, nel panorama mediatico di un Paese che si regge ancora sul binomio stampa-radio, la cronaca, “nera” in particolare, che aveva avuto pochissimo spazio durante il Ventennio. La ri-esplosione del genere è osservabile in due casi “esemplari” che rivelano il “lato oscuro” dell’Italia della ricostruzione: l’omicidio dell’operaio Sante Zennaro e lo sterminio di un’intera famiglia da parte di un’insospettabile commessa di negozio, Caterina Fort. Anche la cronaca sportiva torna in auge, con il racconto della mitica rivalità Coppi/Bartali, le ultime apparizioni di Primo Carnera sui ring di America ed Europa, le imprese del Grande Torino e la sua tragica fine, che concentra il dolore di una nazione che in quella squadra aveva proiettato sogni e aspirazioni. Indispensabile, per la crescita della cronaca nel corso degli anni ‘60, il generale innalzamento del livello qualitativo del fotoreporting “made in Italy”, anche grazie al lavoro di fotografi del calibro di Vito Liverani, decano del fotogiornalismo sportivo nel nostro Paese; ma si pensi anche al fiorente contesto dei fotografi “d’arte”, di cui Ugo Mulas è stato uno dei massimi esponenti (sono suoi alcuni celebri scatti della Biennale d’Arte veneziana che nel 1964 premia Rauschenberg e la nuova arte americana, o di Andy Warhol all’opera negli studi della Factory…).
La quinta sala, dal titolo Cultura e intrattenimento, offre una carrellata di “icone” della cultura di massa nostrana e non: ecco i fotografi “Publifoto” immortalare De Sica mentre dirige Loren e Mastroianni sul set di Ieri, oggi, domani (1963), così come gli scatti isterici di un’adolescente durante il concerto dei Beatles al Vigorelli di Milano, nel 1965 (uno di essi campeggia nella locandina della mostra).
La sesta sala offre poi uno sguardo sulla società italiana degli anni Sessanta e Settanta, quasi interamente assorbita nel processo di industrializzazione, quindi sulla celebrazione dei suoi “traguardi” economici e tecnologici nell’Esposizione Internazionale del Lavoro tenutasi a Torino nel 1961. L’ultima guarda invece alle società “altre”, a quelle realtà lontane e mastodontiche che hanno aderito all’utopia comunista, dagli eventi celebrativi presieduti da Mao ai quadretti “di costume” realizzati nei distretti industriali e rurali della Russia sovietica. Con tanto di definizioni lapidarie che i fotografi annotano sulle loro buste.
Mettendo insieme una parte esigua dell’Archivio Publifoto, la mostra curata da Aldo Grasso e Walter Guadagnini porta alla luce l’attività di un’agenzia che ebbe un ruolo determinante nel racconto della Repubblica e delle sue relazioni con il mondo, mettendo a fuoco le zone d’ombra di un Paese, come ebbe a confessare Aldo Moro, “dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili”. Lo scrigno è aperto fino al 7 luglio.