Recentemente esibitasi al Jazz Club Torino, la trombettista e flicornista ci ha raccontato i suoi esordi, le sue opinioni a proposito del mondo jazzistico e del ruolo della donna in esso e alcune curiosità circa il processo creativo e i suoi sviluppi.
_
_di Roberta Scalise
Gli albori per la passione musicale, un nonno di successo in ambito jazzistico, gli studi approfonditi e l’ammirazione per i grandi del genere, ma anche la convivenza spesso complicata da comprendere e accogliere tra origini dissimili – britannica e persiana –, le prospettive future e il destino del jazz e il ruolo della donna in un mondo dominato dal maschilismo: la trombettista e flicornista Yazz Ahmed ci ha parlato di questo e molto altro – in seguito alla sua esibizione che, recentemente, ha ammaliato il Jazz Club Torino tra brani dagli echi medio-orientali e gli inediti del nuovo La Saboutese –, in un’intervista dai toni intimistici e autentici.
Qual è la genesi della tua passione per la musica e come e perché hai iniziato a suonare la tromba e il flicorno?
Ho preso in mano la tromba per la prima volta quando avevo 9 anni, nel periodo in cui mi stavo trasferendo a Londra, per merito di mio nonno materno, che fu un trombettista jazz di successo negli anni ‘50 e mi impartì la mia prima vera lezione. Nella sua carriera, suonò con artisti del calibro di John Dankworth, Tubby Hayes, Ronnie Scott e molti altri, e, in seguito, divenne produttore per Pye, prima, e per Philips Records, dopo. Osservai, quindi, Terry, il mio eroe, e capii che la tromba fosse lo strumento dal quale ero maggiormente attratta.
Il flicorno, invece, arrivò successivamente. Quando iniziai a suonare nella giovane orchestra jazz locale, infatti, notai che alcuni brani fossero scritti per il flicorno, appunto: uno strumento di cui non ero a conoscenza e che subito mi intrigò. In qualche modo, ho scovato un vecchio flicorno Yamaha e lo provai: lo amai subito! Questo strumento, infatti, mi consente di modificare l’indole di una composizione e, quando improvviso, mi offre la possibilità di aggiungere colori che risultano in contrasto con la mia tromba: due strumenti, dunque, che mi propongono differenti voci con le quali esprimere me stessa.
Quali sono le tue ispirazioni musicali e come coesistono nel tuo repertorio?
È una lista davvero molto ampia, ma, tra tutti, nominerei: Dizzy Gillepsie, Woody Shaw, Joe Handerson, Tubby Hayes, Miles Davis, Kenny Wheeler, John Taylor, Alpha Blondy, Jon Hassell, Amir El Saffir, Aphex Twin, Bjork, George Crumb, Steve Reich, Radiohead, A Tribe Called Quest, Joni Mitchel, Weather Report, DJ Khalab e Jason Singh and Bargo 08. Dovrebbero tenervi impegnati su Spotify per un po’!
Quale direzione dovrebbe assumere, secondo te, il jazz, e quale pensi sia il suo destino?
Il jazz è in continua evoluzione, sempre intento a mescolarsi con altri generi, background ed esperienze. Credo che se il jazz voglia sopravvivere e continuare il suo viaggio, noi dovremmo assumere una mentalità aperta e collaborare tra di noi: per raccontare storie, rompere le barriere, protestare, unirci e condividere. Per me, questi elementi sono davvero importanti.
«Se le donne non suonassero il jazz, il mondo diventerebbe più povero»
–
Come convivono, invece, le tue origini (britannica e bahraini) nel tuo sound?
È occorso molto tempo per trovare la mia voce musicale. Negli ultimi anni, infatti, ho sviluppato un linguaggio sonoro capace di trovare accordo con il mio crescente senso di identità di donna britannica-bahraini.
A ispirare i miei esperimenti di fusione tra il jazz e la musica araba, poi, è stato il ritrovamento casuale di un album di Rabih Abou-Khalil, “Blue Camel”, che comprende l’intervento del mio trombettista e flicornista favorito, Kenny Wheeler: udire le sonorità evocative della mia infanzia unite all’improvvisazione jazz, divenuta la mia passione, ha acceso una scintilla in me.
Fin dai miei studi, inoltre, ho sempre sostenuto che jazz e musica araba lavorassero meravigliosamente, insieme: entrambi i generi, infatti, condividono storie di avversità e sacrifici, ed esprimono emozioni in maniera melodica e attraverso l’improvvisazione. Ancora, jazz e suono medio-orientale utilizzano ambedue determinate scale, caratteristica che, per me, divenne la chiave per aprire la porta a questo nuovo mondo sonoro.
E comporre la mia suite “Alhaan al Siduri”, nel 2015, mi ha avvicinato ancora di più alla mia eredità bahraini: questo brano, infatti, è stato ispirato dalla musica folk del mio paese d’origine, il Bahrain, e mi ha costretta a effettuare ricerche e a connettermi a un livello maggiormente profondo a questo contesto. Inoltre, le lezioni che ho appreso visitando i pescatori di perle locali, ascoltandoli cantare e apprendendo la musica suonata dai gruppi di donne percussioniste, mi ha aiutato a comprendere il mio patrimonio e a caratterizzare le mie composizioni, ispirate, così, dai testi di queste canzoni, dalle emozioni, dai ritmi e dai vari strumenti ivi scoperti. Tutti elementi che, ora, colorano la mia musica.
A tuo parere, qual è il ruolo della donna nel panorama musicale e quale dovrebbe essere il suo apporto a esso?
Le donne sono ancora una minoranza nel mondo jazzistico, ma sembra che la nostra presenza stia facendo effetto. In generale, ciò che apportiamo è l’equilibrio: noi offriamo una prospettiva leggermente diversa, forse perché abbiamo motivazioni differenti che guidano la nostra creatività, derivate dalla nostra esperienza di vita.
In tutto il mondo, infatti, le ragazze, nel corso della loro crescita, vengono trattate in maniera dissimile fin dall’inizio, influenzate dalle aspettative della società, della famiglia e delle istituzioni educative. E una donna che diviene celebre in ambito musicale deve avere un desiderio realmente forte per rompere gli schemi.
La cultura jazzistica tradizionale, poi, è sempre stata molto maschilista nella sua natura. Lo sviluppo e l’apprendimento, spesso, trovano spazio in sessioni altamente competitive e “taglienti”, dove i musicisti tentano di far meglio degli altri in un contesto di “o la va o la spacca”. Non tutte le donne, però, sono state preparate a rischiare di essere umiliate o considerate ridicole per un potenziale fallimento o, semplicemente, a essere giudicate da criteri superficiali, e frasi quali “non male per una ragazza” o “lei suona come un uomo” sono, purtroppo, molto familiari.
Le donne, in definitiva, hanno storie e musica da condividere e un analogo contributo da apportare alla creatività umana: se non incontriamo opportunità per realizzarci, saremmo escluse e il mondo sarebbe un mondo più povero.
Per quanto riguarda, invece, La Saboutese: perché questo titolo, qual è stato il processo creativo e qual è il messaggio che intendi veicolare con i suoi brani?
La Saboutese è il nome che ho dato al mio Sé critico: quel personaggio con la voce distruttiva e malevola, che vuole indebolirmi e sminuire le mie conquiste, tarpandomi le ali. Lei non vuole che io crei musica, ma, piuttosto, che io stia tranquilla, perciò è l’unica vera parte del processo creativo con cui ho dovuto combattere per trovare il coraggio di esprimere me stessa.
Riconoscere la sua voce e accettare che, nonostante sia parte di me, non devo ascoltare ciò che mi dice, mi ha aiutato a diffondere il suo potere per poi distruggerlo. Si dice spesso che gli artisti siano i propri critici peggiori, e penso assolutamente che questo sia vero. Ma credo anche che la voce della Saboutese sia familiare anche a molte persone al di fuori della comunità artistica, e spero che mettere in luce le mie insicurezze e parlare delle stesse possa aiutare le altre persone a superare i propri demoni.
Qual è, invece, un artista che ammiri e con il quale avresti il piacere di collaborare?
Sono molti gli artisti che ammiro, ma con due avrei un immenso piacere di collaborare: Bjӧrk e Flying Lotus. Il loro utilizzo dei beat, le loro registrazioni, il loro modo di suonare dal vivo e i collage musicali che creano penso siano davvero intriganti e d’ispirazione.
A proposito, infine, del live al Jazz Club Torino: che cosa ne pensi e come definiresti l’ospitalità sabauda?
È stato un bel momento, molto divertente. Il pubblico è stato particolarmente accogliente e ha iniziato ad assistere al concerto seduto a terra, per poi alzarsi alla conclusione e danzare. Alcuni astanti, inoltre, hanno applaudito e risposto positivamente ai groove funky del bis. Torino ci ha trattato benissimo, si è presa cura di noi e ci ha fatto sentire benvoluti, e anche il pasto è stato delizioso!