[REPORT] Kokoroko: radici africane e sonorità urban si incontrano al Pisa Jazz

Gli otto membri della band afrobeat – di base a Londra – hanno saputo coinvolgere e appassionare, in una sorta di danza collettiva, il pubblico del Cinema Lumiere, avvolgendo gli astanti con sonorità che coniugano la lezione dei grandi maestri del genere con moderne sfumature urban.

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_di Roberta Scalise

Sheila Maurice-Grey, Cassie Kinoshi e Richie SeivWright posseggono le sembianze di tre danzatrici africane, mentre conducono sapientemente i propri strumenti – rispettivamente tromba, sassofono e trombone – e muovono i fianchi a un ritmo che sembra scandito da “demoni” interiori imperscrutabili, immerse in un flusso perpetuo di risonanze dagli echi remoti e, al contempo, estranianti e rassicuranti.

Echi che hanno contraddistinto l’intero concerto dei Kokoroko, band afrobeat di stanza a Londra esibitasi al Cinema Lumiere di Pisa, mercoledì 20 febbraio, in occasione del rinomato Pisa Jazz, festival che intende promuovere, nel corso di tutto l’anno, iniziative e live variegati in numerose venues della città e che, per la sua nona edizione, ha scelto un titolo emblematico: “A Jazz Odyssey”, ossia un itinerario sonoro costituito da quindici appuntamenti rappresentanti ciascuno una tappa di un viaggio metaforico, volto alla scoperta delle terre ed ere principali della storia della cultura musicale.

Una promessa che è stata pienamente mantenuta dagli otto elementi costituenti il collettivo suddetto: musicisti dalla bravura avvolgente e abili guide in un mondo armonico e melodico dal battito incalzante, capace di penetrare nei pori degli astanti e di condurre questi ultimi a scuotere irresistibilmente corpi e anime, trascinandoli in un immaginario ed euforico cerchio di movenze africane.

Movimenti sostenuti da brani – tra i quali si annoverano, soprattutto, i celebri “Uman” e “Abusey Junction”, posti in apertura, e “Colonial Mentality” – che assumono i particolari di vere e proprie suite musicali: scie sonore cullanti e indomabili, talvolta lunari e riflessive, talvolta festose e colorate, sfumate da assoli sorprendenti e variazioni sul tema stese su un letto ritmico di batteria (Ayo Salawu) e percussioni (Onome Ighmare) ipnotico, con linee di basso cavernose (Mutale Chashi), tastiere dalle lontane reminiscenze dream pop (Yohan Kebede) e chitarre miranti a vette di acustico (Oscar Jerome).

Un live, dunque, estremamente godibile, dai sapori che traggono palese ispirazione dai grandi maestri del genere – Fela Kuti, Ebo Taylor, Tony Allen, in primis, e i suoni della West Africa, nel complesso –, radici alle quali i membri del gruppo hanno saputo, però, affiancare, con accuratezza e maestria, cromatismi innovativi e moderni, propri dell’urbano e caotico sound londinese.