Svetlana Aleksievič e l’epopea delle donne sovietiche nella Seconda Guerra Mondiale

Dopo il silenzio soffocato da una Storia raccontata dagli uomini, la guerra “al femminile” prende voce nell’incontro tra il premio Nobel per la letteratura, Svetlana Aleksievič e le donne sovietiche al fronte. La guerra non ha un volto di donna, edito Bompiani, non parla della guerra ma delle persone nella guerra.

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_di Federica Bassignana

La Storia si umanizza: uno spaccato di normali esistenze, vite comuni, persone ordinarie e testimoni muti di quell’orrore che è la Seconda Guerra Mondiale. Ma c’è di più: protagoniste di questa Storia, sono le donne, giovani volontarie accorse al fronte in nome dei propri ideali per difendere la Madre Russia.

In un meticoloso lavoro di indagine, Svetlana Aleksievič ha raccolto centinaia di interviste e ha unito allo sguardo giornalistico, la pratica dell’ascolto. In un dialogo sincero e coinvolto, i ricordi delle donne hanno evocato la propria guerra, la propria versione dei fatti, l’impeto dello slancio, l’amore di patria, il desiderio di liberazione, la brama della Vittoria, la paura, la sofferenza e la miseria.

A ogni capitolo, il lettore si imbatte nei racconti di donne diverse, nomi e cognomi seguiti dal proprio ruolo ricoperto in guerra: aviatrici, infermiere, radiotelegrafiste, combattenti clandestine, partigiane, cuciniere, lavandaie, carriste, medici, istruttrici sanitarie, addette alla contraerea e così via.
Un romanzo polifonico nel quale si dà voce a chi, per anni, una voce non l’ha avuta; a chi si vergognava e ha cercato di dimenticare; a chi faticava a ricordare; a chi aveva paura; a chi è ancora oggi convinto delle proprie scelte e chi, invece, forse avrebbe agito diversamente.

«Voglio parlare! Vuotare il sacco! Finalmente vogliono ascoltare anche noi. Abbiamo taciuto per così tanti anni, perfino tra le pareti di casa!»;  «Non posso.. non posso ricordare. In quei tre anni che è durata la mia guerra… non sono più stata una donna»; «Avevamo tutte quante un solo desiderio: partire per il fronte. Se non avevamo paura? Certo che l’avevamo!»; «Non sono un’eroina, ero una bella bambina, poi è arrivata la guerra… e non avevo nessuna voglia di morire. Sparare mi faceva paura e non avrai mai pensato che un giorno avrei imparato a sparare»; «Il mio sarà un racconto molto semplice… Il racconto di una semplice ragazza russa, come ce n’erano tante».

Un accordo di racconti differenti, con un inizio differente, una motivazione differente, un sentimento differente, un particolare differente e come unico denominatore comune a incorniciare la narrazione: la guerra.

Una storia dei sentimenti in cui si racconta la vibrante contraddizione della donna al fronte: per colei che dona la vita, la custodisce dentro di sé, la culla e la porge al mondo, dispensare la morte non può essere facile. La donna al fronte smarrisce la percezione di sé stessa e la sua comprensione della guerra è ancora più carica di sofferenza rispetto alla visione “maschile”, perché quelle giovani donne erano state abituate a tenere in braccio le bambole, e non i fucili.

Ciò che è stato ed è passato inosservato diventa l’argomento di questo «monumento alla sofferenza e al coraggio dei nostri tempi», come recita la motivazione dell’Accademia di Svezia al conferimento del premio Nobel nell’ottobre 2015.
Svetlana Aleksievič tende l’orecchio verso quel dolore e quel coraggio e dona alla letteratura quei “dettagli inutili” che la censura e l’autocensura volevano eliminare. Dati essenziali che «costituiscono il calore e l’evidenza della vita», piccoli particolari che hanno segnato l’esistenza delle persone e che trasportano i lettori in un mondo di guerra “al femminile” che ha – afferma la scrittrice – «i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti e anche parole sue».