Sembra che il cinema ultimamente abbia preso a cuore le squadre di rinnegati e sbandati. Ha cominciato Nick Fury nel 2012 mettendo insieme gli Avengers, l’ha seguito Star Wars con una squadra per rubare i piani della Morte Nera (“Rogue One”) e sono stati riesumati per grazia di remake anche “I Magnifici 7”. In “The Greatest Showman”, tocca a Hugh Jackman assemblare la sua, nei panni di Phineas Barnum, l’imprenditore e showman americano che inventò il circo.
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_di Sara Carda
In un’epoca di moralismo bigotto e melodrammi di virtù teatrali, Barnum portò sotto i riflettori emarginati e deformi, mostrando il bello dell’essere unici, non canonici. Di sicuro la squadra meno convenzionale a memoria d’uomo, perché gli eroi che Barnum chiama a raccolta sono i “freaks”, i fenomeni da baraccone da cui la gente si allontana. La donna barbuta, l’uomo più alto del mondo, l’uomo lupo, coloro relegati dalla società nell’ombra con la convinzione di essere inferiori, orribili, perché diversi. Eroi senza armatura e senza super poteri, che non proteggeranno mai il mondo da un’invasione aliena, ma forse lo salveranno da una minaccia ben maggiore, quel sordido male chiamato Convenzione Sociale, che soffoca individualismo e inventiva, sotto il manto del rassicurante perbenismo spicciolo.
È la sconfitta di questo male l’obiettivo che Barnum e la sua squadra si danno, in una lotta che porta all’affermazione di una frase che ha sempre fatto paura, ovvero che la diversità è ricchezza, non una colpa, non un demerito, né un pericolo. Una lotta vecchia di secoli ma che è più attuale che mai perché l’omologazione, nel suo essere stagnante, offre quella tranquillità che è un rifugio duro da abbandonare per le menti ristrette. Una tranquillità che però a volte vale la pena mettere a rischio per vivere un’emozione che smuovi le acque del conformismo sicuro ma apatico e veder emergere un’idea che illumini il futuro.
Tra biografia e licenze artistiche, Hugh Jackman è un Barnum perfetto, un istrione che ci ricorda questa lotta da combattere e ci chiama a schierarci. Sin dalla prima scena, è uno showman con una carica elettrica tale da far vibrare la pellicola. Vederlo fuori da ruoli da macho alla Wolverine è sempre un po’ straniante, ma il talento poliedrico lo aveva già tirato fuori nel 2012 quando aveva sorpreso mezzo mondo ne “Les Miserables” (era Jean Valjean) con un Do di petto tale da fargli guadagnare la Nomination agli Oscar. Qui si riconferma artista a tutto tondo, aggiungendo all’elenco dei talenti il ballo, dimostrando come sia possibile coordinare anche un quintale di muscoli.
Un’ottima interpretazione che però non eclissa gli altri talenti del film, il cui punto di forza maggiore è forse proprio di essere un’eccellente prova corale.
Accanto a lui, Zac Efron, qui drammaturgo con la nausea per l’alta società, rispolvera scarpe da ballo e corde vocali e proprio tornando al genere che lo aveva lanciato dieci anni fa, mostra lo stacco da quei tempi, dimostrando che non sono solo i lineamenti ad essersi affinati negli anni. Una coppia che nessuno avrebbe previsto, quella Jackman-Efron, ma che funziona a meraviglia sullo schermo, due dinamo che si caricano a vicenda ed esplodono in un fuoco d’artificio.
Le colleghe femminili non sono da meno. La giovane Zendaya (l’ultima incarnazione di MJ in “Spiderman – Homecoming”) è l’acrobata emarginata per il colore della sua pelle, che fa perdere la testa a Efron, in un amore alla Romeo e Giulietta che sfida le convenzioni sociali su un altro fronte, i pregiudizi razziali. Il loro duetto si libra in bilico su un cerchio, che li allontana e avvicina, metafora di vita, in un romanticismo soffuso e sofferto. Il plauso maggiore è però per la donna barbuta, Keala Settle, direttamente da Broadway per intonare la canzone vincitrice dei Golden Globes di quest’anno, “This is me”. Lei è la portabandiera di quel riscatto sociale, linea guida del film, sia dentro che fuori la pellicola perché l’interpretazione della Settle, di forte imposizione, surclassa quella delle due colleghe più rodate nel cinema e di canonica bellezza, Michelle Williams e Rebecca Ferguson, abbastanza piatte e dalla presenza dimenticabile. Sarà che in un film in lode ai freaks la donna angelicata diventa banale, ma qui impallidisce fino a scomparire senza lasciar traccia della sua presenza.
«La Convenzione Sociale ha tradotto “mostro” con “orribile”, ma il “monstrum” in realtà è un prodigio divino, un qualcosa di unico che rompe la normalità. “The Greatest Showman” ce lo ricorda e dà una grande lezione, se vuoi essere felice, se vuoi distinguerti, devi accettare il freak che è in te, solo così potrai emergere e urlare con orgoglio “This is me”»
Due canzoni in meno avrebbero equilibrato meglio il rapporto tra recitato e cantato, in particolare è ininfluente la canzone solista della Williams, ma le atmosfere pirotecniche da cabaret alla “Moulin Rouge”, d’obbligo in un film che parla del teatro e della sua capacità di incantare, compensano pienamente. Come tutto, anche le coreografie negli anni si sono evolute e più che di ballo si parla di vere e proprie acrobazie. Così se a John Travolta bastava ancheggiare su una panchina per dichiarare il suo amore a Sandy, il povero Zac deve lanciarsi da un palco di tre piani e afferrare la sua bella al volo a tempo di musica per avere una chance. E anche un musical diventa Mission Impossible, segno dei tempi.
Ma in un film sulla bellezza del circo ci sta, non è una serenata al chiaro di luna, è un caleidoscopio di emozioni che deve convincerti che l’ “impossibile comes true, it’s taking over you, this is the greatest show”, come promette Jackman/Barnum stesso nella canzone di inizio.
E la promessa viene mantenuta perché “The Greatest Showman” “it’s fire, it’s freedom, it’s flooding open”. La trama avrebbe sostenuto anche un normale film in costume sulla biografia di Barnum, ma sarebbe stato una banale goccia nell’oceano con gli spunti di riscatto sociale e amore impossibile di facile empatia. La scelta del musical è azzeccata perché è nell’incanto delle coreografie che emerge lo spirito di Barnum, il suo modo di fare spettacolo, quell’emozione che è un dovere regalare a un pubblico che chiede una pausa dalla realtà. E in quella sospensione della realtà, quando i confini tra noi e il film si fanno labili, ci si rende conto che quei “freaks” bistratti alla fine siamo proprio noi. Noi, in lotta con un disagio perenne perché bombardati da modelli di irraggiungibile perfezione da seguire, che ci affanniamo in una corsa all’omologazione vendendo in bacheca foto che ci mostrano non come siamo, ma come vogliamo che gli altri ci vedano, ovvero uguali a loro, nell’incubo di essere giudicati strani o diversi.
Dei “freaks”, dei mostri. Ma non c’è nulla di male ad essere un mostro, ce lo urlò anche Lady Gaga nel 2009. La Convenzione Sociale ha tradotto “mostro” con “orribile”, ma il “monstrum” in realtà è un prodigio divino, un qualcosa di unico che rompe la normalità. “The Greatest Showman” ce lo ricorda e dà una grande lezione, se vuoi essere felice, se vuoi distinguerti, devi accettare il freak che è in te, solo così potrai emergere e urlare con orgoglio “This is me”.