Un affare di famiglia di Kore’eda Hirokazu: la rete sottile, ma resistente, degli affetti

Fedele alle tematiche sociali che hanno ispirato il suo cinema fin dagli esordi, Kore’eda Hirokazu si rende nuovamente testimone di una realtà sofferta, in cui ogni sistema di welfare è ormai saltato. Antidoto all’agonia dello stato sociale è la famiglia, in tutte le sue forme. Un osservatorio privilegiato del regista nipponico, che porta avanti la ricerca di Ritratto di famiglia con tempesta. L’ultima Palma d’oro al miglior film a Cannes è ancora in programmazione nelle sale.

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_ di Alberto Vigolungo

Osamu e Shota sono gli “uomini” di una famiglia riunita per necessità in una piccola casa alla periferia di Tokyo: ne fanno parte nonna Hatsue, che vive della pensione di reversibilità lasciatale dal marito, la moglie di Osamu, Nobuyo, che lavora in una lavanderia e Aki, ragazza peep-show a tempo perso. Osamu è un uomo buono e simpatico, che sbarca il lunario lavorando saltuariamente nei vari cantieri urbani, mentre Shota è in realtà un ragazzino che è stato raccolto dall’uomo e da sua moglie quand’era molto piccolo, in un parcheggio. Insieme vivono alla giornata, compiendo piccoli furti al supermercato che gli consentono di mettere del cibo in tavola, alla sera. Sotto la guida esperta di Osamu, Shota ha imparato tutti i trucchi del “mestiere”.

Una sera d’inverno, di ritorno dalla loro caccia quotidiana, i due incontrano una bambina abbandonata sul balcone di casa. Non dice nulla, soltanto li spia da dietro il pannello che circonda il suo spazio. L’uomo decide di condurla con loro, per offrirle un po’ di cibo e calore. Giunti a casa, a poco valgono gli inviti della famiglia alla bambina, che mangia qualche crocchetta restando in disparte, e apre bocca soltanto per dire il suo nome e l’età: Yuri, cinque anni. Dopo cena, con la bambina che nel frattempo si è addormentata, Osamu e sua moglie si avviano verso la sua casa, per riconsegnarla ai propri genitori ma sentendo la lite tra i due, Nobuyo decide di tornare indietro con la piccola. Constatando la solitudine di Yuri e scoprendo i maltrattamenti che porta sulla propria pelle, la famiglia decide di tenerla con sé. Ben presto Yuri diventa la beniamina di casa: le donne, in particolare Nobuyo, si prendono cura di lei, mentre Osamu la accoglie come una figlia. Shota è più restìo, tuttavia non rinuncia a cercare un dialogo, insegnandole ad avere rispetto per se stessa. Quando la televisione diffonde la notizia della scomparsa di Yuri, Osamu vorrebbe riportarla indietro, ma ancora una volta Nobuyo si oppone. Juri – questo è il suo vero nome –  che da allora si farà chiamare Rin, rimane con loro.

«La grande attenzione di critica sollevata dalla vittoria della Palma d’oro non può che offrire l’occasione per una scoperta più approfondita dell’opera di questo regista, uno dei protagonisti indiscussi del cinema mondiale di questi anni Dieci»

La precaria quotidianità dei personaggi è scossa dalla morte improvvisa della nonna: Osamu non denuncia l’avvenimento per paura delle autorità e decide di seppellire il corpo sotto la stessa casa. Pochi giorni dopo, dopo aver attirato su di sé l’attenzione dei commessi di un supermercato rubando un sacco di arance per proteggere la sorellina, Shota di getta dal parapetto di una strada sopraelevata, rompendosi una gamba. Il suo ricovero segna l’inizio del dissolvimento “di fatto” della famiglia, sulla quale si stringono rapidamente le maglie della legge: sorpresi ad abbandonare la casa, di notte, dopo aver saputo che il ragazzino è  in ospedale, i quattro vengono fermati dalla polizia. Quando Shota, interrogato dagli inquirenti, viene a conoscenza del fatto, sentendosi tradito, decide di parlare, e di denunciare la propria condizione. Nobuyo sarà trattenuta in carcere con l’accusa di sottrazione di minore, Osamu è costretto a trasferirsi in un nuovo appartamento, solo, così come Aki, che viene a sapere dei sotterfugi di nonna Hatsue ai danni dei suoi genitori; la piccola Juri, la cui scomparsa era ormai diventato un caso di cronaca nazionale, è restituita alle angherie di una madre molesta; Shota, dimesso, è affidato ai servizi sociali e mandato a scuola.

Shota non riesce però a stare lontano dalla sua famiglia e, contravvenendo la legge, trascorre una nottata in compagnia di Osamu: mangiano cena, giocano con la neve che cade copiosa nel cortile del condominio, dormono l’uno accanto all’altro. Prima del sonno, il ragazzino chiede al padre se la famiglia avrebbe davvero voluto fuggire senza di lui: Osamu non mente, e ammette tutto quanto. Il mattino dopo, poco prima di salire sull’autobus che lo riporti alla comunità, Shota afferma di aver deliberatamente confessato alla polizia e, senza voltarsi, si avvia per prendere posto. Non si volta nemmeno quando vede l’uomo correre lungo il marciapiede, chiamandolo per nome. Solo in seguito, quando Osamu è ormai lontano, il bambino guarderà fuori dal finestrino e pronuncerà la parola che l’uomo aveva sempre desiderato sentirsi rivolgere: “Papà”. Nel frattempo Juri, di nuovo abbandonata sul balcone di casa, sale su una scatola, pronta a gettarsi nel vuoto.

Se in Ritratto di famiglia con tempesta (Umi yori mo Mada Fukaku 海よりもまだ深く, 2016) Kore’eda si era soffermato maggiormente sui sensi di colpa di un padre separato di una famiglia del ceto medio, lasciando emergere un riferimento alla questione sociale del proprio Paese e in particolare alla crisi del lavoro, Un affare di famiglia (Manbiki kazoku 万引き家族 , 2018) apre ad un’indagine ancora più approfondita in tale direzione, configurandosi subito come un affresco corale capace di rappresentare nitidamente le vicissitudini individuali e collettive di questo nucleo tanto unito, quanto fragile.

L’infortunio di Osamu sul luogo di lavoro e il mancato riconoscimento dell’indennità, il licenziamento di Nobuyo dietro il ricatto di una collega senza scrupoli, ricadono drammaticamente sull’economia di una famiglia retta unicamente dalla solidarietà e dall’aiuto reciproco come “armi” per la sopravvivenza, in una realtà sociale al collasso. Perennemente clandestina, ignorata dalla società, la condizione di Osamu e dei suoi famigliari non può che perseguire dinamiche da regno animale: analogia fissata nella storia del pesciolino Swimmy, la lettura preferita di Shota. La denuncia politica di Kore’eda è in tal senso molto forte, non certo subalterna al melodramma che qui vi si rappresenta. Il regista imbocca questa strada compiendo un’operazione per certi versi “neorealista”, cioè leggendo il presente storico della società giapponese a partire dagli ultimi, dalla silente quotidianità di individui che vivono letteralmente alla giornata e di cui nessuno sembra volersi preoccupare.

Il confronto con realtà ancora più disagiate passa inevitabilmente attraverso quello con i luoghi.

La Nerima dell’infanzia dello stesso regista (che fa da sfondo a molte scene di Ritratto di famiglia con tempesta) lascia spazio ai sobborghi più poveri della capitale: è la Tokyo dei kōgai, catturata dalla cinepresa attraverso campi lunghi che abbracciano un intero contesto, rivelando un presente immobile tra gli scheletri dell’era industriale. Le ristrettezze che contrassegnavano le giornate di Shinoda Ryota sfociano nella miseria di una famiglia sconosciuta all’anagrafe, che non può far altro che affrontare i problemi con spirito di reciprocità e calore umano, lo stesso che anima Osamu nel suo tentativo di farsi accettare come padre dal ragazzino che raccolse dalla strada, o che emana la figura della nonna, cui Aki, la fuggitiva, la ragazza dal passato a lungo sconosciuto, si confida con attaccamento quasi infantile.

O.: Secondo te, che cos’è che unisce davvero le persone?

A.: Normalmente, sono i soldi.

O.: Già, ma non siamo normali, noi…

L’attenzione ai temi sociali in un’epoca postindustriale, alle differenze acuite da un’economia dalle mani libere, non certo nuova alla poetica di Kore’eda, è ribadita in questo film in termini “balzachiani” (già in un’intervista rilasciata al The Guardian nel 2015, il regista si accostava con decisione a Ken Loach, per intenderci): soltanto nel ristretto guscio affettivo – simbolicamente rappresentato dalla casa – , i personaggi possono esprimere la propria umanità, al riparo dalle ingiustizie e dalle umiliazioni che sperimentano nella vita “là fuori”, in cui soltanto il denaro conta davvero. Da questo punto di vista il regista non fa davvero sconti, rappresentando una realtà sociale nella quale aspetti importanti della socialità (il tempo libero, i rapporti con l’altro sesso) non sono pensabili senza la mediazione del denaro: la realtà delle sale giochi, monumentali e rumorose, ma anche di club anonimi per cuori solitari, che realizzano le fantasie di uomini che non riescono a vivere la propria sessualità. Luogo, quest’ultimo, che richiama direttamente il peep-show di wendersiana memoria…

Emblema di questo dissidio che scaturisce dalla volontà di scoprire un mondo diverso dalle privazioni e dagli espedienti che contrassegnano le giornate della famiglia è Shota, unico personaggio “critico” del film: quella che all’inizio è per il ragazzino la ricerca di un’identità propria e degli altri (la sua resistenza a chiamare Osamu “papà”, così come quella a riconoscere in Juri una sorella) diventa infatti messa in discussione dell’intero sistema di valori che sorregge il suo nucleo, che si concretizza nel rifiuto di spalleggiare l’adulto nel furto di una borsetta in un parcheggio deserto.

Il senso di un’attesa per qualcosa che imprima una svolta trova perfetta rappresentazione nell’epilogo della fuga del ragazzino da un supermercato, dopo aver attirato su di sé l’attenzione per impedire che i commessi scoprissero il maldestro tentativo di taccheggio da parte della sorellina: Shota scavalca un parapetto sotto lo sguardo dei commessi che l’hanno braccato, quindi sparisce dalla loro (e dalla nostra vista) gettandosi nella strada sottostante con la refurtiva, un sacco di arance che, dopo la caduta, si disperdono nella via rotolando come palle sulla superficie di un biliardo, nel silenzio surreale lasciato dal passaggio di un treno superveloce. Il senso di sospensione sul destino di Shota è tutto racchiuso in quest’immagine fissa, e accentuato dalla posizione elevata della cinecamera, con quelle arance che sembrano non fermarsi mai.

L’inquietudine del personaggio è incentrata soprattutto sul rapporto tra lui e Osamu, caratterizzato da un virile cameratismo (inizialmente non tollera l’intromissione si Juri) ma anche da una distanza che, almeno a parole, Shota non vorrà annullare. Cresciuto sotto i suoi insegnamenti, il ragazzino vede progressivamente nell’adulto una guida “fallace” che lo allontana dal mondo, maestro di un’educazione alternativa quanto fragile, condannata dalla società, la stessa che intende impartire a Juri e che, improvvisamente, Shota avverte in tutta la sua assurdità. “I bambini che non possono stare a casa, allora vanno a scuola”, dice alla piccola, quando incontrano due bambini vestiti di tutto punto con il loro zainetto. Shota è personaggio “alla ricerca”, caratteristica che si rivela nella scena della sua enunciazione quando, prima del consueto rituale del taccheggio, si ferma davanti ad un specchio, esitando. Sullo sfondo della comunità rappresentata dal suo nucleo famigliare, Shota emerge nella sua individualità, nella costante tendenza a riparare in uno rifugio proprio (dove colleziona oggetti tra i più disparati), nella sua passione per i libri, nonostante non vada a scuola.

Le motivazioni che spingono il ragazzino a denunciare la propria condizione, coinvolgendo l’intera famiglia, sono almeno due: una, diretta, ha certamente a che fare con la rivelazione degli inquirenti, la fuga notturna di Osamu e degli altri che significa abbandonarlo a se stesso; la seconda consiste invece in un desiderio di svolta, del quale Shota prende definitivamente coscienza quando un anziano commerciante, scoperto uno dei suoi furti, lo ferma con un’ammonizione: “Non insegnare queste cose a tua sorella”. A partire da questo momento, il ragazzino risolverà il conflitto tra i valori che sorreggono la sua famiglia (negati dalla società) e i valori “positivi” che questa afferma a favore dei secondi. Lo stesso desiderio di svolta che lo spinge infine a gettarsi nel vuoto, dopo aver protetto Juri dall’umiliazione e dalla condanna della società.

In relazione all’incidente di Shota, che avvia il film ad un lungo epilogo da “legal drama”, la gita al mare assume i caratteri di una premonizione. La scena, pervasa da una luce che conferisce una patina chiara alle immagini, vede il dialogo tra Nobuyo e Hatsue. Le due donne sono sedute sulla spiaggia e stanno terminando il pasto, mentre osservano gli altri giocare con le onde. Nobuyo, felice, esprime la sua fiducia in una famiglia non necessariamente legata da legami di sangue. La nonna, che condivide la gioia di Nobuyo, la mette però in guardia: “Non illuderti, non illuderti…”. La scena si conclude con questo personaggio, solo, intento a curarsi i segni del tempo e a guardare i propri famigliari. Dice “Grazie”, ripetendolo tre volte, in una sorta di liturgia che la distacca dagli altri. Serenamente. Nonna Hatsue è vicina alla morte, ma la sua ultima comparsa è associata ad una atmosfera in cui gioia e nostalgia si fondono armoniosamente. Verrà la morte, e con essa la fine dell’avventura famigliare.

Se l’arresto della famiglia, colta in flagrante nell’atto di abbandonare la casa di notte, poche ore dopo il ricovero di Shota in ospedale, sancisce la fine dell’”avventura”, l’interrogatorio di Nobuyo, nella sua sospensione, nella fredda ineccepibilità delle accuse, rappresenta la presa di coscienza della fine dell’utopia. Entrambi i momenti sono rappresentati attraverso due scene molto caratteristiche: nella prima, della durata di pochi secondi, le figure di Osamu, Nobuyo e Juri sono illuminate dai fari accecanti della polizia, in un silenzio che enfatizza la fragilità di un sogno; lo stacco porta ad un primo piano dell’uomo, impotente, sconfitto. In questa luce che divora i volti dei personaggi, la brutalità del destino.

La seconda consiste invece in un piano sequenza fisso, frontale, che mette al centro la donna, sullo sfondo di una parete scura. La macchina da presa ne coglie le esitazioni, i sospiri, le espressioni tese ad una ricerca che non produrrà risposte certe. Accusata di aver rapito due minori per compensare l’impossibilità di averne, Nobuyo tenta di reagire, per finire poi sopraffatta dalla freddezza morale della detective. Le parole lasciano così spazio a sguardi fissi, persi nel mistero della maternità, a gesti pieni di pietà per se stessi.

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La scena finale, che vede la piccola abbandonata sul balcone di casa, nella stessa situazione in cui appena un anno prima Osamu e Shota l’avevano incontrata, esprime efficacemente la riflessione di Kore’eda sull’assurdità dell’agire umano, sulla cecità di una società che perpetua l’errore. E nell’ultima inquadratura del film, nel primissimo piano di Juri che si sporge dalla ringhiera, anticipando l’atto suicida, la denuncia del regista assume il suo punto esclamativo.

Alla sua quarta partecipazione al Festival di Cannes, a cinque anni dal primo film che presentò in concorso (Father and Son, Soshite Chichi ni Naru そして父になる), passando per Little Sister (Umimachi Diary 海街, 2015) e il già citato Ritratto di famiglia con tempesta (in gara nella prestigiosa sezione “Un Certain Regard” del 2016), Kore’eda Hirokazu fa centro con un’opera che prosegue la sua indagine sulla definizione di famiglia senza rinunciare ad un messaggio politico “forte”, affrontando direttamente questioni che travalicano i confini del suo Paese, come l’allargamento dei diritti e il declino dei sistemi di welfare pubblico. Lo fa grazie al contributo della cara Kirin Kiki, all’ultima prova di una lunga carriera (l’attrice è scomparsa a settembre) e ad un cast di primo livello, con i pressoché esordienti Kairi Jyo e Sasaki Miyu. L’ottimo esito di Un affare di famiglia, la grande attenzione di critica sollevata dalla vittoria di un premio così prestigioso, non possono che offrire, al grande pubblico, l’occasione di una scoperta più approfondita dell’opera di questo regista, uno dei protagonisti indiscussi del cinema mondiale di questi anni Dieci.

Kore’eda Hirokazu con la Palma d’oro al miglior film, applaudito dalla Presidente di giuria Cate Blanchett.