Unica tappa italiana per Brian Wilson all’Anfiteatro Greco di Taormina. Una performance costellata di canzoni epocali che tuttavia decolla soprattutto grazie ad un lavoro “corale” della band composta da ben 11 elementi che affianca e coadiuva la leggendaria voce dei Beach Boys.
Ci sono concerti che fin dal loro annuncio ti si palesano davanti agli occhi come un’ultima corsa fuori-tempo, aggiunta inaspettatamente, di treni che credevi aver perso per sempre. Questo è un po’ quello che accade quando dei giganti, che per motivi puramente anagrafici non hai potuto vedere esibirsi nel momento in cui splendevano gloriosi, intraprendono dei tour commemorativi, a distanza di decenni.
Questo è quello che accade quando Brian Wilson annuncia una data a Taormina in occasione del cinquantesimo anniversario di quella pietra miliare che è “Pet Sounds”. Nonostante l’album sia uscito a nome “Beach Boys” è storicamente considerato un parto solista di Wilson, diventato fonte d’ispirazione per molti artisti già a loro volta monumentali come Elton John o Paul McCartney.
Il teatro greco non è affatto gremito come ci si aspetterebbe, considerato fra l’altro che si tratta di un’unica data in Italia, e le aree laterali, oltre a diverse file sparse per gli altri settori, sono deserte.
Sul palco si presentano in ben undici elementi, tra cui due personaggi che hanno condiviso un’importante fetta di storia con i Beach Boys, in qualità di musicisti e autori, Al Jardine e Blondie Chaplin.
Brian Wilson, reduce da intervento chirurgico alla schiena – a causa del quale ha dovuto annullare molte date mesi addietro – fa il suo ingresso accompagnato da due assistenti, oltre che da un tutore, e guadagna subito il posto dietro il pianoforte a coda. L’aspetto non è dei più rincuoranti, i suoi splendidi occhi blu sembrano disorientati e persi nel vuoto, quasi inconsapevoli di ciò che sta per accadere.
Il concerto, contrariamente alle previsioni, non inizia sulle note di “Pet Sounds”, ma su quelle di altri brani epocali tratti da vari album della band di Hawthorne, come California Girls, I Get Around, Don’t Worry Baby. Fin da subito appare forte e chiaro il contrasto tra il coinvolgimento e il determinante contributo di tutti i musicisti, ai fiati, alle tastiere, alle percussioni e l’impalpabilità della presenza di Brian Wilson pari a quella di una statua di cera del Madame Toussaud’s.
Le parti vocali sono perlopiù eseguite dal figlio di Al Jardine, Matt, che con i suoi falsetti riesce a ricreare le atmosfere spensierate dei Beach Boys degli esordi, mentre Mr. Wilson si limita a cantare singoli e sporadici versi dei pezzi in scaletta. A dominare la scena ci pensano, oltre al già citato Matt Jardine, il padre Al, che, nonostante l’età, ha energia da vendere e l’attitudine da rock’n’roll star di Blondie Chaplin alla chitarra e alla voce in alcuni brani come Sail On, Sailor.
L’esecuzione di “Pet Sounds” si srotola impeccabile, rinnovando ad ogni pezzo la marmorea evidenza che la musica dei Beach Boys è parte integrante del DNA di intere generazioni, per quanto il volto e la voce affaticata di Brian Wilson, la lineino di triste nostalgia.
Wouldn’t be nice, God Only Knows, Sloop John B. ci fanno riconoscere come ereditieri eternamente grati di tanta bellezza.
In coda a “Pet Sounds”, un’ulteriore sequela di storici pezzi, che farebbero scatenare anche coloro che sono “six feet under”. E così Good Vibrations, Barbara Ann, Surfin’ in the USA, abbattono le distanze tra i posti a sedere e il palco e fanno delle battute finali una grande festa degna degli anni ’70.
Dopo, le note malinconiche di una Love and Mercy, cantata per intero da Brian Wilson, fungeranno da perfetto commiato a quella che è stata una personalità unica nella storia della musica, un indissolubile concentrato di genio e fragilità.