Intercettati prima del release party per l’ep “Flower” all’Astoria, i Nowolf ci hanno parlato di svolte artistiche, influenze musicali, Anni 90 e Torino, per poi travolgerci col loro flusso di chitarre.
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Un genere di scrittura dinamico, in stretta relazione col trascorrere del tempo che porta a creare come un flusso continuo di piccole pubblicazioni. I Nowolf hanno una filosofia che mette in primo piano il live e da esso traggono forza per mantenersi indipendenti nelle produzioni. Ma partiamo da un cambio di formazione…
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Dunque, siamo nel basment dell’Astoria con i Nowolf, Dario Santo e Andrea Laface. Due chitarre: ma non eravate in tre?
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Andrea e Dario: una volta eravamo in quattro! E noi, addirittura, siamo subentrati quando il gruppo esisteva già. I Nowolf sono una specie di flusso e noi due rappresentiamo la parte attuale di questo flusso che continua ad evolversi fin dai tempi del Liceo.
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Questo ensamble ridotto all’osso è più funzionale per voi?
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A: per noi, per il momento, è la situazione perfetta. E’ molto funzionale a qualsiasi idea ci venga in mente. Soprattutto per quanto riguarda la scrittura. Il tempo che trascorre tra la stesura del brano e il suo svolgimento durante un live è il minimo indispensabile e per me è molto importante questo, arrivando da altre esperienze con altre band con molte più teste al loro interno, in cui il tempo è più dilatato e si fa più fatica a mettersi d’accordo.
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D: diciamo che per sperimentare è l’ideale, sì.
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Dal primo album “Flow On” all’ep attuale passando da “Re-Wolf”, oltre al numero di musicisti sono cambiate altre cose. Penso alla scelta di cantare in Italiano ad esempio.. come è arrivata questa decisione?
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A: la scelta è stata meditata negli anni ma non abbiamo mai davvero messo in pratica questa idea fino al periodo in cui abbiamo registrato “Re-Wolf”. Un amico ci chiese di registrare dopo averci sentiti in una delle nostre prime esibizioni in versione duo dicendoci che gli eravamo piaciuti molto di più in questa versione “ridotta”. Al momento di andare a registrare i testi decisi un po’ d’impulso di mettermi a tradurre tutte le liriche e così abbiamo fatto uscire “Re-Wolf” sia in versione inglese sia in versione italiana e ci sfiorò anche la pazza idea di realizzare un vinile con lato A in Inglese e lato B in Italiano (un po’ alla Celentano) ma per fortuna abbiamo desistito (risate NdR). Fatto sta che la parte in italiano ci è piaciuta talmente tanto che abbiamo deciso di adottarla come lingua principale dei nostri testi.
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E poi viviamo un periodo felice per chi fa musica con testi in italiano…
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D: sì, assolutamente un buon momento
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Una delle cose più fighe che avete fatto, e lo dico da feticista dell’oggetto in questione, è stata far uscire gli EP in versione “cassettina”. Una scelta dettata da una nostalgia un po nerd o solo una provocazione?
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D: beh, intanto è importante sottolineare che con la cassetta si prende anche la versione digitale dell’EP. Anche perchè la cassettina è bellissima per il collezionista ma c’è il rischio di perdere un po di appeal nei confronti degli altri fan.
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A: è provocatorio fino ad un certo punto. Diciamo che è abbastanza inevitabile l’estinzione del formato cd, quindi piuttosto che realizzare quelle classiche bustine di cartone di cui tutti siamo pieni a casa, e tra l’altro, a volte bruttissime, abbiamo pensato che la cassetta fosse in un certo modo più bella. E poi il nastro (abbiamo registrato tutto su quattro piste) e il calore che riesce a dare e soprattutto l’aspetto lo-fi della nostra musica, insomma, rende il prodotto anche più credibile rispetto al cd. Ci stava bene.
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Si e poi è molto nineties, si addice al vostro suono, come avete già accennato. Ma esattamente dove si trovano gli anni 90 nel vostro ep?
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A: secondo me a monte. Nel senso, non tanto in quello che abbiamo fatto quanto in quello che abbiamo ascoltato. Non so, per me è un po’ la “forma canzone” di cui mi innamoro. Non nel senso di strofa, ritornello e così via, ma proprio l’idea che la canzone sia un esperienza, non so, come una caramella, una cosa che inizia e finisce e che non dica necessariamente qualcosa. Non sono neanche molto fan dei concept album. Al giorno d’oggi soffriamo tutti di deficit dell’attenzione (risate NdR) e per me fare un ep con poche canzoni ha più senso. O addirittura uscire solo con i singoli, che ne so, uno al mese. Ti dà un idea più fedele di quello che sta accadendo nelle nostre menti.
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D: come creare dei “pacchetti” di ciò che sta accedendo in quel momento nelle nostre teste
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A: anche perchè per fare un album ci vanno a volte anche due anni e io non so se fra due anni quella roba mi apparterrà ancora o se semplicemente vorrò ancora ascoltarla. Anzi, al 99% no! cancella quella roba (risate NdR)
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D: è questo ci dà anche lo spunto per quell’argomento che è: che genere fate? domanda che tu non volevi farci vero?? troppo banale e scontata (risate NdR)
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Assolutamente no!
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D: beh comunque, è proprio questa malleabilità della musica e dei brani che creiamo che riconducono ad un genere che è difficile da definire. Si, ci sono delle sonorità, ma è proprio una questione di due background di ascolto diversi che a volte si incontrano e a volte no. E riusciamo comunque a riproporre qualcosa che abbia senso in un ep, in un album o nei singoli.
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Ok, avete accennato a ciò che avete ascoltato, potreste dirmi chi sono gli artisti che vi hanno influenzato di più e senza l’esistenza dei quali non fareste i musicisti
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D: mmm… per me è difficile da spiegare, è stato un processo strano. Io ho iniziato a suonare il basso nei Nowolf pur avendo studiato chitarra per tanto tempo. L’ho accantonata per un po’ ma adesso essendo tornato a suonarla e a scrivere tramite chitarra mi rendo conto di aver ripescato tantissime cose dei Radiohead, magari piccole, fraseggini qua e la, che magari non si percepiscono direttamente in quello che faccio però a volte suonando penso proprio “cazzo, queste cose mi uscivano da piccino suonando i Radiohead” e quindi credo ci siano degli spunti del genere in quello che sto facendo adesso.
A: io ti posso dire che, avendo un fratello più grande di dieci anni, ho sempre ascoltato più o meno la sua roba e per un buon periodo ricordo che si ascoltava un sacco di metal. Poi mio padre, contemporaneamente, mi faceva sentire i Queen. Ma il vaso di Pandora si è scoperchiato al liceo quando ho conosciuto lui (Dario) e altri amici e ho iniziato ad ascoltare i Pixies. Mi hanno cambiato la testa. Nel modo di scrivere le canzoni intendo. E poi parlando di roba più recente ti direi gli Arctic Monkeys.
Stasera suonerete in questo basement per presentare “Flower”. Un ep che sembra porre le basi per molti altri lavori..
D: progetti in effetti ne abbiamo, ma dobbiamo ancora decidere se realizzare un album o se, appunto, concentrarci su questa cosa dei “pacchetti” musicali
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A: si dobbiamo ancora capire. Perchè ci sono dei momenti creativi molto veloci e magari escono fuori dieci basi molto simili ma buttarle tutte su un unico lavoro non ha molto senso e non mi piace. Vorrei continuare a sfornare piccoli ep. E’ anche una questione di tempo: realizzare un album è una esperienza bellissima ma ci va il tempo di sfornare tanti brani, selezionarli, capire quali dovrebbero stare nell’album… e poi magari nascono dei brani anche durante le jam, e allora che fai? li metti? non li metti?
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Preferite un approccio più flessibile insomma, come già abbiamo detto. Ora vorrei mi diceste qualcosa dell’ambiente in cui siete cresciuti invece. Torino è diventata una straordinaria fucina di talenti e ambiente perfetto per la sperimentazione artistica. I Nowolf farebbero qualcos’altro, artisticamente parlando, se non fossero nati a Torino?
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D: personalmente credo che non sarebbe cambiato più di tanto. Torino è senz’altro una scena molto vivace e attiva, c’è un sacco di concorrenza (che è una bella cosa) ma non sono ancora riuscito a capire quanto il pubblico possa essere ricettivo. Questo è un altro discorso ma dal punto di vista della creatività la mia produzione è abbastanza “intima” quindi non mi sento troppo influenzato dalla scena.
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A: io penso c’entri molto invece, non tanto per l’ascolto quanto per le dinamiche tra gli artisti della scena, lo scambio di idee, discutere, frequentare alcuni luoghi… In un altra città sarei una persona diversa quindi sicuramente cambierebbe quello che faccio.
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E parlando a livello nazionale invece, cosa pensate di questo momento “d’oro” dell’Indie italiano?
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D: guarda, oggi ho ascoltato l’ultimo pezzo di Calcutta e oltre ad essere uguale a tutti gli altri… (risate NdR) no dai, scherzo, è carino. E’ un buon momento e diciamo che l’Indie a livello di notorietà medio-bassa, penso a un Colombre o un Giorgio Poi, è sicuramente molto interessante.
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A: è strano, secondo me, come l’indipendente sia diventato il Mainstream. Prendiamo ad esempio Calcutta, o Motta. Da un lato è molto incoraggiante perchè significa che se uno ci crede può arrivare, per quanto possa essere derivativo e frutto della moda. Dall’altro lato, che si metta così tanto in mezzo il fattore social e promozione c’entra poco con la parola Indie. E mi spaventa il fatto di non avere la mia indipendenza artistica nei confronti di un’etichetta che magari mi chiede proprio quello.
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D: si arriva poi inevitabilmente a dei compromessi..
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A: ed è ovvio che il “no” categorico, soprattutto in questo periodo storico, non esista. Quello che stiamo facendo noi adesso è frutto del consenso di chi ci viene ad ascoltare live e questo ci dà davvero indipendenza. Zero filtri, zero intermediari. Stiamo facendo tutto da soli e comunque le date non ci mancano. Abbiamo avuto due mesi belli pieni e anche giugno lo sarà. Quindi questa cosa di non stare alle richieste di qualche etichetta, non spendere capitali in p.r. e non accanirci sui social sta pagando.
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Vi chiedo di consigliare un disco a testa ai lettori di OUTsiders.
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A: attuale?
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Potete andare indietro nel tempo fino al grammofono.
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D: ma, a me ne viene in mente uno così d’istinto ed è “Creep on creepin on” dei Timber Timbre
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Li hai sentiti ai TOdays?
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D: assolutamente sì, ho fatto una 24 ore filata tornando dal salento solo per loro. Sicuramente un ascolto che consiglio a chiunque. Una groove e un atmosfera pazzesca in quella chiave pop, in un certo senso.
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A: io invece non riesco mai a rispondere a queste domande (risate NdR) sai, selezionare o scegliere un artista.. in questo momento però così d’istinto ti direi un album che mi sono divorato poco tempo fa: “The low end theory” dei A Tribe Called Quest. Mi ha distrutto la testa completamente e l’ho ascoltato in loop durante un intero viaggio. “Excursions”, la prima traccia, è pazzesca. Con quel contrabbasso campionato.. e poi anche “Hello Nasty” dei Beastie Boys. Questi due album sono le cose da cui sto traendo più ispirazione al momento. Non dico che potremmo iniziare a fare Hip Hop però in effetti sulle basi ci stiamo lavorando…
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Beh! ma la svolta Hip Hop sarebbe una figata
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D: almeno a livello di basi e ritmiche sicuramente
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E le ritmiche della cumbia che in questo momento risultano così interessanti?
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A: quelle le lasciamo ai nostri amici Indianizer che stanno facendo cose fighissime
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Si fanno le undici di questo sabato sera e c’è un buon numero di persone ad aspettare il suono di quelle due chitarre. Anche se siamo in un club, inizia quello che – per grado di intimità e coinvolgimento – potrebbe essere un vero e proprio house concert.
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Dario e Andrea sotto le luci soffuse e colorate sembrano in raccoglimento e in questa atmosfera intima iniziano a dispiegare il tessuto sonoro di “Flower” tramite i loro strumenti, legati al sampler da un patto di sangue e vestiti dai riverberi a pedale. Noise. Lo-Fi. La distorsione continua aiuta a trasmettere l’idea di un flusso, un perpetuo movimento in cui le voci sembrano nuotare dentro. “Pura noia”, “Fossa di Achab”, “Dissolvenza” e “GUT (Giovane Usura Totale)” sono brani che non finiscono mai come iniziano. Hanno una nascita, una maturazione e poi una fine che potrebbe coincidere con un nuovo inizio. Una tensione vitale, espressa attraverso una incredibile fantasia di beat ed effetti che cambiano e plasmano queste piccole suite lisergiche. E noi, allora, ne aspettiamo altre.
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