VERSO UN’IDENTITÀ
NEW YORK post 11 settembre. In un salotto ai piani alti di Manhattan si trovano lo spregiudicato avvocato in carriera Amir Kapoor (pakistano), sua moglie e pittrice Emily affascinata dall’arte islamica (americana), lo smagliante e malizioso gallerista Isaac (ebreo), sua moglie e collega di Amir Jory (afroamericana). Sembra l’inizio di una barzelletta, o un nuovo Carnage polanskiano, ma c’è ben poco da sollazzarsi lì dentro. Amir rifiuta le sue origini, e questo rigetto è per gli altri astruso e inammissibile. L’incubo dell’incomprensione e dell’ancestralità dei propri impulsi prenderà corpo in una violenza trasognata e tuttavia tangibilissima, a livello sia fisico che verbale.
L’amabile conversazione intorno al tavolo si polverizzerà, briciola dopo briciola, e Amir rivelerà quello che non è: non è il Sogno Americano che ha sempre finto d’incarnare –egli ha solo giocato d’anticipo per poter rientrare appieno in ciò che l’Occidente vorrebbe sentire e vedere in un musulmano;non è rimasto così sconvolto dal crollo delle Torri -ha anzi provato una sorta di “vampata d’orgoglio”; non è un civilizzato nel senso, per così dire, istituzionale del termine: si annidano in lui identità tribali, e questa eco atavica gli fa sfuggire l’appartenenza, lo ostacola nel suo cammino verso l’identità. Come spiega chiaramente Akhtar, “Amir non può liberarsi dell’animosità che sente nei confronti dell’Occidente che non lo accetterà mai, e questo naturalmente non può che fomentare il suo orgoglio come reazione. E altrettanta rabbia, inconscia e subconscia”. Amir non è più in grado di autodeterminarsi, e dichiara a voce alta: io non sono quel che voi pensate che io sia.