L’inquietudine della globalizzazione: Disgraced e il dramma dell’identità

Martin Kušej, direttore del Residenztheater di Monaco, mette in scena Disgraced del premo Pulitzer Ayad Akhtar, in cui ipocrisia e tensioni religiose-culturali s’intrecciano in un dramma che ha il sapore di tragedia antica. Fino al 20 ottobre al Teatro Carignano di Torino. 
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_di Silvia Ferrannini
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La dimensione di Disgraced-Discrimini è esattamente quella denunciata dal titolo: la sciagura, la caduta in rovina, la perdita della grazia. Sciogliendo il corpo della parola (dis-graziato, dis-crimine) s’accresce il presentimento per cui un piccolo corpo estraneo (un prefisso, che sarà mai) può contaminare e allargare l’ombra delle cose, farne nascere una tensione. È spennellato di nero fin dalle premesse lo spettacolo di Martin Kušej: nero come il carbone di cui è cosparso il palco e sul quale si sporcano, inciampano, scalciano e s’impongono attori. Questo stesso palco, reclinato verso il pubblico, è cinto da pareti bianchissime: ma niente possono contro questa tenebra che s’attacca ad ogni passo dei protagonisti. la scena settica entro cui i protagonisti tentano di sventare la sciagura accerchia i protagonisti e punta diretto a noi: non s’intravedono scappatoie.

VERSO UN’IDENTITÀ

NEW YORK post 11 settembre. In un salotto ai piani alti di Manhattan si trovano lo spregiudicato avvocato in carriera Amir Kapoor (pakistano), sua moglie e pittrice Emily affascinata dall’arte islamica (americana), lo smagliante e malizioso gallerista Isaac (ebreo), sua moglie e collega di Amir Jory (afroamericana). Sembra l’inizio di una barzelletta, o un nuovo Carnage polanskiano, ma c’è ben poco da sollazzarsi lì dentro. Amir rifiuta le sue origini, e questo rigetto è per gli altri astruso e inammissibile. L’incubo dell’incomprensione e dell’ancestralità dei propri impulsi prenderà corpo in una violenza trasognata e tuttavia tangibilissima, a livello sia fisico che verbale.

L’amabile conversazione intorno al tavolo si polverizzerà, briciola dopo briciola, e Amir rivelerà quello che non è: non è il Sogno Americano che ha sempre finto d’incarnare –egli ha solo giocato d’anticipo per poter rientrare appieno in ciò che l’Occidente vorrebbe sentire e vedere in un musulmano;non è rimasto così sconvolto dal crollo delle Torri -ha anzi provato una sorta di “vampata d’orgoglio”; non è un civilizzato nel senso, per così dire, istituzionale del termine: si annidano in lui identità tribali, e questa eco atavica gli fa sfuggire l’appartenenza, lo ostacola nel suo cammino verso l’identità. Come spiega chiaramente Akhtar, “Amir non può liberarsi dell’animosità che sente nei confronti dell’Occidente che non lo accetterà mai, e questo naturalmente non può che fomentare il suo orgoglio come reazione. E altrettanta rabbia, inconscia e subconscia”. Amir non è più in grado di autodeterminarsi, e dichiara a voce alta: io non sono quel che voi pensate che io sia.

I suoi ospiti tanto illuminati e politically correct reagiscono muovendosi nell’unico modo che la loro pesante armatura di liberalismo, falso progressismo, buone maniere e convinzioni fantocce consente: roboticamente, sillabando frasi di circostanza che non intacchino l’ordine, fissando lo sguardo nel vuoto. Adempiono a rituali di non belligeranza evitando di confessare che anche loro (si vede chiaramente nel corso dello spettacolo) si sono sporcati, hanno ceduto, si sono sottomessi con mansuetudine. Nessuno è neutrale: esistono solo diversi gradi della stessa ipocrisia.

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’INTOLLERANZA

Martin Kušej, con la sua regia, coglie il fil rouge che Akthar dipana parola dopo parola nella sua opera : Disgraced è cronaca nervosa (e nevrotica) di una modernità alla ricerca di se stessa: è essenzialmente un dramma sull’identità. Non sulle religioni, non sull’Islam: dal percorso di Amir emerge in maniera evidente “il problema di perdere il contatto con se stessi e di trovarsi così esposti senza difese alle emozioni che ci assalgono e ai ricordi rimossi […] questo è il Sogno Americano e la sua menzogna”. Amir ha sempre rinnegato se stesso, votandosi alla retorica del self-made man e della secolarizzazione e fingendo che la sua esperienza sia come quella “della maggioranza”, conforme a quella dei più. Amir nel suo studio legale amministra la giustizia come fosse un uomo d’affari, da perfetto professionista occidentale: eppure sa di non esser visto come affidabile, “pulito”. Finché può, si sottomette a questa selezione naturale: ma quando si troverà nel clima esasperato della cena borghese e pronuncia anche solo poche parole (ma ponderatamente scelte: “vampata”, “orgoglio”) sulla sua qualità di diverso, si scatena il degrado, lo scherno, il sospetto.
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Quel che Akthar sembra voler dire tramite l’intelligente regia di Kušej è che il sentimento della diversità non si uccide: esso risiede in uno spazio mentale di segregazione che è, in fondo, presente in tutti. In Disgraced la condanna a doversi fingere non-alieno esce dal silenzio, per poi irrimediabilmente tornarvici: nella più perfetta solitudine, nell’acme del fallimento Amir assapora l’esperienza dell’incomprensione più feroce, verso se stesso e verso l’Altro: ed è questo un cammino che lo spettatore segue passo dopo passo, interrotto di tanto in quanto da illuminazioni inattese: tale è il quadro di Velàzquez Ritratto di Don Juan de Pareja a cui Emily s’ispira per ritrarre il marito. Il pittore di Siviglia rappresentò qui il suo assistente (che ai tempi significava servo personale), un moro che, in seguito alla repressione da parte della monarchia spagnola, divenne egli stesso pittore perché liberato dal padrone.
Lo sguardo sospeso e mansueto del soggetto pittorico è, per Emily, riflesso dell’interiorità di Amir; Isaac di contro vi legge rabbia e orgoglio. Ma egli sta comunque guardando il padrone, il solo che ha il potere di donare o sottrarre la libertà. Forse sul volto del ritratto si legge, con velata mestizia, di un essere umano impossibilitato ad autodeterminarsi.

KILLING IN THE NAME OF

Partire dall’identità musulmana contemporanea per investigare le incongruenze dell’essere umano civilizzato (o presunto tale) è una scelta coraggiosa, in particolare nel nostro paese. Non è arduo vedere che esiste un dislivello tra la figura di Amir e l’extracomunitario medio in Italia. Il fatto poi che Amir sia (o creda di essere) così integrato nella struttura capitalistica della società americana ci porta a non qualificarlo come esterno a noi: anche noi bianchi, occidentali, di cultura cristiana conosciamo fin troppo bene le dinamiche dell’accettazione, dell’inclusione nel mondo d’oggi secondo regole e manovre ben mirate. La differenza, probabilmente, è che per noi questo è più facile: se il prezzo da pagare “umanamente” rimane comunque alto, per noi andare avanti secondo l’ottica del “avere successo implica tutto questo e va accettato” è forse meno problematico. Amir deve fare i conti con una tradizione radicalmente diversa, la quale comunque contempla la sottomissione (Islam significa questo: consegna totale di sé, obbedienza): son parole queste che suscitano scalpore nel nostro Occidente illuminato ed emancipato…ma anche profondamente soggiogato alla logica del bisogno e alla necessità del conflitto come strumento d’integrazione e consenso.
Ecco allora che la legge si prospetta drammaticamente uguale per tutti: o sei dentro o sei fuori, o fai le regole o le subisci. Se ti schieri contro soccombi. Se poi scatta la reazione e l’urto si concretizza (così come avviene durante la cena) si delinea la tragedia. Significativamente, il momento di pura evasione dalla bolla di convenzione in cui sono intrappolati i protagonisti è accompagnata dalle note dei Rage Against The Machine: il non-detto che corre sotterraneo per tutta la pièce erompe e pone lo spettatore di fronte a una sorta di epifania amplificata dalla specificità dello spazio entro cui questa si esplica. Kušej crea uno spazio che catalizzi alla perfezione quello che avviene al suo interno: ridotto all’essenziale e privo di suppellettili inutili, questo è soprattutto spazio mentale dove il dramma dell’incomprensione assume unicamente la voce e il corpo dei protagonisti, costretti veramente a “camminare sui carboni ardenti” e a sottoporre tutto a misura. A Kušej l’estetica non interessa: svuotare dell’inessenziale e portare a galla nuove consapevolezze è il vero fine dell’allestimento e della creazione teatrale. In questo luogo inedito non ci sono zone franche nelle quali ripararsi.

DISGRACED (DIS-CRIMINI)

Di Ayad Akthar (traduzione di Monica Capuani)
Regia di Martin Kušej
Con: Paolo Pierobon (Amir), Anna Della Rosa (Emily), Fausto Russo Alesi (Isaac), Astrid Meloni (Jory), Elia Tapognani (Abe)
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
con il sostegno di Fondazione CRT