Dall’11 al 13 agosto si è tenuta la 21esima edizione di uno degli appuntamenti musicali più longevi e attesi in Sicilia, l’Ypsigrock.
di_Raffaele Auteri
Ypsigrock segna un momento dell’anno di totale distacco dal mondo. Ci si rifugia a Castelbuono, splendido borgo medievale in cima alle montagne del palermitano, pronti ad assistere a tre giorni intensi di musica, ma soprattutto a vivere questa mini vacanza condividendo con persone provenienti da tutta Italia ed Europa questa grande passione. C’è chi la vive con più tranquillità, affittando una delle tante case in centro, e chi invece vuole il contatto con la natura e prende parte alla grande massa di campeggiatori rifugiandosi in mezzo ai boschi. Il paese è splendido, sembra una Taormina in miniatura: si percorre la strada principale sempre più su, fino a giungere a Piazza Castello, sede dei concerti principali del festival.
Il giovedì, per chi comincia in anticipo il festival, si respira un’aria rilassata e tranquilla; si esplora il paese, si programmano i giorni seguenti, si gusta qualche specialità tipica (su tutte la Manna di Fiasconaro) e poi ci si precipita su al campeggio, in piena montagna, per la festa inaugurale.
Sono ancora poche le persone presenti, ma questo non ferma i When Due, prima band ad esibirsi. Originari di Castelbuono riescono a dare energia anche a chi era arrivato stanco dopo il lungo viaggio verso Ypsigrock, con brani energici, che alternano basso, chitarra e batteria a basi elettroniche davvero curate. Terremo d’occhio questi ragazzi.
Il venerdì è già cambiato tutto: giunti in paese il senso di tranquillità e pace che fino al giorno prima ci cullava e rilassava, è stato sostituito da una sottile elettricità nell’aria (complice il leggero mal tempo, tanto invocato dopo settimane di afa in Sicilia). Ecco allora quel sottile stato di eccitazione, condito da uno spettacolo come pochi: le nuvole grigie che si poggiano dolcemente sulle montagne, evocando un’immagine lynchiana di tutto rispetto.
I live iniziano sempre al Chiostro dei Ventimiglia, dove più che Bry, cantautore irlandese, spicca sicuramente l’apertura ufficiale del festival di Sergio Beercock. L’italo-inglese si diletta con brani folk originali e ben interpretati. La teatralità con cui mette in scena, una dopo l’altra, le sue canzoni rapisce e l’emozione palpabile sul viso e nella voce di Sergio non fanno altro che rendere ancora più sincera e bella la sua esibizione, condita da incredibili guizzi vocali. Emblematica la sua Jester, che ci riporta davvero ai tempi di re e cavalieri.
Subito dopo in chiesa troviamo Han, una delle tante promesse italiane che strizzano troppo l’occhio al pop estero (Daughter su tutti). Lo stage dell’ex Chiesa del Crocifisso poi, non aiuta, sicuramente il tallone d’achille del festival: la location è magnifica, ma invivibile: troppo caldo, troppe persone. Programmare più turni, in modo da gestire meglio l’afflusso di spettatori, avrebbe consentito a tutti di vedere un live in condizioni accettabili. Ne hanno risentito anche Amnesia Scanner, il sabato, e Aldous Harding, la domenica ma la loro esibizione ha comunque colpito tantissimo. I primi hanno praticamente trasformato la chiesa in un rave, inondandoci di riverbero e trasportandoci con la loro trance/psy pestata. Visual inquientantissime e luci stroboscopiche hanno sconvolto il pubblico. La cantautrice Neo Zelandese, invece, è famosa per l’impatto che ha dal vivo. Un concerto toccante che, come scritto sopra, non è stato possibile godere a pieno.
La vera magia, comunque, arriva quando si entra in Piazza Castello, la sera. Il primo giorno di Ypsig è famoso per essere quello più rude, dove di solito salgono sul palco band energiche e prepotenti. Si inizia, infatti, con i Cabbage. Punk band inglese che di inglese ha davvero ben poco mentre suona. Lo stampo è tipico del punk californiano e la voglia di far baldoria è immensa. Dopo pochi minuti parte il pogo che travolge le prime file, tra chi fa crowdsurfing e chi salta e urla: uno spettacolo. I cinque ragazzi inglesi propongono poco meno di un’ora che scalda per bene la piazza, in attesa della seconda band, i Preoccupations.
Gli ex Viet Cong, sono reduci da un lunghissimo tour e forse la stanchezza si fa sentire. Leggermente sottotono l’esecuzione, in aggiunta a numerosi problemi tecnici sia sul palco che nell’impianto. I suoni sono a tratti impastati e nelle prime file si sente spesso male. Ciò che non coglie l’orecchio, però, lo fa l’occhio. Il live dei Preoccupations è esplosivo. I canadesi sono forse uno dei progetti con più personalità degli ultimi anni e sono delle vere e proprie macchine da guerra, specialmente Mike Wallace alla batteria, che catalizza l’attenzione intera di una piazza per la furia con cui cerca di uccidere il suo strumento. E poi bisogna ammetterlo, Death, dal vivo, è forse una delle cose più belle del festival.
Headliner del giorno sono, invece, i Ride. Il nome parla da solo, uno dei gruppi più famosi degli anni ’90 direttamente in Sicilia, reduci da un ultimo disco che è passato abbastanza inosservato. A circa due anni dalla reunion del quartetto di Oxfordshire i suoni sono più che rodati e la tempesta sonora ha inizio. Il muro di suono che riescono ad alzare è incredibile, complice un ottimo lavoro dei loro fonici, mentre l’esecuzione è impeccabile. Andy Bell e Mark Gardener si alternano sui più famosi brani del loro repertorio, mentre le schitarrate tipicamente britpop (estremizzate per l’effettistica della band) volano sopra una sezione ritmica incredibilmente potente e precisa. Anche i brani di “Wheater Diaries” trovano un impatto diverso, più accattivante e “shoegazing”.
Il sabato è, per definizione, il giorno folle di Ypsig. Impostato principalmente sulla musica elettronica, è diventato negli anni simbolo di miscuglio di generi, con artisti totalmente diversi che si alternano sui palchi, creando un melting pot musicale degno dei migliori festival europei. Oltre ai già citati Amnesia Scanner, infatti, il Chiostro apre le sue porte con il live di Estel Luz, che tuttavia non riesce a lasciare un segno indelebile sul pubblico. Cosa che invece riesce benissimo ad Adam Naas; il suo pop minimalista è di pregevole fattura e, sebbene la parte strumentale suoni un po’ ripetitiva, è perfettamente funzionale alla sua voce, splendida, tragica, cangiante. Capace di salti su un’ampia scala di tonalità, se si chiudono gli occhi non si capisce davvero se sia un uomo o una donna quello che guida la musica. Non importa, dopotutto, è bellissimo.
Piazza Castello ci accoglie con una delle nuove promesse italiane: Christaux. Ex Iori’s Eyes, adesso al debutto solista, porta dal vivo il suo primo disco, una serie di canzoni pop dal chiaro stampo anni ’80. A tratti dolce, a volte più movimentato, non manca nulla: il momento pianoforte e voce, i tamburi possenti, i ritornelli accattivanti (Tonight stenta ad andar via dalla testa).
Subito dopo, probabilmente, la migliore esecuzione del festival. Beak> è un progetto inclassificabile come genere. Il trio si muove su un territorio prevalentemente krautrock, spostandosi di tanto in tanto sul desert rock e su brani più trip-hop di chiarissima influenza Portishead (ma con Geoff Barrow alla chitarra questo era più che scontato). Capaci di intrattenere il pubblico durante le necessarie pause per esigenze tecniche, una volta che gli strumenti sono di nuovo in azione veniamo catapultati in quell’atmosfera magica e trasportante. Immensa la precisione del trio e l’incredibile gioco di dinamiche dei vari brani.
Siamo quasi a fine serata e la Piazza è pronta per la sua mutazione definitiva: una gigantesca pista da ballo. Sale sul palco Rejiie Snow, giovane rapper irlandese. Flow old school unito a basi più movimentate, a tratti jazzate, ma sicuramente più danzerecce nella dimensione live. Piazza Castello sembra un porto di mare, con persone che vanno e vengono a seconda del gusto musicale e di cosa vogliano ascoltare, ma anche chi si trova lì per caso viene coinvolto dall’energia del rapper e del suo DJ, vera anima della festa.
Siamo nel mood giusto e si attendono gli headliner del giorno. I Digitalism avevano un solo compito: far ballare per un’ora e mezza Castelbuono e sono stati promossi a pieni voti. I bassi che di solito rompevano gli equilibri per le altre band diventano protagonisti assoluti, rendendo impossibile restare immobili. Incisivi anche nei brani più lunghi degli ultimi lavori, senza dispersioni di energia, il concerto non ha mai un momento morto, e sono notevoli gli sviluppi di ogni crescendo con consecutivo drop.
Arriva la domenica, e si intravede già qualcosa negli sguardi degli Ypsini. È la malinconia che cresce, la consapevolezza che tutto sta, di nuovo, per finire. È una festa continua e oggi più che mai il paese è gremito di persone, complice la line up accattivante del giorno. Il Chiostro accoglie prima Bobbypin, progetto pop di origine tedesco/canadese, ma viene stravolto decisamente da quelli che, per molti, sono la vera sorpresa del festival, i Klangstof. L’atmosfera notturna e romantica del gruppo olandese meritava sicuramente il cielo stellato sopra Piazza Castello, ma d’altro canto l’intimità del Chiostro permette di creare un momento magico, di totale sintonia tra musicisti e spettatori. Bravi a suonare, fanno spettacolo e coinvolgono il pubblico. La massa prova ad appostarsi dove può e ogni due canzoni è standing ovation. Island in chiusura è un colpo al cuore e mentre scendono dal palco si perde il conto dei minuti di applausi.
Ma non c’è tempo e bisogna decidere come agire. Oggi, oltre ad Aldous Harding c’è un’esibizione d’eccezione. Dentro il Castello, per i pochi fortunati che sono arrivati in orario, troviamo Edda. L’intimità del Castello, le persone smistate tra scale, pavimento e balconi interni, la simpatia del cantautore milanese e, ovviamente, la sua grande capacità espressiva mentre canta, sono qualcosa di sublime. A primo impatto i testi e le canzoni possono sembrare banali, ma quelle rime baciate, quella semplice forma canzone e quelle parole così crude arrivano direttamente al cuore. Si vorrebbe restare in eterno a sentirlo cantare, ma il tempo stringe e non appena posa la chitarra ecco che parte la corsa per la transenna in Piazza.
C’è Car Seat Headrest, uno dei nomi più attesi del festival. Will Toledo è forse uno dei pochi musicisti propriamente indie che sono rimasti. Abbastanza introverso, porta una selezione del suo ultimo, acclamatissimo disco, coinvolgendo tutti sia con i brani più movimentati, che con le stupende ballate. Drunk Drivers/Killer Whales consacra definitivamente l’esibizione, concludendosi con il canto appassionto dei moltissimi ragazzi presenti.
Prendono posizione, subito dopo, tutte le coppie di Ypsigrock. Salgono i Cigarettes After Sex, una delle band più discusse dell’ultimo anno. Il concerto, a dirla tutta, diventa un po’ noioso verso la fine, ravvivandosi di tanto in tanto con i brani più noti degli EP, ma è anche vero che bisogna essere predisposti a un ascolto del genere, che diventa uno splendido e lunghissimo lento da ballo di fine anno. Le prime file sono l’emblema dell’amore e si sprecano i baci appassionati.
Oramai la Piazza è stracolma e salgono sul palco, per chiudere il festival, i Beach House. Il duo americano dal vivo diventa un trio, con il perfetto innesto di una batteria acustica, fondamentale per alzare il livello delle dinamiche dei loro brani. Chi pensava a un concerto piatto è totalmente fuori strada. È un sogno ad occhi aperti. Chi rimane in piedi, stranito, al centro della Piazza e chi invece si posiziona sulla cima delle scalinate. Non si riesce a pronunciare una parola. Le chitarre sono più energiche, il tappeto di sintetizzatori ci solleva dal suolo e la voce di Victoria Legrand è eterea e riecheggia tra le montagne. E non ci sarebbe nemmeno bisogno di quelle stelle riprodotte dietro il palco; il meraviglioso cielo sopra Castelbuono – dove si è perso il conto delle stelle cadenti – basta a se stesso.
È un sogno, non può essere altrimenti. Ma prima o poi bisogna svegliarsi, e tutto a un tratto è lunedì mattina, si preparano i bagagli e ci si avvia verso casa, con ancora in testa quelle canzoni, con ancora negli occhi le immagini di questo luogo meraviglioso fuori dal tempo e dallo spazio.
Ora ho capito perché le persone tornano ogni anno, perché gli artisti che ci sono stati fanno di tutto per suonare ancora qui. Castelbuono è una grande famiglia e mi sento davvero uno stupido ad averlo scoperto solo alla loro ventunesima edizione.
Mi viene in mente quella splendida canzone degli Strokes, Machu Picchu, dove Julian Casablancas cantava “I need a mountain I can climb”, un posto sicuro dove rifugiarsi e dimenticare tutto il male e la sofferenza del mondo.
Non so se Julian l’abbia mai trovata questa fantomatica montagna. Io, metaforicamente e letteralmente, l’ho sicuramente trovata a Castelbuono.
Al prossimo anno Ypsigrock, è una promessa.
GALLERIA FOTOGRAFICA A CURA DI CORRADO LORENZO VASQUEZ